8.9.19

Quando la scienza batte i proverbi. Non sempre l’occasione fa l’uomo ladro (Gianluca Mercuri)

Alain Cohn, Università del Michigan, Chicago

Uno dei motivi per cui frasi fatte e proverbi andrebbero evitati in un testo di qualità è che, oltre a denotare pigrizia intellettuale e scarsa facondia, esprimono spesso autentiche boiate. Prendete per esempio l’occasione fa l’uomo ladro, manifesto del cinismo italico e della rassegnazione al pessimismo e alla diffidenza. Per fortuna c’è la scienza, quel mix portentoso di pazienza, esperienza e competenza che porta a rovesciare i cliché più radicati. Anche nella scienza stessa, a seconda dei diversi approcci. Quello razionalista, per esempio, sposa di fatto la presunta saggezza popolare nel ritenere che interessi materiali e calcoli personali prevalgano necessariamente su considerazioni di natura collettiva. L’approccio comportamentista, invece, rifugge dalle teorie prefabbricate e valuta la condotta individuale come unica unità di analisi accettabile.
È comportamentista, non a caso, l’artefice di un clamoroso studio pubblicato da “Science” e ripreso dalla Bbc, l’economista Alain Cohn dell’Università del Michigan. Lui e il suo staff hanno condotto per tre anni — dal 2013 al 2016 — uno studio gigantesco, che ha coinvolto 355 città di 40 Paesi e, soprattutto, 17 mila portafogli. I partecipanti alla ricerca li smarrivano apposta, lasciandovi all’interno i bigliettini dei presunti proprietari, partecipanti a loro volta. Ebbene: in 38 Paesi su 40 — cioè tutti tranne Perù e Messico — la probabilità che i portafogli venissero restituiti si è rivelata maggiore quando contenevano denaro. Non solo: più soldi c’erano, più aumentava il tasso di restituzione. L’onestà e l’altruismo sono le ragioni primarie: anche portafogli contenenti chiavi, per esempio, venivano restituiti spesso. Ma la spiegazione psicologica più profonda la dà Lukas Zünd, economista dell’università di Zurigo e co-autore dello studio: «È facile non sentirsi disonesti quando ci si tiene un portafogli senza soldi perché non si guadagna niente. Ma diventa più difficile se si tratta di soldi». Il costo psicologico del sentirsi ladri, insomma, è spesso più forte del vantaggio materiale. Lo aveva già scritto un altro economista comportamentista, Dan Ariely, nel libro The (Honest) Truth About Dishonesty: «Noi esseri umani siamo pronti a rubare qualcosa che non abbia un esplicito valore monetario. Ma ci tratteniamo dal rubare direttamente soldi in una misura che renderebbe orgoglioso il più pio insegnante di catechismo».

Rassegna Stampa del Corriere della sera, 26 luglio 2019

Gennaio 1967. Luigi Tenco e Mike Bongiorno al Festival di Sanremo (Enrico Deaglio)

Luigi Tenco con Dalida

Dalida entra nella stanza 219 nella dépendance dell’Hotel Savoy di Sanremo in piena notte. Trova il cadavere di Luigi Tenco con il cranio attraversato da un proiettile, da tempia a tempia. Qualche ora prima, al salone delle feste del casinò, Tenco ha cantato una versione lenta, quasi fuori tempo, di Ciao amore ciao, il brano che ha portato al 17° Festival della canzone italiana, proprio in coppia con Dalida. È apparso stravolto, come assente, e alterato da qualche sostanza. “Questa è l’ultima volta,” ha detto a Mike Bongiorno che lo ha presentato sul palco.
Nemmeno l’esibizione di Dalida, con un arrangiamento più ritmato, è riuscita a fare arrivare la canzone in finale. Ciao amore ciao si piazza solo dodicesima su 16 brani in gara, viene eliminata e la commissione speciale che avrebbe potuto ripescarla le preferisce La rivoluzione di Gianni Pettenati e Gene Pitney. Dopo il verdetto Tenco si sfoga con rabbia, si addormenta dietro le quinte su un tavolo da biliardo, parla in macchina con Dalida, diserta la cena organizzata dalla casa discografica al ristorante Il Nostromo e torna solo in albergo.
Nessuno dirà di aver sentito lo sparo, né Lucio Dalla, né Tony del Monaco, né altri vicini di stanza. Accanto al suo corpo viene ritrovato un biglietto scarabocchiato di suo pugno: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente 5 anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi".
Tenco avrebbe compiuto 29 anni il 21 marzo. Era l’autore di brani come Mi sono innamorato di te (perché non avevo niente da lare), Un giorno dopo l’altro e Lontano, lontano che hanno contribuito all immagine di uomo irrequieto, un po’ esistenzialista e misterioso.
Aveva scoperto da adulto che quello che credeva suo padre non era suo padre. Si era dedicato alla musica tra Milano e Genova nel mezzo di una vita sentimentale ricca e tormentata, con Dalida e altre. Era un uomo impegnato, iscritto al Partito socialista prima, simpatizzante comunista poi. Amava il gioco d’azzardo e le armi, possedeva un fucile e tre pistole. Una, la Walter Ppk che portava con sé per difesa personale, è stata ritrovata nella camera dell Hotel Savoy.
Ma le indagini sulla scena del delitto partono tardi e male. Il commissario capo di Sanremo, Arrigo Molinari (tessera P2 numero 767, si scoprirà), fa rimuovere frettolosamente il cadavere che viene trasportato all’obitorio del cimitero. Solo dopo il corpo verrà riposizionato nella stanza d'albergo per i rilievi, in una scena ormai contaminata senza rimedio. Il referto di polizia parla di evidente suicidio. L’autopsia, a quanto pare, non serve.
Sul Festival cala una cappa di incredulità e sgomento ma non dura molto. Scrive Natalia Aspesi, inviata de “Il Giorno”:

Nessuno o meglio quasi nessuno del baraccone, si è lasciato coinvolgere al di la della faccia di circostanza, nel tremito di un solo momento di autocritiche e verità. [...] In questi giorni nessuno gli aveva dimostrato particolare affetto: era un ragazzo scontroso, antipatico a molti, cosi tanti lo evitavano, i colleghi si sentivano a disagio con lui. Dopo tutti hanno pianto, si sono disperati, hanno gridato al suo valore, alla sua intelligenza, alla sua incomunicabilità, hanno parlato del loro affetto per lui. Ma l’autentico sgomento, che anche solo per poco ha soffocato tutti, era più che per la sua fine, per il riflesso del suo gesto: in questo gesto ognuno si è specchiato e ha avuto paura per sé. [...] Nel pomeriggio mentre le spoglie di Luigi Tenco viaggiano verso Recco, il parrucchiere Cele Vergottini lavora senza tregua: stira i capelli a Dionne Warwick, pettina la povera Caterina Caselli, dà un colpo di spazzola a un numero imprecisato di signore. Il capellone Antoine prosegue le prove e anche i Los Drasus con la loro divisa d’oro riprovano il pezzo. Senza rendersene conto la gente canticchia, lascia che il corpo si muova a tempo di shake. Le canzoni moderne sono davvero irresistibili.

Il carrozzone del Festival quindi non si ferma, la Rai sceglie l'understatement. 
Sanremo 1967. La proclamazione dei vincitori
Mike Bongiorno sale sul palco e guarda in camera; “Signore e signori buonasera, diamo inizio alla seconda serata con una nota di mestizia per il triste evento che ha colpito un valoroso rappresentante del mondo della canzone. Anche questa sera per presentare le canzoni è con me Renata Mauro. Allora, Renata, chi è il primo cantante di questa serata?”.
La terza serata culmina con la proclamazione dei vincitori. Sono Claudio Villa e Iva Zanicchi con Non pensare a me.

