30.5.19

Due mamme (Moni Ovadia)

Moni Ovadia

Due mamme, una napoletana e una ebrea, hanno lo stesso, devastante problema: un figlio inappetente. Catastrofe: è la tragedia. Siamo già ai becchini vicino a casa.
La mamma napoletana mette il cucchiaio della pappa in bocca al bambino e gli dice:
“A Gennaro, magna ’a pappa a mammà!”
E il bambino: “Prrrr!”
“Gennaro... ammore ’e mamma, magna ’a pappa a mammà!.”
“Gennà... magna ’a pappa a mammà!”
“A sì? E magna ’a zia, ’a nonna, chi cazze!...” Questa madre è esasperata: “Magna ’stu cazze ’e pappa!”
Alla fine non ne può più, prende il bambino e minacciosa gli fa: “Sientame bbuono: si tu nun magne, i’ t’acchiappe co’ mane ’e mia. I’t’accide, Gennà! Si nun magni, i’t’accide co’ ’e mane ’e mmia!!!”
La “yiddishe mame” ha lo stesso problema: ‘Yankele amore... mangia la pappuccia.”
“Prrrr !”
“Ti prego amore, mangia la pappa. Devi crescere: devi andare all’università.”
“Prrrr!”
“Mangia la pappa! La mamma è stata sveglia tutta la notte per prepararti la pappetta buona.”
A questo punto la “yiddishe mame”, disperata, depone la scodella, il cucchiaio, prende il suo bambino in braccio, se lo appoggia al seno, comincia ad accarezzarlo, piange calde, caldissime lacrime, e poi dice: “Yankele, se continui a non mangiare, la mamma si ammazza!”

da Perché no? L'ebreo corrosivo, AsSaggi Bompiani, 1996




28.5.19

I prefetti del manganello (Miriam Mafai – Vie Nuove, 8 ottobre 1960)

L'articolo qui ripreso, di fine 1960, è il fondo di un numero di Vie Nuove, il settimanale popolare fondato e a lungo diretto da Luigi Longo e pubblicato dagli Editori Riuniti, la casa editrice del Pci. È, secondo me, assai bene documentato ed efficace: bene illustra, qualche mese dopo il luglio 60, che vide in molte città italiane le cariche feroci della polizia e in alcune (Reggio Emilia, Licata, Palermo) i manifestanti antifascisti uccisi nelle strade, il torbido intreccio tra un personale burocratico-poliziesco fascista per origine e mentalità ed il potere democristiano. 
La firma è Mi. M., l'autrice è Miriam Mafai, che al tempo, dopo un'esperienza di amministratrice comunale per il Pci a Pescara, lavorava nella redazione di Vie Nuove, di cui fu anche inviata a Parigi. La Mafai, che un po' più tardi (1962) divenne la compagna di Giancarlo Pajetta, era ancora “organica” al Pci, seppure nel ruolo professionale di giornalista che più le era congeniale; non si era perciò ancora specializzata nel dileggio (generalmente postumo) dei comunisti italiani e del comunismo italiano, in cui si contraddistinse più tardi, a partire da un suo velenoso libro contro Pietro Secchia, e che toccò l'apice nel Dimenticare Berlinguer e nel Silenzio dei comunisti
Parlando del proprio passato la Mafai nel 1995 ebbe a definirsi "una femminista nel partito più maschilista di tutti". Niente da obiettare sul maschilismo del Pci, ma che fosse “il più maschilista”, più della Dc, del Msi e dei saragattiani, è una esagerazione senza fondamento. E lo dimostra proprio l'esempio di Vie Nuove, che all'epoca non solo ospitava come rubrica fisse (lo fece per 5 anni dal 1960 al 1965) i Dialoghi con Pasolini, la cui omosessualità era tutt'altro che segreta, non solo era diretto da Maria Antonietta Maciocchi, ma affidava a una donna, lei stessa, la stesura dell'articolo di fondo, quello che dava la linea al giornale. (S.L.L.)


