Commento a una mostra romana che
chiude, ahimé, il 6 gennaio, l’articolo che segue, di Marrone, propone un’ipotesi
di periodizzazione condivisibile. La pubblicità è di certo il fattore trainante
nella fase definita gastro-anomica,
tipica del ventennio 1950-1970 oggetto dell’esibizione. Dopo, specialmente a
partire dagli anni 80, arriva la gastromania,
cioè la pervasività della gastronomia, di cui forse non riconosciamo gli attori
principali e le connotazioni, essendovi tuttora immersi fino al collo e oltre. (S.L.L.)
.C’è un signore un po’ tonto che ha incubi strani. Sogna di incontrare
una signorina di bella presenza che ha l’aria di starci. Insieme giocano a
palla o con l’aquilone sulla riva del mare. Tutto molto romantico, grandi
sorrisi e sottili ammiccamenti, con Morning
Mood di Edvard Grieg a incanalare le reciproche effusioni. E con un finale
da pagliacci, dato a che a causa del pancione lui perde l’equilibrio e cade. Al
risveglio scopre che la pancia sta solo nel sogno perché a casa sua, grazie
alla cameriera nera con uniforme d’ordinanza, si cucina con l’olio pubblicizzato.
“La pancia non c’è più”, canta il tizio con un ritornello che, appunto, diverrà
un tormentone mediatico. Ma resta un senso curioso d’imperfezione: si trattava
d’un incubo? Tutto sembrava così bello, tenero, pulito. In fondo, lui alla fine
cade, ma la ragazza non fugge. Lo adora anzi, forse proprio per la sua
congenita goffaggine, per l’aria di impacciata sincerità che emana a ogni
gesto, per quel suo essere soave, paciocco, amorevolmente comico.
A me quello spot ha sempre
colpito per la sua palese incongruenza: perché lui è così contento d’essersi
liberato d’un sogno che era tanto bello? L’olio Sasso non fa rimpinguare,
d’accordo. Ma mica l’esser grassi era rappresentato come qualcosa di
disdicevole. Anzi, nonostante il pancione, la signorina l’aveva cercato e
voluto, stavano in un luogo fantastico, si amavano. Tornato alla realtà, eccolo
sì magro e scattante, ma scapolone in un tinello piccoloborghese lindo e
banale, governato da una specie di Mamy infida e petulante che lo rimprovera
continuamente, dove il meglio che può accadere è recarsi canticchiando in
ufficio, giorno dopo giorno, pranzando nei ristoranti dove si prepara da
mangiare con l’olio che non sviluppa calorie di troppo. Sinceramente, non so
che cosa è meglio, fra l’avere la pancia e la signorina avvenente o il fisico
longilineo e la governante rompiscatole. Il ventre piatto, sembra dire questo
spot, non è seducente, né per se stessi né per gli altri. Serve a star bene, a
essere cioè socialmente utili: senza grassi in eccesso non si inciampa, non si
vive da pagliacci… e si va contenti al lavoro. Il pancione invece, per quanto
vissuto come sogno angoscioso, sta dal lato dell’eros e del piacere, della
spensieratezza, della revêrie. In esso si pasce la leggerezza dell’essere.
Ora, visitando la mostra Il cibo immaginario. Pubblicità e immagini
dell’Italia a tavola curata da Marco Panella (Roma, Palazzo delle
Esposizioni, sino al 6 gennaio) ho avuto il satori:
quel che veniva rappresentato in questo filmetto è un mondo alla rovescia, dove
già vige l’ideologia funzionalista della dieta a tutti i costi che la modernità
ci ha imposto e che comporta, più in generale, tutto un immaginario legato al
cibo che ancora, nonostante le attuali gastromanie, ci portiamo dietro. In che
cosa consiste questo immaginario? e quanto ha inciso sulle nostre vite
(attraverso le nostre pance)? La mostra, per certi versi indirettamente, lo
spiega molto bene. Ricostruendo la storia della pubblicità alimentare italiana
degli anni Cinquanta e Sessanta, una storia a suo modo gloriosa e in gran parte
dimenticata, Panella ci fornisce uno spaccato della società italiana che dalla
ricostruzione postbellica, attraverso il boom economico, arriva all’austerity.
È l’immagine di una società umile
ma speranzosa, euforicamente in crescita sebbene fortemente legata ai valori
tradizionali della famiglia, del risparmio, del decoro, della buona educazione,
ma anche della mascolinità seduttrice, delle buone mogliettine che provano ad
accontentare i mariti esigenti, dei frugoletti eterna speranza della nazione,
delle signorine grandi firme e abbondanti curve. Trionfano le autostrade e i
supermercati, la televisione, la diffusione minuziosa di tecnologie per tutti.
Molti di questi annunci, prima ancora che darci un’idea del cibo consumato
dalle famiglie italiane, ci restituiscono il senso della rapidità con cui,
grazie alle apparecchiature elettriche, si trasformano le loro case.