Patria 1967 – 1977, Feltrinelli 2017

Il ruolo degli intellettuali. Tabucchi insegna: chi studia si impegni per il bene comune (Salvatore Settis)


Il testo che segue, di Salvatore Settis, prestigioso archeologo e storico dell'Arte in prima linea nella difesa del patrimonio artistico e culturale italiano, è la prefazione al libro di Antonio Tabucchi Gli Zingari e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze pubblicato per la prima volta nel 1999 e ristampato qualche mese fa (2019) dalle Edizioni Piagge di Firenze. Parla solo marginalmente dello scritto di Tabucchi e piuttosto si sofferma sulla sua figura intellettuale, che gli appare tuttora un esempio da seguire. (S.L.L.)

Nessuno dubiterà che il tema dell’impegno degli intellettuali nella vita civile del nostro Paese fu tra quelli più cari ad Antonio Tabucchi, come è documentato nei numerosi articoli che pubblicò, mentre intanto s’impegnava lui stesso, anche con estrema decisione e durezza, in battaglie civili su temi difficili e controversi.
Della forza d’impatto di Antonio è esempio significativo il breve scritto che qui si ripubblica, Gli Zingari e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze (1999), dove egli condanna senza appello la suprema volgarità di certa industria culturale fiorentina, che facendo leva sul Rinascimento ne frantuma e commercializza gli ideali, ignorando intanto il messaggio centrale di ogni umanesimo, l’integrale rispetto per l’uomo. I Rom ai confini della città, i meccanismi di rigetto, lo strisciante disprezzo, l’abitudine a chiudere gli occhi rimuovendo dall’orizzonte i poveri e i diseredati: abitudini e pratiche che suscitavano in Antonio uno sdegno senza confini. Questa sua “mossa”, da grande intellettuale, di obbligarci a pensare al Rinascimento guardando un campo Rom, e viceversa, ricorda il gesto altrettanto radicale di un grande storico della cultura, Aby Warburg, che sul finire del secolo XIX provò a intendere il Rinascimento fiorentino attraverso la danza del serpente e le ceramiche decorate dagli Indiani Hopi dell’Arizona. Una tale radicalità lascia solo due alternative: voltare vilmente le spalle, o fermarsi a pensare. Può permettersi di essere così radicale chi non abbia solo ricchezza culturale, ma (qualità molto più importante) libertà interiore. Come Tabucchi.
Ricordo di aver parlato con lui, in particolare, dell’eclisse dell’intellettuale impegnato in Italia. Gli “intellettuali impegnati” abbondarono a lungo da noi, quando poteva darsi per scontato che i problemi della società dovessero trovare nei partiti (soprattutto di sinistra) una camera di decantazione, una “macchina per l’interpretazione” in cui tutto venisse analizzato dagli intellettuali di mestiere. In quei decenni non c’era lista elettorale che non si cercasse di arricchire di un qualche nome più o meno in vista, intellettuali «prestati alla politica», si diceva, che spesso accettavano l’elezione come «indipendenti di sinistra», e scalpitavano a ogni richiamo alla disciplina di partito. Da anni non è più così. Oggi, con poche eccezioni, gli intellettuali si impegnano qualche volta su temi etici (per esempio l’eutanasia), molto meno sul terreno della politica, diventato insidiosissimo. I partiti non li cercano, in Parlamento non ce n’è quasi più, e nessuno lo trova strano. Perché una mutazione tanto profonda, in soli vent’anni?
Per citare solo una delle ragioni di questa trasformazione, vorrei qui evocare il tramonto della cultura del bene comune, un tema che ha in Italia una storia lunghissima. Partendo dal bonum commune di tanti statuti delle città medievali e dalla publica utilitas spesso richiamata dai giuristi, dai filosofi e dai teologi, si puntò per secoli a tramandare di generazione in generazione un sistema di valori civili, un costume diffuso che valesse più di ogni costrizione mediante le norme, insegnando a riconoscere la priorità del bene comune, subordinando ad esso ogni interesse del singolo, quando col bene comune sia in contrasto.
Ma l’idea di bene comune, con la sua dimensione al tempo stesso etica e politica, comporta un forte senso di responsabilità intergenerazionale. Comporta la piena consapevolezza che bisogna lavorare oggi per le generazioni future. È qui che l’“intellettuale impegnato” dovrebbe far sentire la propria voce, mostrando, come Antonio Tabucchi ha saputo fare senza sconti per nessuno, la necessità e i vantaggi di uno sguardo lungimirante. Il suo impegno ci dà l’esempio di una singolare eloquenza, quella dell’intellettuale che adopera come un’arma la lingua letteraria e la conoscenza storica. Antonio non è mai caduto, come tanti intellettuali, nella tentazione di reagire alle difficoltà del presente chiudendosi in un dignitoso silenzio. Non ha taciuto, credo di poter dire, perché temeva che anche il silenzio può rivelare complicità inconfessabili. Non ha mai cercato di entrare in nessuna “stanza dei bottoni”, perché gli fu estranea ogni ambizione di potere: gli bastava il potere della scrittura, la forza della libertà di parola, la dignità del cittadino.
Se mai c’è un futuro in Italia per la figura ormai antica dell’intellettuale impegnato, è sulla linea indicata nei fatti da Antonio che dobbiamo cercarlo. Perché la generale eclissi dell’intellettuale impegnato, anzi la sua lenta estinzione, può esser forse capovolta in vantaggio. Questa eclissi toglie status, ma anche arroganza, a un gruppo sociale che in Italia fu anche troppo avvezzo a guardare gli altri dall’alto in basso: ciò che Antonio non ha fatto mai. La sfortuna degli intellettuali nell’Italia di oggi ha questo di positivo, che li restituisce a quello che sono (o siamo): cittadini fra i cittadini.
Questa è dunque la domanda, a cui nelle pagine di Antonio possiamo cercare una risposta forte e vibrante: è possibile l’impegno civile di un cittadino che (anziché ad altri lavori) si dedichi alla ricerca o alla letteratura? O diremo che ogni intellettuale deve limitarsi alla propria specializzazione, lasciando i temi di attualità ai politici di mestiere?
La risposta a questa domanda che la vita di Antonio, e non solo la sua scrittura, ci suggerisce, è molto semplice: bisogna rivendicare, ed esercitare pienamente, il diritto di parola non dell’intellettuale, bensì del cittadino; o meglio, dell’intellettuale in quanto cittadino. Perché «politica» è o dovrebbe essere, per la stessa genealogia della parola, il libero discorso fra cittadini, che abbia per tema gli interessi e il futuro della comunità, della polis.
Nel degrado dei valori e dei comportamenti che appesta il tempo presente, è sempre più urgente che i cittadini si impegnino in una riflessione alta, non macchiata da personali interessi e meditata, sui grandi temi civili del nostro tempo, e li affrontino armati di conoscenze professionali, ma anche animati da un forte senso del bene comune, cuore della nostra Costituzione.
Di fronte alla crisi della politica, oggi anche troppo evidente, è dunque ai cittadini che deve tornare la parola d’iniziativa. Questa è (credo) la grande e precoce lezione di Antonio Tabucchi nei suoi scritti e nelle sue battaglie civili: un intellettuale che non si è mai proposto come un cittadino “speciale”, più savio e più autorevole degli altri. Che, al contrario, ha saputo vigorosamente parlare da cittadino ai cittadini, utilizzando con umiltà e con rigore il suo acume nel giudicare il mondo, le sue straordinarie abilità nel raccontarlo.


Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2019

7.9.19

La libreria nera. Una poesiola ancora da limare (S.L.L.)



Quando – son passati ormai vent'anni -
decisi di far base al mio paese
per assistere il babbo smemorato
ravvivando coi miei dei suoi ricordi
i pochi ravvivabili,
alcuni dei più antichi,
io feci trasportare in un pancale
un migliaio di libri, gli assi e i giunti
per montare una nera libreria
nella mia camera, una matrimoniale
con il mobilio dei nonni miei materni,
Vittorio e Carmelina.

Tra nuovi acquisti e altri trasferimenti
dalla piccola casa perugina,
sempre soggetta agli straripamenti
librari, i tomi sono diventati
- adesso faccio compagnia alla mamma -
almeno mille e cinquecento, senza
contare quelli che c'erano già.

Più di un migliaio ora ne ho concentrato
nella nera spartana libreria
che mi vendette, prima
di dedicarsi in esclusiva ai vini,
un Adanti a Bevagna
e non c'è bisogno di spaccare
in quattro ogni capello per concludere
che son troppe le assenze.
Io stesso che ho curato
la selezione, a volte sento che
manca l'essenzïale.

E tuttavia subito te ne accorgi,
senza passare alle seconde file:
c'è materia per riempire una vita,
forse due, forse più, con la lettura.

1919-2019. D'Annunzio A Fiume. L’eroe disoccupato a caccia di emozioni (Emilio Gentile)

1919 - Il poeta tra i legionari "fiumani"

Non fu un anno rivoluzionario, il 1919, anche se per dodici mesi, si parlò molto di rivoluzione nel continente che era stato l’epicentro della Grande Guerra. La guerra stessa fu esaltata (o deprecata) come rivoluzione, perché aveva sconquassato un assetto politico internazionale, provocando la nascita di nuovi Stati repubblicani sulle macerie di secolari imperi autocratici. Movimenti e partiti fautori di rivoluzioni comuniste, nazionaliste, internazionaliste, indipendentiste pullularono ovunque in Europa nel 1919. Nonostante ciò, non fu un anno rivoluzionario, se per rivoluzione s’intende la conquista del potere da parte di una nuova classe politica, l’abbattimento di un regime esistente, l’istituzione di un regime nuovo o di un nuovo Stato. Rivoluzionario era stato il 1917, con le due rivoluzioni in Russia, nel febbraio e nell’ottobre, che avevano abbattuto il regime esistente e creato un regime nuovo. Ci furono tentativi rivoluzionari anche nel 1919, due in Germania, uno in Ungheria, tutti ispirati alla rivoluzione bolscevica, ma furono stroncati dopo poche settimane dalla repressione armata di forze antibolsceviche. Da allora, non ci fu altra rivoluzione comunista in Europa.
Se non fu rivoluzionario, il 1919 fu tuttavia un anno altamente convulsionario. In tutti i paesi che avevano partecipato alla Grande Guerra ci furono violente agitazioni di piazza, scioperi generali, tumulti, che talvolta sfociarono in scontri armati. Ma in nessun paese le convulsioni violente provocarono l'imposizione rivoluzionaria di un nuovo regime.
Fra i vincitori, l’Italia fu il paese maggiormente afflitto da convulsioni violente, passate alla storia come “diciannovismo”. Al massimalismo del partito socialista neutralista e internazionalista, che condannava la guerra, denigrava la vittoria e si agitava per realizzare una rivoluzione bolscevica, si contrappose il massimalismo dei nazionalisti interventisti, combattenti e reduci, che esaltavano la guerra e la vittoria come rivoluzionario atto di nascita di una «più grande Italia».
Il partito socialista sfogò l’impeto rivoluzionario negli scioperi generali annunciati come preparazione del proletariato alla conquista violenta del potere: ma nel novembre del 1919, si accontentò di conquistare per via elettorale 156 seggi alla Camera, diventando così il primo partito nel parlamento. Il rivoluzionarismo nazionalista, con l’avanguardia costituita dal neonato movimento dei Fasci di combattimento, si sfogò nella violenza di piazza contro i “bolscevichi”, contro il governo di Vittorio Emanuele Orlando e contro il governo di Francesco Saverio Nitti, succeduto a Orlando nel giugno. Ma il fondatore del movimento fascista, Benito Mussolini, pur esaltando la guerra come primo atto della «rivoluzione italiana», osteggiò qualsiasi iniziativa rivoluzionaria degli stessi fascisti, sostenendo che avrebbe avvantaggiato i socialisti.
L’unico atto rivoluzionario compiuto in Italia nel 1919 fu l’impresa di Fiume, iniziata il 12 settembre, con l’occupazione della città da parte del tenente colonnello Gabriele d’Annunzio, a capo di circa 2.000 “legionari”, in massima parte ufficiali e soldati regolari, che seguirono il poeta, compiendo un atto di sedizione.
L’occupazione di Fiume non aveva all’inizio scopi rivoluzionari. Fu un atto di rivolta contro il governo Nitti e contro i governi alleati, che a Parigi avevano negato l’annessione di Fiume all’Italia, perché non era inclusa fra i territori assegnati all’Italia dal Patto di Londra, anche se il 30 ottobre 1918 la maggioranza italiana della popolazione fiumana aveva chiesto l’annessione all’Italia.
Il poeta vate, combattente volontario a oltre cinquanta anni, divenuto leggendario per le gesta compiute durante la guerra, pluridecorato e medaglia d’oro al valor militare, nel 1919 fu il principale artefice e propagandista del mito della «più grande Italia» e della «vittoria mutilata». D’Annunzio trasformò Fiume nel simbolo stesso della vittoria italiana: senza Fiume all’Italia, la vittoria era mutilata.
C’era, tuttavia, un aspetto paradossale nell’identificazione dannunziana di Fiume con la vittoria italiana. Infatti, fino alla primavera del 1915 il poeta aveva ignorato Fiume. Non l’aveva mai citata nelle sue concioni interventiste. E continuò a ignorarla durante la guerra. Ancora il 14 gennaio 1919, nella Lettera ai dalmati, menzionò, fra le rivendicazioni della vittoria, le città «italiane» della Dalmazia senza aggiungere Fiume. Attese il 25 aprile, per esaltare per la prima volta, a Venezia, la «ardentissima Fiume», e rivendicare poi, il 6 maggio, dal Campidoglio, «Fiume nostra e Dalmazia nostra», inveendo contro gli alleati diventati nemici dell’Italia vittoriosa. E fu soltanto nel giugno che alcuni nazionalisti fiumani e italiani, Giovanni Host-Venturi, Giovanni Giuriati, Oscar Sinigaglia, sostenuti da alti ufficiali, decisi a compiere una spedizione armata di volontari a Fiume, per imporre la sua annessione all’Italia, proposero al poeta di capeggiare la spedizione.
I promotori della spedizione avevano come scopo provocare la caduta di Nitti, considerato prono agli alleati, per sostituirlo con un governo autoritario, pronto a decretare l’annessione di Fiume. Il 9 giugno, D'Annunzio celebrò la Pentecoste d’Italia per identificare misticamente Fiume con la «più grande Italia», proclamando che «la religione della Patria non ebbe mai comandamento così alto … Fiume appare oggi come la sola città vivente, la sola città ardente, la sola città d'anima».
D’Annunzio era allora un eroe disoccupato, con la propria Musa inaridita. Angosciato dall’invadente vecchiaia, afflitto da un penoso senso di vacuità esistenziale, vagheggiava addirittura il silenzio del chiostro. Ma intanto continuava a inneggiare, con scritti e discorsi, alla «più grande Italia», atteggiandosi a vate di un italico populismo eroico, volto alla esaltazione del lavoro redento dalla servitù del profitto e alla liberazione dell’Italia dall’egemonia dell'Occidente: «Liberiamoci dall’Occidente che non ci ama e non ci vuole», proclamò il 9 luglio: «Separiamoci dall’Occidente degenere [...] divenuto una immensa banca giudea in servizio della spietata plutocrazia transatlantica».
L’avventura fiumana diede al poeta una fiammata di energia, consentendogli di vivere una nuova stagione epica, in uno stato di mistica esaltazione nazionalista e rivoluzionaria. Insediatosi nella città come governante, il Comandante fu affiancato da una schiera di esaltati giovani legionari, che condivisero col poeta uno spregiudicato stile di vita e un confusionario idealismo rivoluzionario. Con essi, D’Annunzio diede vita a un singolare movimento politico-estetico, il “fiumanesimo”, trasfigurando Fiume nel centro sacro della religione della patria, innalzandola a capitale ideale di un “ordine nuovo”, propulsore di una crociata internazionale per la liberazione dei popoli assoggettati o minacciati dalle plutocrazie occidentali.
Ma l’entusiasmo della popolazione fiumana per l’impresa del poeta e le sue esaltanti orazioni dal balcone, si esaurì in pochi mesi. La spedizione aveva fallito i suoi scopi originari. Il governo Nitti non era caduto. Gli alleati continuavano a osteggiare l’annessione di Fiume. I rivoluzionari socialisti, per quanto inetti a compiere la rivoluzione, erano comunque usciti trionfanti dalle urne elettorali, mentre i rivoluzionari nazionalisti, fascisti per primi, erano stati clamorosamente battuti. Alla fine del 1919, la maggioranza della classe dirigente e della popolazione fiumana era stanca delle concioni del poeta e delle carnascialesche esibizioni dell'anarchismo legionario. Ed era pronta ad accettare un modus vivendi, concordato con il governo dai promotori originari della spedizione, che prevedeva lo sgombero della città dai legionari dannunziani, e la ricerca di un accordo internazionale per l'annessione all'Italia.
Quando, la mattina del 19 dicembre, il Comandante si rese conto che il plebiscito sul modus vivendi era contro di lui, lo annullò. Giovanni Giuriati, uno dei promotori della spedizione, che aveva collaborato col poeta nel governo della città come capo di gabinetto, ed era uno degli artefici del modus vivendi, si dimise dichiarando: «Io sono venuto a Fiume per difendere le secolari libertà di questa terra, non per violentarle e reprimerle».
Da quel momento, e per un anno ancora, sotto il comando dittatoriale del poeta, affiancato ora dal sindacalista nazionalrivoluzionario Alceste De Ambris, ma fra una popolazione sempre più ostile, Fiume divenne luogo di straordinarie o strampalate velleità palingenetiche. Così, in antagonismo con il trionfante velleitarismo rivoluzionario dei bolscevichi italiani, il “fiumanesimo” contribuì a rendere il 1920 italiano un altro anno convulsionario. Senza rivoluzione.