Solo le comunità i cui cittadini non avevano diritto di voto (cives sine suffragio, di seconda categoria quindi, senza pienezza di diritti politici e civili) potevano, nel diritto romano, essere soggette ai «prefetti», delegati dal pretore urbano per la giurisdizione di città situate ad una certa distanza da Roma.
Una concezione dello Stato che faccia perno sull'istituto dei prefetti, presuppone dunque una società di cives sine suffragio. Il diritto romano aveva il merito di chiamare le cose con il loro nome, merito che si è andato perdendo nei secoli. L'on. Scelba ad esempio, pronunciando il suo «elogio dei prefetti», domenica scorsa a Firenze, ha parlato certamente un linguaggio assai chiaro, ma non quanto sarebbe stato desiderabile. Egli, come si sa, ha dichiarato che «se il prefetto non esistesse bisognerebbe crearlo», ha sostenuto che la sua è una posizione di «naturale preminenza» nei confronti degli organi elettivi dei potere locale, ha insistito che «per quanto ampia possa essere la autonomia degli enti locali», la vigilanza ed il potere prefettizio rimarranno pur sempre elementi «insopprimibili». Tralasciamo qui di sottolineare come questa concessione entri, apparentemente, in contrasto con dichiarazioni fatte da altri esponenti della De i quali si affermano, a parole, fautori di una più ampia autonomia municipale, collegata con la istituzione dell’Ente Regione, così come previsto dalla Carta Costituzionale. A queste parole noi abbiamo sempre creduto con molte riserve, anche per una fondamentale discordanza tra le parole e i fatti; le affermazioni dell’on. Scelba esprimono certamente meglio i reali intenti della politica De anche perché si accompagnano inesorabilmente ai fatti che le confermano. Non c’è dubbio infatti che in questi anni i prefetti si sono comportati, secondo le direttive dei successivi ministri degli Interni, esattamente come delegati a governare «cittadini di seconda categoria», commettendo una lunghissima serie di soprusi, di discriminazioni, di vere e proprie illegalità.
La verità è che ogni prefetto, ancora oggi è convinto di essere la « più alta autorità dello Stato presente nella circoscrizione, cui fa capo tutta la vita della provincia, che da lui riceve impulso e direttive... ufficio non semplicemente amministrativo, ma anche squisitamente politico». «Il prefetto (traiamo questa definizione da un testo di diritto pubblico dell’epoca fascista) ha potestà di comando e di divieto, funzioni di controllo di legittimità e di merito, funzione di repressione e di prevenzione, egli vista omologa autorizza approva nomina delega revoca annulla sospende, sostituisce l’opera propria a quella di uffici ed enti,., espropria liquida spese contratta punisce licenzia, applica multe ordina inchieste, e così via... ».
Questa definizione del prefetto potrebbe non essere che una curiosità storica, se a ricoprire questa carica, oggi nel nostro paese non fossero proprio i vecchi funzionari dello Stato fascista, secondo i quali evidentemente quelle norme hanno ancora vigore.
Quanto affermiamo è rigorosamente documentabile. Sono dati agghiaccianti quelli che sottoponiamo oggi alla attenzione dei nostri lettori. Su 64 prefetti di prima classe, tutti (escluso uno: l’avv. Luigi Peano) hanno avuto incarichi anche di alta responsabilità durante il regime fascista. Un esiguo gruppo di questi alti funzionari, esattamente i prefetti di prima classe: Rizza, Palamara, Zacchi, Mauro, De Sena, Morosi, Jannoni, entrarono in servizio prima della "Marcia su Roma”. Il regime li conservò ai loro posti, facendoli avanzare verso i gradi più elevati. Una buona parte degli attuali prefetti della Repubblica potrebbero poi essere definiti come appartenenti alla «leva Matteotti»; sono infatti coloro che entrarono in servizio in quel tragico periodo della storia nazionale, una sorta di volontari quindi della amministrazione e della burocrazia dello Stato fascista, e suoi fedeli servitori per esattamente venti anni. Sono i prefetti di prima classe Carcaterra (attuale capo della Polizia), Speciale, Moccia, Celona, Temperini, De Filippo, Limone, Micali, Mascolo, Meneghini, Iodice, Cigliese, Antonucci, Di Pangrazio, Salazar. Immediatamente dopo la promulgazione delle leggi eccezionali, con l’irrigidirsi ormai del regime nelle regole di una dittatura accentrata e sempre più bisognosa di una fedele burocrazia, nuovi funzionari di particolare fiducia vennero selezionati tramite i concorsi ai posti direttivi. È del 26 l’ingresso nella carriera degli attuali prefetti dì prima classe, Foti, Gaipa, Mondio, Carelli, Torrisi, Liuti, Ioannin, Scolaro, Guida, Mininni. Tutti gli altri sono entrati al ministero negli anni successivi compresi tra il 1930 e il 1934.
Questi sono i fedeli funzionari dello Stato fascista, per costume, mentalità e convenienza portati ad una concezione autoritaria, antidemocratica della proprie funzioni, rotti alla discriminazione, all’odio anticomunista ed antipopolare, all'intrallazzo, al silenzio complice ed al servilismo politico, gli uomini ai quali Scelba attribuisce oggi una funzione «preminente» ed «insopprimibile» nella costruzione del nuovo Stato democratico.
Sulla base di questa lunga alleanza tra un potere legislativo nel quale la Dc ha detenuto per lunghi anni la maggioranza assoluta, ed un potere esecutivo rigidamente governato da vecchi funzionari di educazione e mentalità fascista, sta il segreto del predominio, del monopolio di potere della Dc. Per questo noi non crediamo che il governo Tambroni fosse un fatto casuale, una sorta di malefica improvvisazione, dalla quale la Dc si sarebbe riscattata con l’attuale formula governativa. No, il male è alla radice, è in una lunga pratica di potere esercitata insieme, nei gabinetti ministeriali prima ancora che nei corridoi di Montecitorio, tra due corrotte classi dirigenti. E ognuna si è riconosciuta e compenetrata tanto nell'altra che è difficile ormai distinguere quanto ognuna vi abbia dato di suo. Il risultato, il clerico-fascismo, è, comunque, mostruoso.