L’arrivo in massa di
aspirapolvere, lucidatrici e macchine per cucire, ma soprattutto di cucine a
gas, frigoriferi, frullatori, tritatutto, ghiacciaie, pentole con doppio fondo,
macinacaffè automatici, dispositivi per tirare la pasta e detersivi che
uccidono lo sporco cambiano fortemente il lavoro della casalinga, rendendola
sempre meno casalinga. Arrivano nuovi materiali, come il vetro da fuoco, la
formica e, soprattutto, la plastica, che dicono di un universo al tempo stesso
euforico e misterioso che in quegli stessi anni Roland Barthes additava come
serbatoio inesauribile e filisteo dei miti d’oggi.
Ma sono soprattutto i nuovi
alimenti che invadono gli scaffali della grande distribuzione, adeguatamente e
ossessivamente pubblicizzati, a dar conto degli stili di vita degli italiani,
dei loro valori, delle aspettative, dei desideri e delle vergogne di quei
milioni di persone straordinariamente abbacinate dal mito del progresso. È come
se tutto accadesse intorno a un’ideologia furbetta, frettolosa, sostanzialmente
ipocrita, che inverte i nessi antropologici fra bisogno e piacere, ragioni e
valori, funzioni e significati, riservando ai primi termini un favore che nella
storia non hanno mai avuto. Così, non si mangia per gola ma per sfamarsi, per
crescere sani e forti, agili e scattanti, carichi di vigore ed energia. Il
gusto di cibi e bevande appare secondario rispetto alla nutrizione, alla
salute, all’economia domestica, all’eros.
Queste pubblicità lo ripetono a
più non posso, e con loro gli alimenti, pensati già a monte non come oggetti
del desiderio ma come soluzioni a problemi, ora di chi mangia, ora di chi
cucina. L’esercito agguerritissimo del cibo industriale (dal caffè in polvere
alle bustine del tè, dai formaggini spalmabili alle salse pronte, dalla
camomilla solubile ai pacchi di biscotti farciti, dalla frutta sciroppata ai
sofficini surgelati, dai gelati confezionati alle caramelle col buco, dal latte
condensato alla carne in scatola, dall’acqua minerale alle birre in serie, dai
salumi già affettati allo yogurt in barattolo, dalla maionese in tubetto alle
bevande che frizzano…) ha bisogno, per esser accettato, di motivazioni forti
che giustifichino, silenziosamente e definitivamente, la progressiva perdita
dei sapori, dei rituali legati alla tavola, dei valori connessi al territorio,
del senso di appartenenza fornito dalle coltivazioni locali. Ed ecco defluire
proposte commerciali al tempo stesso seriose ed enfatiche come le caramelle che
dissetano senza bere, l’amaro per digerire, il liquore contro il logorio della
vita moderna, la pastina glutinata che rende i bimbi più intelligenti,
l’aperitivo radioattivo (?!) che allunga la vita, le chewing gum per pulire i denti, i cioccolatini al caffè per una
carica di energia, l’ovomaltina che dà forza, le comode merendine per la
scuola, gli alimenti al plasmon che rendono facile la scala della vita, le
nutrientissime caramelle al miele, l’acqua minerale che mantiene giovani, il
latte per la purezza della carnagione…
Ma non è finita, c’è anche tutto
il campo della seduzione (caramella moretta, grappa che piace alle signore,
birra biondissima che accarezza dolcemente il palato) o della distinzione
sociale (whisky per intenditori, drink di classe, cocktail dei miliardari, grappa da veri conoscitori), perfino
tocchi di psicologia (da cui il geniale “ramazzottimista”).
È tutto uno scorrere di
ingegnosità (come l’idrolitina per rendere frizzante l’acqua del rubinetto) che
apre la strada senza ritorno a scatolette, preparati, surgelati, surrogati,
imbottigliati, affettati. E domina il senso della velocità: bisogna far presto
a preparare il risotto (precotto), a cuocere il ragù (in scatola), a fare il
brodo (col dado), a predisporre il sugo (con la pentola a pressione), a lavare
i piatti (per non diventare schiave), a rigovernare la casa (con
l’aspirapolvere).
Atteggiamenti che inaugurano,
dopo l’autarchico ventennio fascista, un altro e diverso ventennio, meno duro
ma molto più resistente, dove a dominare è la cosiddetta gastro-anomia, ossia
la perdita del senso del cibo, lo smarrimento del valore alchemico della
cucina, l’indifferenza per la socializzazione conviviale. Si mangia, appunto,
per ricaricarsi; si cucina per dovere casalingo: in gran fretta, per togliersi
il pensiero, e poi subito spaparanzati davanti alla tv o a passeggio con le
amiche nel grande magazzino di quartiere.
Dagli anni Ottanta, è noto, la
tendenza si invertirà. Oggi governa la ricerca spasmodica del gusto a tutti i
livelli, la gastronomia di tutti i tipi, con un immaginario pressoché opposto,
a cui attinge a piene mani l’attuale comunicazione di marca. I segni del cibo e
i linguaggi della pubblicità sono molto diversi. Il culto della buona tavola
sta pervadendo uomini e cose. Ma siamo certi che l’ideologia moderna
dell’alimentazione sia del tutto tramontata? Continuiamo a sognarci beati col
pancione e ci risvegliamo col ventre piatto. Ma siamo felici?