"Il Sole 24 ore - domenica", 18 agosto 2019

6.9.19

Cristina regina di Svezia. L'ambiguità è sovrana (Giuseppe Cassieri)




Cristina di Svezia (1626-1689), figlia del superlodato Gustavo Adolfo e di una bellissima Maria Eleonora del Brandeburgo, regina a sei anni, autostima alle stelle, rapporti con Dio a suo modo, è personaggio fin troppo carico di aromi per non attrarre storici e biografi. Lo comprovano i molti studi di ieri e di oggi che si addensano su questa figura vulcanica e tendenzialmente leggendaria. Chi voglia addentrarsi nella vita e nell'opera di Cristina, facendo vibrare di continuo il pensiero critico, può contare sul saggio di Veronica Buckley, neozelandese di formazione oxfordiana, residente a Parigi (Cristina regina di Svezia, Mondadori, 2006).
Il corredo geopolitico e dinastico, pur vasto e capillare nell'economia del libro, scorre veloce grazie al calibrato intarsio di avvenimenti esterni e delle intime follie della protagonista, grazie all'uso pungente dell'epistolario, nonché alla vena narrativa messa in campo dall'autrice. La quale nulla trascura del periodo indagato (ricordandoci in particolare le sfide scientifiche all'ortodossia religiosa, la marcia dell'impero ottomano...), compreso il disastro climatico provocato nel Nord Europa dalla «piccola era glaciale»: un fenomeno che si ripresentava a distanza di secoli, capace di gelare fiumi e mari' accentuare malattie e miserie sullo sfondo della Guerra dei Trent'anni.
A confortare in parte familiari, cortigiani e sudditi, provvede l'annuncio di una nascita fervidamente attesa: quella del principe ereditario, un maschio del ceppo Vasa, che avrebbe onorato il regno di Gustavo Adolfo.
Ahimè, si trattava di un qui pro quo. Un'illusione notturna spentasi nell'arco di dodici ore.
Le esperti levatrici, alle prese con «un esserino urlante e di sesso ambiguo», si interrogavano sconcertate su chi stesse venendo al mondo: un principe imperfetto o una principessa mascolina?
Sul far dell'alba, scrutando e rivalutando con intuibile tensione la natura dell'erede, avevano sciolto la riserva: il neonato era purtroppo una neonata, sospetta portatrice di anomalie.
Dunque un ibrido genetico che avrebbe condizionato la personalità di Cristina, determinando assai spesso atteggiamenti plateali e assolutisti nel corso dell'intera esistenza. Esempio: sia in veste luterana sia in veste cattolica si scagliava ripetutamente contro il matrimonio e la figliolanza; giudicava la donna il dispetto peggiore della Creazione; si vantava di allestire intrighi, sotterfugi e sortilegi; di tenere sulla brace aspiranti di cartello (in cima alla lista il cugino Carlo Gustavo, sottoposto a un perenne sì, forse, mai...) e di praticare l'arte della dissimulazione. E lei stessa a confidarci che «già nella prima gioventù ero in grado di trarre in inganno le persone più astute».
Facile immaginare gli scandali e i pettegolezzi che deliziavano e insieme preoccupavano le corti europee. Cristina stracciava regole e gelose tradizioni, indossava abiti maschili, adottava volentieri un linguaggio da taverna, consumava amori saffici accogliendo «democraticamente» dame, fantesche, boccioli di campagna, novizie e suore illanguidite nella pace del convento. In pari tempo non disdegnava il sesso opposto, muovendosi a capriccio tra ambasciatori, cancellieri, prelati e maggiordomi. Più nota, per intensità e durata, è la relazione col cardinale Decio Azzolino, anche se i dragatori di alcove oscillano nel trasmetterci dati oggettivi. C'è chi interpreta la relazione come un'obbligata, casta amicizia, e chi punta sulla compiuta bisessualità della partner.
Di certo la regina, anziché turbarsi per gli insulti sparsi nel reame e oltrefrontiera (spudorata cacciatrice, buffona, selvaggia, etèra assimilabile a famose colleghe della classicità...), si guarda allo specchio, si compiace e sbeffeggia tartufoni e poveri di spirito. Scardinare l'ordine costituito eccita la sua fantasia.
Fermentano intanto ben altri disegni a cui dedicarsi: abdicare, abbandonare l'algida Svezia, trasferirsi nell'adorata Roma, godersi il magnifico palazzo Rierio, collezionare quadri di autori italiani e, crescendo e sognando, diventare regina di Napoli con l'aiuto del Mazzarino, sovrana di Polonia con la complicità di Azzolino. E ancora; fondare teatri e accademie di grido, radunare intorno a sé scienziati, poeti, pittori e scultori, musicisti e alchimisti, meritandosi il titolo di Minerva del Nord.
E qui viene spontaneo chiedersi: tanta esposizione nella sfera pubblica di mezza Europa era accompagnata da un congruo tasso di fascino, di leggiadria? Aveva mutuato qualcosa dalla seducente genitrice?
Testimoni attendibili e documenti iconografici lo negano, sia pure con indulgenza. Bassa di statura, naso arcuato, bocca senza denti posteriori, mento aguzzo, spalle asimmetriche. Una perla tuttavia riusciamo a coglierla: i grandi occhi azzurri. Regalo generoso di Venere a chi le aveva preferito la dea della sapienza.
Circondata da ruffiani e adulatori, consapevole di possedere armi decisive nell'orizzonte politico europeo (mentre ignorava la crisi economica che soffocava il suo Paese), vanno attribuiti a Cristina almeno due gravi sensi di colpa: l'atroce condanna a morte del marchese Monaldeschi - ennesimo presunto amante - accusato di aver compromesso il sogno napoletano; e il freddo polare sofferto da Cartesio a Stoccolma dopo il transitorio invaghimento della regina per il filosofo. Le lezioni impostate dalla padrona di casa si svolgevano alle cinque del mattino, tre volte la settimana. Cartesio, indotto a discutere tesi e antitesi a capo scoperto in una rigida stanza, si ammalò. Dapprima febbre e costipazione fronteggiate con infuso bollente di tabacco, poi la polmonite. E, nei giorni successivi, dalla polmonite alla tomba.
In tarda età, l'eroina del Nord, pur non rigettando esibizionismi e culto egolatrico, si era concessa un dubbio, un modesto esame di coscienza. Ovvero, «non sapeva se avesse mai cercato di correggere i propri difetti».
Si sarebbe impegnata a recuperare? Ci sarebbe riuscita?
Seguendo il tracciato biografico il lettore è portato a escludere correzioni di rotta, e avanza la sua impressione complessiva: Cristina di Svezia, non più che una dilettante illuminata, radicalmente priva di umiltà.