Un dì la vita ... Una poesia di Sandro Penna



Un dì la vita mi era beata.
Tutta tesa all'amore anche un portone
rifugio per la pioggia era una gioia.
Anche la pioggia mi era alleata.

da Poesie, Garzanti, 2000

Le domeniche. Una poesia di Franco Fortini

Dicembre 1992. Una domenica a L'Avana  - Foto Maruano Di Franco


Gli uccelli volano in cielo
le vele vanno sul mare
le erbe scendono i fiumi.

E c'è una domanda sul cielo
una domanda sul mare
una domanda sui fiumi.

La gente cammina sui campi
gli amanti si guardano in viso
poi guardano i fiori dei prati.

E presto si spengono i campi
presto si sperdono i visi
e quello che è stato è già stato.

Lo spino portava la rosa
la rosa portava l'amore
l'amore portava la pace.

Ed era per noi quella rosa
era per noi quell'amore
era per noi quella pace.
1950

da Poesia ed errore, in Tutte le poesie, Mondadori, 2014

Razzismo (S.L.L.)


Forse bisogna dirlo con più chiarezza. Il razzismo del ministro Salvini e della sua Lega non consiste solo nel tentativo di fermare l'ingresso nel nostro paese di profughi e migranti con mezzi che mostrano un totale disprezzo delle vite umane, ma anche, e ancor più, nelle politiche di discriminazione contro gli immigrati, anche regolari, praticato a tutti i livelli: dagli ostacoli all'ottenimento della cittadinanza alle politiche sociali (il "prima gli italiani" - e non "prima chi ha più bisogno" - significa spesso "solo gli italiani da tre generazioni") in tutti i campi dell'assistenza. Ad esse si accompagna una generalizzata e organizzata criminalizzazione degli immigrati, considerati ladri, rapinatori, stupratori, magnaccia, vagabondi o - nella migliore delle ipotesi - parassiti. Tutti criminali, insomma, effettivi o potenziali. E senza nessuna differenza tra regolari, irregolari, "ospiti" dei Centri in attesa di regolarizzazione o espulsione.
È nelle cose che una condizione permanente di irregolarità favorisca una contiguità con la delinquenza ed è nelle cose che le grandi organizzazioni criminali nazionali e internazionali approfittino della situazione, utilizzando gli immigrati irregolari come manovalanza del crimine. Il razzismo sta nel connettere questa situazione contingente a caratteristiche razziali, etniche, religiose e culturali.
Il Salvini si presenta come un "padre di famiglia" che difende la sicurezza e il benessere dei suoi dalle intrusioni illecite e dichiara di considerare assurdi e surreali i paragoni con il nazismo, le leggi razziali etc. Può farlo anche perché l'ignoranza della storia o una sua conoscenza superficiale impediscono ai più di vedere l'analogia profonda tra la propaganda hitleriana antisemita e quella dei leghisti e dei loro alleati.
La "purezza della razza ariana" ed altre disgustose teorie vigenti nelle organizzazioni del partito nazionalsocialista e diffuse nelle scuole e nelle università erano solo un aspetto della propaganda nazista; ma ce n'era un altro, più subdolo e probabilmente più efficace, quello secondo cui "gli ebrei ci rubano il lavoro, le case, l'assistenza, con la protezione dei socialisti e degli umanitari, ci fanno concorrenza sleale nei commerci e negli affari, sono dei parassiti, non sono come noi". Di questa propaganda spicciola, di questo veleno quotidiano ci sono tantissimi documenti nella pubblicistica dei nazisti, come pure nei discorsi di Hitler e degli altri gerarchi fin dagli anni 20, quando ancora non governavano e non erano in grado di organizzare politiche di discriminazione e persecuzione.
Furono codesti discorsi da "padri di famiglia" a diffondere l'odio, a preparare le coscienze alle leggi razziali, alle discriminazioni, alle violenze, alle persecuzioni, alla stessa "soluzione finale". In molti tedeschi c'era la convinzione che quelle misure e quelle politiche, fossero giustificate, perché erano "loro", gli ebrei, i cattivi, gli invasori, i portatori di delinquenza e di disordine, gli agenti dello straniero, i parassiti e gli usurai, quelli che toglievano spazio, lavoro e risorse ai "buoni tedeschi".
Lo studio di quella storia aiuta al capire il presente. Forse per questo cercano di impedirlo.