Tuttolibri La Stampa, 12 agosto 2006

Una canzone senza ritornello. Una poesia di Roberto Piumini



Ehi tu, che sei nel mare, e hai trovato
un manico d’ombrello galleggiante,
lo sai da chi è stato abbandonato?
Da una signora molto elegante
che navigava sopra un bastimento,
e lo picchiò in testa al comandante
perché secondo lei era troppo lento,
chi sa se a innamorarsi o a navigare,
e dato che l’ombrello si era rotto,
decise di non farselo aggiustare:
fece una smorfia, e lo buttò di sotto.
Buffa canzone, ma c’è il ritornello?
Fra poco lo troviamo, chiaro e bello.

Ehi tu, che in montagna, sul sentiero,
hai trovato un pallone bucato:
nemmeno io, per essere sincero,
so perché è lì, e chi ce l’ha buttato.
Forse era di un camoscio-attaccante?
O di un portiere-marmotta, nel prato,
con la sua presa troppo perforante
perché para coi denti, a quanto pare,
e poi, siccome non serviva più,
essendo ignoranti sul che fare,
hanno deciso di buttarlo giù.
Matta canzone, sì, ma il ritornello?
Fra poco lo inventiamo, vero e bello.

Ehi tu, che stamattina hai inciampato
in due bottiglie e in quattro lattine,
tu non lo sai, dove sei capitato?
Dove, stanotte, dieci ragazzine
e dieci ragazzotti rumorosi,
hanno bevuto, cantato, ballato,
hanno provato a far gli spiritosi,
e, quasi all’alba, prima di rientrare,
per non portare indietro i recipienti,
han fatto il tiro a segno in riva al mare,
sbagliando mira e gridando accidenti.
Strana canzone, sì, ma il ritornello?
Fra poco lo impariamo, giusto e bello.

Ehi tu, che in pieno parco forestale,
hai visto una discarica schifosa,
che solo a guardarla viene male,
chi ha fatto questa cosa disgustosa?
L’ha fatta un camion, ieri a tarda sera,
con fari spenti, targa misteriosa,
e un autista dall’anima nera,
che non si ferma mai a pensare
che il mondo è lui, noi, io, tu,
e che se lo facciamo ammalare,
ci ammaleremo tutti ancor di più.
Triste canzone, sì, ma il ritornello?
Fra poco lo cantiamo, lieto e bello.

Ehi tu, lettore di queste parole,
che hai visto in giro qualche brutto fatto,
inventa il ritornello che ci vuole,
trovalo tu, il ritornello adatto.
Un ritornello da cantare forte
a chi non ha capito questo fatto:
non solo la bugia ha le gambe corte,
ma le hanno anche lo spreco e il malaffare,
e che se al mondo manchi di rispetto,
il mondo, prima o poi, la fa pagare.
Trovalo tu, il ritornello perfetto.

Tuttolibri La Stampa 27 luglio 2019

5.9.19

La luce di Dante. Una mostra in Abruzzo nel 1993 (Mario Novi)


Federico Zuccari, Giudizio Universale  (part.) - Firenze, S.Maria del Fiore

Torre dei Passeri - Questa volta la Casa di Dante in Abruzzo, che ormai da molti anni dedica mostre al rapporto fra artisti e Dante nelle sale del suggestivo castello di Torre de' Passeri (memorabili quelle di Fussli, di Blake, di Botticelli, di Raffaello per non restare che a pochi esempi), ha scelto un artista non molto noto al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti. Si tratta di Federico Zuccari (Sant'Angelo in Vado 1540-41 - Ancona 1609), pittore, architetto, trattatista, scrittore d'arte ed estroso fratello di Taddeo (1529-1566), di cui è allievo e col quale molte volte lavora. Il rapporto tra i due è segnato, da parte del più giovane Federico, che sogna di rendersi autonomo, da un misto di impertinenza e di devozione.
Siamo in epoca di tardo manierismo, termine che Corrado Gizzi, ideatore e infaticabile curatore delle esposizioni di Torre de' Passeri, sottilmente considera un "interludio platonico", tra razionalità e fantasia, tra bellezza naturale e bellezza immaginata (era stato proprio Michelangelo a parlare di "disegno interno", di "forma spirituale"); e Federico, nel libro Idea de' pittori, scultori e architetti che pubblica a Torino l'anno 1607, tratterà appunto di "disegno interno" e "disegno esterno". Federico Zuccari è un inquieto, un assetato di sapere, un viaggiatore: visita città e soggiorna nelle corti di mezza Europa, scrive, prende appunti, esperimenta, disegna. Tra le sue opere più note: Il Barbarossa prostrato davanti al papa (Venezia, Palazzo Ducale), Adorazione dei Magi e Adorazione dei pastori (Spagna, Escorial), Flagellazione di Cristo (Roma, Santa Lucia del Gonfalone). A Firenze, Federico Zuccari completa il Giudizio Universale, iniziato dal Vasari per l'intradosso della cupola della cattedrale di Santa Maria del Fiore (1575-1579). Ed è forse qui, e in questi anni, che gli viene l'idea di Dante.

Le parti del poema
Il poeta diventerà per Federico una specie di emblema: non tanto nel senso di una figura che simboleggia qualche cosa, quanto invece nell'accezione etimologica, dal greco "emballo" (getto dentro). Dante rimane infatti in Federico come un incastro da cui non si può distogliere, come un elemento di rivelazione. Ci ripensa alcuni anni dopo quando, durante un suo soggiorno in Spagna (1585-1588), realizza una serie di illustrazioni della Divina Commedia: ottantotto disegni che, rilegati in volume, vennero dopo varie vicende in possesso di Anna Luisa de' Medici che, nel 1738, li donò alla Galleria degli Uffizi alla quale appartengono; ed ora sono esposti per la prima volta nel nostro secolo: ecco la mostra. I disegni relativi alla prima cantica sono eseguiti con matita rossa e nera; quelli del Purgatorio, in gran parte con penna e bistro; quelli del Paradiso Terrestre e del Paradiso, con sola matita rossa. Ma non è solo la tecnica del mezzo a distinguere le parti del poema. Per ogni cantica, Federico cambia impostazione di spazi e di figure e, soprattutto, di luce. Cerca cioè di rappresentare ogni volta, come mi suggerisce lo studioso Claudio Strinati, una luce-utopia, una sorta di luce che, quando la incontri e la vedi, non è più nulla (e chi non si rammenta delle superbe acrobazie di Dante nel descriverla? O sviene o s'addormenta o non vede e ne è comunque e sempre misteriosamente abbagliato).
Nel riquadro delle illustrazioni Federico inserisce spesso, per iscritto, interi brani della Divina Commedia che, nella relazione tra spazio ed episodio, costituiscono un elemento forse di sottolinea, ma che non esce mai dalla perfezione del ritmo figurativo: lo scritto diventa grafica, diventa effigie. A volte spazi incombenti, oppressi da rupi, da caverne, animati da tratti, da penombre; a volte spazi liberi, astratti, cadenzati da inattese architetture. Se lo spazio, com'è da credersi, esprime in questi disegni il problema fra realtà e immaginazione di essa, le figure che vi sono inserite nel significato dell' episodio (nuvole, alberi, fuoco, piogge, fumo) diventano zigomi, sagome, arabeschi, nudità perfette ed esortanti, orride, anelanti, spirituali, corrotte: contraddizione dannata della vicenda quotidiana; un enigma che il segno stesso di Federico, sinuoso, raffaellesco, trasmette con insolito fervore. Egli infatti non illustra Dante per sé, a vantaggio della propria arte, ma legge Dante perché il poeta è entrato in lui: come d'altronde già si può avvertire nelle scene infernali della fascia più bassa della cupola del duomo di Firenze.

Contemporaneo in ogni epoca
Altre opere esposte a Torre de' Passeri costituiscono una sorta di prefazione ai disegni della Divina Commedia: tre dipinti sul tema della "Pietà" - uno di Taddeo, due di Federico - e, di quest' ultimo, un San Pietro liberato dal carcere da Raffaello. Ci sono poi, di Federico, alcuni disegni di vario soggetto e d'una limpidezza e invenzione veramente avvincenti. Basti rammentare Morte del primogenito (dove la luce s' insinua in una misteriosa penombra) e Donna con bambino in braccio inginocchiata all' altare (si noti il velo e il mirabile scorcio dell' infante).
"Federico svolse - come ha scritto Luigi Serra - un'attività anche più brillante di quella del fratello. Egli avviò le formule manieristiche alla luce dell'arte del Veronese e dei Bassano. Le sue composizioni hanno una salda e chiara architettura... rivelano inoltre brio decorativo, senso di misura, talvolta gusto della tavolozza". Ma questa rassegna, seguendo la tradizione, documenta la sua passione per Dante; e ne vien fuori un Federico ancora più profondo. È curioso notare come l'Alighieri riesca ad essere contemporaneo in ogni epoca. Se non sbaglio anche Mario Luzi, nel corso d'una recente intervista, ebbe a dire che Dante è il più grande poeta contemporaneo di oggi. In questo senso la congiunzione, che ogni volta a Torre de' Passeri unisce il nome dell'artista a quello del poeta, sembra quasi un celato e arguto ammonimento.

“la Repubblica”, 31 ottobre 1993

4.9.19

Storie USA. Bush senior, Michael Dukakis e le porte girevoli di Lee Atwater, detto Boogie Men.


Riprendo le notizie che seguono dalla recensione di Christian Rocca a un romanzo di Antonio Monda (“Tuttolibri”, 9 marzo 2019).
Lee Atwater, detto Boogie Man, cioè l’orco, fu per alcuni anni il più abile e temuto degli strateghi politici d’America. Fu lui a confezionare nel 1988 la vittoria di George Bush senior sul governatore del Massachusetts Michael Dukakis. Costui cominciò a perdere consensi e fiducia quando Atwater produsse uno spot intitolato «porte girevoli» con cui legava il nome del governatore al volto di un efferato criminale afroamericano, l’ergastolano Willie Horton che, durante un permesso premio ottenuto grazie a una norma del governatore Dukakis, aveva stuprato una ragazza.
Era un attacco violento, personale, ingiusto e dai toni razzisti, il vero marchio di fabbrica di Boogie Man, che con «porte girevoli» si era ripromesso di manipolare le coscienze degli americani fino a convincere gli elettori che Willie Horton fosse addirittura il candidato vicepresidente di Dukakis.
Bush fu eletto trionfalmente, ma ad Atwater venne poco dopo diagnosticato un tumore al cervello.
Aveva 39 anni, morirà a 40, nel 1991.

Una barzelletta al giorno (Ascanio Celestini)

Einaudi qualche mese fa ha pubblicato un libro dell'attore Ascanio Celestini dal titolo Barzellette: allegro, ma non troppo. Anche perché l'attore non ha escluso le barzellette razziste o sessiste più scorrette e urticanti, convinto che sia un bene portare a galla lo schifo che abbiamo dentro, e alleggerirlo con una risata. Le barzellette sono organizzate in una sorta di diario e corredate da una sorta di contestualizzazione. Posto qui le tre che “Tuttolibri” ha pubblicato come incoraggiamento all'acquisto del volume. (S.L.L.)


13 luglio 2016
Casa Internazionale delle Donne. Alla fine di una serata comincio a raccontare barzellette. È uno spettacolo serio. Fa ridere, ma è serio.
Mi occupo di letteratura orale. Le barzellette rappresentano l’unico (o quasi) frammento di quella letteratura che non è ancora scritto o che è passato solo marginalmente attraverso la scrittura. Solo per scherzo. Per qualche raccolta di Bramieri o per un libricino attribuito a Totti. O poco più.
Non vorrei che gli spettatori, e soprattutto le spettatrici, pensassero che scelgo le barzellette censurando quelle contro le donne. Sono molte e sarebbe strano se non ne raccontassi nemmeno una.