Stato di fb, 24 maggio 2019

“E ora nella casa”. Una poesia di Franco Fortini



E ora nella casa penso com’è il suo viso,
la svolta della guancia, la sua voce
se qualche volta per sé canta sola
e come nulla, se pianga, la consola.

Ma non sa quanto la mia mente tace
fra le sue tempie di chiusa persona,
né che fra quante passano figure
porta lei sola le ore future.

E se guardiamo i due volti diversi,
i nostri, una giustizia esce dalle paure:
non è in se stessa per morte finita
una vita che spera in una vita.

Queste parole ora dico per lei
che scende con la sua sorte infinita
nel sonno che la quieta,
anima mia da tanti anni segreta.
1952

da Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2014

27.5.19

La partenza immaginaria. Una poesia di Cesare Genovese (1927 - 1999)



Mi piace immaginarti, questa sera,
accanto a un treno, con un fazzoletto
per salutarmi, mentre, su un diretto,
parto da una stazione di frontiera.

Non ci resta che attendere il momento
della partenza, il trillo di un fischietto,
perché lo sventolio d’un fazzoletto
possa lenire il nostro turbamento.

Ora si che m’accorgo quanto bene
ti voglia, quanto t’ami veramente...
Il treno che si muove lentamente
dà senso a tutte quante le mie pene.

Ma... l’insistente cigolio di un ramo,
scosso dal vento che s’è appena alzato,
serve da inconsapevole richiamo
dal sogno che mi turba e ti ho narrato.

E ti confesserò, se non lo sai,
che dei viaggi sol l’ansie mi son note:
quelle delle carrozze ferme e vuote
che non si sposteranno forse mai.

Ma... chissà se, alla fine, non ci sia
sopra un binario, un treno che m’attende?
Chissà, se come in questa poesia
piangeresti, confusa fra la gente?

Di Micene, del tempo e d'altre cose, Cultura Duemila Editore, 1991 

La poesia del lunedì. Marina I. Cvetaeva (1892 - 1941)


La spensieratezza è un caro peccato,
caro compagno di strada e nemico mio caro!
Tu negli occhi mi hai spruzzato il riso
e la mazurca mi hai spruzzato nelle vene.
Poiché mi hai insegnato a non serbare l’anello,
con chiunque la vita mi sposasse.
A cominciare alla ventura - dalla fine,
e a finire - ancor prima di cominciare.
Ad essere come uno stelo, ed essere come l’acciaio.
Nella vita, in cui così poco possiamo,
a curare la tristezza con la cioccolata
ed a ridere in faccia ai passanti
1918

da Poesie, Feltrinelli 1979 - Cura e traduzione Pietro A. Zveteremich

Storicismo (S.L.L.)