Ci sta una nave da crociera che naufraga. Sull’isola deserta si trovano Nicole Kidman e un marinaio.
Dopo alcune ore di preoccupazione si accorgono che il posto è accogliente. Il mare è pieno di pesci, la frutta è in abbondanza, il clima è ottimo e trovano più d’una sorgente d’acqua potabile. Non gli manca nulla.
Passa qualche giorno e l’attrice di Hollywood si rivolge all’altro sopravvissuto: «Caro, io sono ancora una donna giovane e bella. Tu sei l’unico uomo su quest’isola. A me non dispiacerebbe fare l’amore, se vuoi».
L’uomo accetta volentieri la proposta e fanno l’amore per più di un mese. Poi il marinaio prende coraggio e le dice: «Nicole posso chiederti se mi concedi di chiamarti Mario?»
La diva pensa che sia una specie di gioco di ruolo e accetta.
Lui sorride e aggiunge: «Potresti fare la voce da uomo? Insomma, rivolgerti a me come fossimo due vecchi amici che chiacchierano al bar o, meglio ancora, nello spogliatoio della palestra?»
Nicole pensa che il gioco diventa più trasgressivo, ma non ha niente in contrario e gli dice con voce virile: «Allora, vecchio mio, come va la vita?»
E il marinaio: «Uno schianto, vecchio mio, è un mese che mi scopo Nicole Kidman!».

Dicembre 2017
Teatro Secci di Terni. Questo spazio è dedicato a Sergio che il 2 agosto del 1980 stava andando a Bolzano. Amava il teatro. Alla stazione di Bologna scoppia la bomba e la sua vita si interrompe lì insieme a quella di altre 84 persone di passaggio. Davanti ai trecento spettatori che riempiono la sala porto in scena il mio spettacolo Pueblo. Al termine del monologo ricordo l’appuntamento per l’incontro del giorno successivo in biblioteca. Un ragazzo mi fa: «Stai scrivendo un libro di barzellette? Domani te ne racconto una». E il giorno dopo mi aspetta in Piazza della Repubblica.
Da un paese lontano partono un prete e una suora. Hanno l’udienza dal papa. Ma è l’anno del Giubileo e il santo padre ha mille impegni. Finalmente si libera e li accoglie. È simpatico e intelligente, un intellettuale, ma anche un sant’uomo. Quando i due si liberano è tardi per prendere il treno, così cercano un albergo nel quale andare a dormire. Trovano solo una stanza libera. Una stanza col letto matrimoniale. Il prete fa: – Sorella, io resto al bar. Dorma lei in albergo. Ci vediamo domattina per tornare al nostro paese –. Ma la suora: – Padre! Siamo due persone adulte. E in più abbiamo la nostra fede! Possiamo dormire nello stesso letto senza avere pensieri impuri –. E si mettono a letto insieme.
Durante la notte la suora fa: – Padre, ho freddo. Potrebbe riscaldarmi?
Il prete si alza, va a prendere una coperta nell’armadio e gliela mette addosso.
La suora però ripete: –Padre, forse lei non mi ha capito bene. Ho freddo. Potrebbe scaldarmi?
E di nuovo il prete si alza e prende una seconda coperta per la suora. Ma lei insiste: – Padre, probabilmente non mi sono spiegata. Ho freddo! Ho bisogno di calore! Potrebbe comportarsi con me come un marito si comporta con la moglie?
E il prete: – Devo fare proprio come il marito si comporta con la moglie?
Certo, – dice la suora.
E il prete: – Allora non rompermi le palle! La coperta sta nell’armadio, prenditela da sola.

Fine agosto 2018
Dovrei mandare il libro di barzellette all’editore. Lo sento al telefono e mi concede altre due settimane. Bene. Affitto un monolocale a Ostia. Gli scrittori veri fanno così. Si isolano e si concentrano sull’opera. Dalla finestra si vede il mare. Sotto c’è il panificio di via delle Zattere, poi il bar a Piazza Scipione l’Africano che apre prestissimo. Di fronte all’ex colonia marina Vittorio Emanuele III c’è una rampa di legno che scende sulla spiaggia libera. Uno che beve mi indica il pontile dei pescatori tagliato a metà da una mareggiata. Qualcuno ci ha messo una Venere.
Ci mettiamo a parlare e gli dico che sto scrivendo un libro. Gli dico anche l’argomento e lui si offre per raccontarmi qualche storiella.
Un gruppo di bambini africani immigrati in Italia viene portato a fare una giornata di mare a Ostia. Sono tutti piccoli e magri, ma uno è più miserello degli altri e si ferma accanto a un grasso bagnino che infila la forchetta in una cofana piena di bucatini. Il tipo gli fa: – Bambino, è tanto che non mangi?
E il piccoletto mostra un ditino. Uno solo.
Un’ora? – chiede il bagnino. Ma la creatura scuote la testa mostrando ancora il suo dito magro.
Un giorno? – dice titubante il mangiatore di bucatini. Il negretto ha le lacrime agli occhi, ma il suo dito è rimasto teso.
Una settimana? – azzarda il tipo. E il piccolo migrante muove la testa in alto e in basso per dire che si tratta proprio di una settimana di digiuno.
Il bagnino sorride paterno e lo accarezza sussurrando: – Allora ti puoi fare il bagno!

Poi mi guarda interrogativo. Dice che le barzellette sono un ascensore per l’inconscio. Scende nello schifo che abbiamo dentro, ce lo riporta a galla e ce lo mostra alleggerendolo con la risata. Ma è pur sempre un modo per mostrarcelo. Sono d’accordo. E infatti è così che vorrei fosse il mio libro. Se non proprio un ascensore almeno una scaletta per farci scendere lì dove gli istinti si mescolano ai pensieri e alle emozioni. Un posto nel quale siamo cattivi, ma anche deboli. Dove ci accettiamo come siamo senza cercare di apparire migliori. E se cominciamo ad accettare le nostre storture forse cominceremo ad accettare anche quelle degli altri.

Tuttolibri La Stampa, 9 marzo 2019

I greci ci hanno lasciato in eredità una sola religione: la letteratura (Antonio Scurati)



L’eroe è una cosa trascinata 
dietro un carro nella polvere
Chi è un eroe? O meglio: che cos’è un eroe?
Un eroe è una cosa trascinata dietro un carro nella polvere.
Così Simone Weil, in piena Seconda Guerra Mondiale, concludeva la sua riflessione sull’Iliade pensata come poema della forza. Nella visione della Weil, anche gli eroi di Omero, anche i formidabili campioni che si batterono per dieci anni contro uomini e dei sulla piana di Ilio, per quanti nemici potessero aver abbattuto con la loro forza indomabile, per quanti ostacoli potessero aver travolto con la loro energia traboccante, un istante dopo esser stati sfiorati da quella stessa forza, da quella medesima energia, divenivano una cosa trascinata dietro un carro nella polvere.
Ed è, perciò, comunque da lì, dall’epica omerica, che si dovrà partire se si vorrà tornare a chiedersi, anche in un’epoca apparentemente post-eroica come la nostra, chi è o che cos’è un eroe?
Questa domanda per me, nella mia oramai piuttosto lunga carriera di uomo e di scrittore, ha sempre coinciso, e coincide ancora, con l’altra domanda fondamentale, quella che ci interroga sull’avvenire dei classici. Che futuro hanno le opere del passato che il passato avrebbe consegnato all’eternità? Esisterà ancora nell’avvenire un «passato che non passa»? «Scrivete per quelli che verranno. Soltanto loro saranno degni di comprendervi, abbastanza forti da vendicarvi». Così urlava nel mezzo dell’Ottocento romantico l’eroe di Foscolo. Lo comprendiamo ancora? Lo vendicheremo? Quella della posterità letteraria è un’idea morta al presente, e al futuro?
Nella nostra supponenza di viventi – provvisoriamente viventi – tendiamo ad attribuirci la facoltà sprezzante di dimenticare, la primogenitura nell’oblio. Ma ci sbagliamo, poveri sciocchi. Se i classici non dovessero avere nessun futuro, non saremmo noi ad aver dimenticato, ma tutto il passato ad averci dimenticati. In altre parole, saremmo soli al mondo. Come orfani. Come gattini ciechi chiusi dentro un sacco destinato alla corrente del fiume.

Che funzione ha l’epica omerica 
nella modernità post-eroica?
Detto in modo ancora più schietto: per come la vedo io, l’avvenire dei classici è essenzialmente legato alla sopravvivenza dell’epica. La narrazione epica è, infatti, canto delle origini sin dall’origine, di un tempo trascorso da sempre, separato da noi da una distanza incolmabile, una distanza non temporale ma di valore, valore assoluto – come ci insegnava Bachtin; la lingua dell’epica è, per questo motivo, l’unica lingua capace di trasformare la cronaca delle nostre vite di poveri morenti in mito.
Per comprendere tutto ciò, dovete seguirmi sugli spalti di Troia, le antiche e imprendibili mura che circondavano la città di Ilio nel XIII secolo avanti Cristo. Siamo, in verità, nel terzo canto dell’Iliade di Omero, siamo nel decimo anno di una guerra interminabile, più vecchia del mondo e non ancora finita.
Siamo, dunque, nel Terzo Canto del poema e il vecchio, saggio Re Priamo, padre spirituale di tutti i Troiani, ha chiamato la bellissima Elena a sedersi accanto a lui sugli spalti delle mura, a prendere posto nel consesso degli anziani patriarchi della città assediata dall’esercito degli Achei. Elena recalcitra. Sa di non essere amata da quei vecchi perché è a causa sua che i loro figli sono morti e moriranno per difendere la città dagli assalitori. È lei, infatti, che ha scatenato la guerra abbandonando il Re greco Menelao per seguire il giovane principe troiano Paride. Ma Elena, pur malvolentieri, accoglie l’invito di Priamo, suo nuovo signore. Soltanto lei, infatti, può soddisfare il desiderio del Re: Priamo vuole che Elena riconosca e nomini i più celebri tra i guerrieri greci che stanno prendendo posizione nello schieramento nemico in fondo alla piana. E soltanto l’ex moglie del Re greco Menelao può farlo. Solo lei, la fedifraga, la bellissima, la dannata, solo lei può avvistare e riconoscere i nemici perché ha vissuto nella loro casa, dormito nei loro letti. Allora Elena, sfidando ogni verosimiglianza ottica, comincia a nominare e a descrivere i campioni achei, riconoscendoli per un dettaglio dell’armatura o della persona.
Fino a questo momento, nell’Iliade non sono ancora state raccontate scene di battaglia. È soltanto ora che la battaglia può avere inizio per i lettori del poema. Soltanto dopo che Omero, per bocca di Elena, ha avvistato, e descritto individualmente, uno dopo l’altro, i più valorosi eroi greci, si può cominciare a uccidere e a morire.
Perché questa tecnica narrativa dell’avvistamento dall’alto delle mura è essenziale alla concezione eroica dell’epica omerica, al punto da dover precedere il racconto delle imprese in battaglia? L’essenza segreta dell’epica antica sta tutta racchiusa nella risposta a questa domanda. E la risposta è che per la cultura antica l’eroismo è, innanzitutto, una qualità della luce: la gloria è un’onda di luce piena che investe l’individuo eroico facendolo splendere agli occhi dei suoi contemporanei e, attraverso il racconto delle sue gesta, trasmesse di generazione in generazione, anche agli occhi dei posteri. Affinché ciò possa accadere, il guerriero a caccia di gloria deve entrare nella zona di piena visibilità, deve guadagnare, si potrebbe dire, il centro della scena. Soltanto lì, sotto l’occhio dei riflettori – diremmo noi oggi – le sue imprese e, soprattutto, la sua morte, l’impresa più gloriosa per un guerriero, potranno distinguersi rispetto a ciò che accade al centro della mischia indistinta, dove si uccide e si muore oscuramente. L’occhio di Elena è l’occhio di Omero, e l’occhio dei riflettori è l’occhio dei posteri.
Ma perché questo sanguinoso desiderio di luce, perché la vita dei fondatori della cultura occidentale culminava nella carneficina? Per capirlo dobbiamo guardare nell’abisso dischiuso sotto i loro piedi, dobbiamo gettare un rapido sguardo alla loro teoria della mortalità. Tutta questa immane costruzione culturale dell’epica poggia sulle fondamenta di una metafisica triste.
Tutto ciò accadeva, infatti, perché gli antichi Greci non concepivano una vita trascendente che attendesse l’individuo dopo la morte. L’unico «al di là» che conoscevano, l’Ade, era pensato come un luogo oscuro e infelice, infelice perché oscuro, dove le ombre di quelli che un tempo erano stati uomini palpitanti di vita, private del corpo che sente, patisce, gioisce, esulta, soffre, sanguina e muore, si aggiravano per l’eternità senza più storia. L’Ade era l’inferno di una cattiva eternità, popolato di ombre prive di storia perché senza luce, e prive di luce perché senza storia.
Per questo motivo, nella visione dei Greci, l’unica autentica immortalità nella quale gli uomini potessero sperare era quella fornita loro dalla gloria imperitura del loro nome, tramandato nei racconti dei posteri. Ma per guadagnarsi fama immortale, per potersi fare polpa di mito, l’uomo mortale doveva distinguere la propria individualità dalle legioni anonime dei suoi simili sprofondati in esistenze ingloriose, negli angoli bui della storia, nei coni d’ombra della memoria. Secondo questa concezione, non esisteva virtù che non si traducesse in comportamenti esteriori perfettamente visibili. L’individuo era tutto nella sua azione e l’azione era sempre, al tempo stesso, un’accettazione e un’insurrezione contro il destino umano. L’antico eroe omerico era l’individuo che, dopo aver abbracciato la consapevolezza di essere atteso da un destino di morte, da un’ineluttabile discesa tra le ombre dell’Ade, si ribellava a quel destino cercando la piena luce della gloria in una morte splendida e memorabile.

Se i classici non hanno futuro 
restiamo soli in questo mondo
Come dire: l’eroe è colui il quale, al pari di ogni altro mortale, sarà trascinato dietro un carro nella polvere come cosa inanimata, e di lì scenderà nella tenebra della morte. Ma, prima di farlo, fosse anche per un solo istante, quell’individuo, a differenza di tutti gli altri, avrebbe brillato. Un istante che sarebbe durato nell’eternità del mito.
Per i Greci l’uomo era brotòs, colui che muore, che sta morendo in ogni istante della sua vita. E allora, se l’unica forma d’immortalità concessa all’uomo è l’immortalità narrativa, perché la leggenda abbia inizio la sua vita deve compiersi. Il mythos è, insomma, l’unico logos appropriato a «colui che muore», l’arte che presiede al racconto di una storia è la sola logica del morente; da ogni altro punto di vista che non sia quello del narratore di una storia, per il quale la fine coincide con l’inizio, l’esistenza umana è insensata. Il canto dell’Aedo è l’unica possibile forma di senso dell’esistenza umana gravata da un destino di morte definitivo. Ciò che noi oggi chiamiamo «letteratura» è, insomma, l’unica religione che i Greci ci abbiano lasciato in eredità. L’unica nostra fede di miscredenti senza fedi trascendenti.

Tuttolibri La Stampa, 27 luglio 2019

statistiche