Stamattina una domanda mi ronza nella testa: sono forse uno storicista? E un'altra, a corollario: è un crimine essere storicisti?
Per semplificare storicista è chi pensa che la vicenda umana abbia o abbia acquisito un senso, una direzione principale e che dunque vi sia in essa un procedere. (Anche la formulazione marxiana di una fuoruscita dell'umanità dalla preistoria e di un suo ingresso nella storia di una società senza sfruttamento, senza classi e senza stato contiene elementi di storicismo, anche se in un pensatore complesso come Marx non è difficile trovare appoggi per un "antistoricismo")
Attenzione: per essere storicisti non è indispensabile essere "storicisti volgari": immaginare un progresso lineare, negare arresti, deviazioni, inversioni, ritorni indietro, salti e incidenti di ogni tipo; e forse non è neppure indispensabile pensare che la direzione principale della storia sia una direzione irreversibile, obbligata, a cui ogni processo "in ultima analisi" si riconduce. Il "progresso", volutamente uso la parola più d'ogni altra incriminata, è, nel mio modo di pensare, anch'esso - almeno in parte - frutto del caso e di scelte.
Ma non la voglio fare troppo difficile, anche perché per la mia inadeguatezza mi perderei. La mia domanda iniziale potrebbe essere formulata diversamente e più semplicemente. E' storicismo il mio mettere insieme il riconoscimento, tanto per fermarci alla mia provincia italiana, del valore in qualche modo esemplare del Pci di Togliatti e la forte "simpateticità" con gruppi o personalità di eretici che la cosiddetta egemonia comunista combatterono, essendone a loro volta combattuti (Sciascia, Fortini, Binni, Capitini, Panzieri, Timpanaro ecc.)? Il pensare che da TUTTA questa storia (oltre che - ovviamente - da Leopardi e Gramsci) bisogna recuperare quel tanto che resta utilizzabile (e non mi pare poco) per riprendere un cammino interrotto, che tutti - ognuno a suo modo - questi maestri possano aiutarci a combattere la regressione verso l'imbarbarimento? Forse lo è. Ma ho deciso di autoassolvermi (lo fanno tanti perché non io?): non è un crimine.
Temo che questo post, questa sorta di diario sia una manifestazione, tra le tante, del narcisismo telematico che caratterizza il nostro tempo; ma ho voluto lo stesso mettere in rete queste mie piccole angosce. E se non interessano nessuno, pazienza.

Stato di fb, 20 maggio 2019

26.5.19

La morte di Luther Simjian, l'inventore del Bancomat

1967, Luther George Simijan  mostra il funzionamento della prima  macchina per Bancomat ("cash dispense")

È morto l’inventore del «cash dispenser», l’apparecchio - la versione italiana è l’ormai insostituibile Bancomat -che introducendo un’apposita tessera elettronica consente di prelevare denaro contante 24 ore su 24.
Luther G. Simjian, deceduto ieri nella sua villa a Fort Lauderdale, in Florida, aveva 92 anni.
Inventore geniale e instancabile, con una lungissima lista di scoperte al suo attivo, può essere considerato una delle incarnazioni del «sogno americano»:di famiglia armena, nato in Turchia, poco dopo la fine della prima guerra mondiale, all’età di 16 anni, era emigrato negli Stati Uniti come migliaia di suoi connazionali ed era poi riuscito a iscriversi alla facoltà di medicina della prestigiosa università di Yale. E fu proprio a Yale, frequentando il laboratorio di fotografia della facoltà, che si scoprì un naturale talento per l’innovazione tecnologica, per la realizzazione di invenzioni che ancor oggi influenzano la vita di milioni di persone. Il Bancomat - grazie al quale si porta con sé solo il contante strettamente necessario e si è affrancati dalla schiavitù del libretto degli assegni - ne è l’esempio forse più evidente, ma non certo l’unico.
Tra i primi brevetti di Simjian, nel 1932, c’è la macchina fotografica a messa a fuoco automatica, seguita due anni dopo dalla macchina a raggi X a colori. Stimolato dalla morte di alcuni suoi amici nel corso della seconda guerra mondiale, Simjian inventò l’Optical Range Estimation Trainer, il primo simulatore di volo del suo genere, per addestrare i piloti e gli artiglieri di volo. «Una cosa che scoprii di me stesso fin da ragazzo è che non posso soffermarmi su un’idea troppo a lungo», ha scritto nella sua autobiografia, pubblicata pochi mesi fa. Mente molto eclettica, nella sua vita Simjian ha brevettato più di 200 invenzioni, tra cui un metodo per frollare la carne e uno strumento di indagine supersonica utilizzato per gli esami agli ultrasuoni negli ospedali.

L'Unità, 5 novembre 1997 – articolo non firmato

25.5.19

Adriano. Ombre sul ritratto (Anna Ferrari)



“Ad un tempo serio e gioviale, affabile e contegnoso, sfrenato e controllato, avaro e generoso, schietto e simulatore, crudele e mite, e sempre in ogni cosa mutevole”: così l'Historia Augusta (Hadr., 14, 1), una delle due fonti che ci parlano di Adriano (l'altra è il libro 69 della Storia Romana di Dione Cassio) riassume le caratteristiche dell'indole dell'imperatore, una delle figure più affascinanti e insieme sfuggenti dell'antica Roma. Una personalità piena di contraddizioni, stando ai testi, per meglio comprendere la quale non aiutano neppure i ritratti: numerosi, levigati, opachi, di marmo o di bronzo, a ben guardare non rivelano davvero nulla di lui se non l'immagine convenzionale e classicheggiante del sovrano illuminato.
È perciò una sfida particolarmente stimolante proporre una biografia dell'imperatore che aiuti il grande pubblico a comprenderne le infinite sfumature del carattere: una sfida ancor più difficile se si pensa a quell'ingombrante macigno che incombe sulla strada di chiunque voglia cimentarsi con una biografia adrianea, rappresentato dalle Memorie di Adriano (1951) di Marguerite Yourcenar. Un masso meravigliosamente scolpito, non c'è dubbio, ma tale - per il suo peso letterario e la sua capacità di agire prepotentemente sull'immaginazione storica - da condizionare chiunque si proponga di imboccare quella strada, dettandone in qualche misura il passo e l'itinerario.
James Morwood, autore di un Adriano uscito in edizione originale inglese nel 2013 e ora tradotto da Biagio Forino per il Mulino, è tuttavia storico tale da non lasciarsi influenzare oltre il lecito. Il suo lavoro, calibrato sulle fonti più accreditate, è rigoroso ma insieme accessibile, come quasi sempre capita di constatare nelle letture di alta divulgazione anglosassone (e assai più di rado, purtroppo, nelle nostre).
E tuttavia, anche se, con eleganza, il masso rappresentato dal romanzo della Yourcenar viene scavalcato e lasciato da parte, un libro su Adriano destinato al vasto pubblico non può dare per scontati certi particolari a effetto, che certo minuzie non sono. Come la storia di Antinoo, per esempio: sulla quale, infatti, il libro si apre e sulla quale torna anche più avanti. Senza inutili fronzoli e maliziosi compiacimenti tutte le pedine sono disposte sulla scacchiera: c'è il giovane bellissimo Antinoo, amante dell'imperatore; c'è la passione di quest'ultimo per la caccia; c'è il problematico rapporto di Adriano con la moglie Sabina; c'è quella misteriosa “morte per acqua” del giovane, annegato nel Nilo nel 130 d.C. Indubbiamente quell'episodio può fungere da punto focale della complessità della figura imperiale, ed è a partire da qui che Morwood prende le mosse per la sua ricostruzione.
Una ricostruzione che non tralascia l'infanzia e la giovinezza del futuro imperatore in quella remota Spagna che aveva già dato i natali a personaggi illustri come l'imperatore Traiano o il filosofo Seneca, e la cui centralità per le sorti dell'impero viene messa in luce in un apposito capitolo. I primi passi di Adriano nella vita pubblica, che lo vedono al fianco di Traiano e impegnato sul campo durante le spedizioni daciche, sono l'occasione per indagare su Adriano soldato, sui rapporti tra il condottiero e i suoi uomini e sulla concatenazione di eventi che lo portarono a diventare imperatore, adottato da Traiano sul letto di morte come suo successore. Né, naturalmente, può mancare, in un discorso sui risvolti militari dell'operato adrianeo, qualche accenno al Vallo britannico e ai suoi tesori epigrafici.
La multiforme attività dell'imperatore non si limita però alle imprese militari (più di mantenimento che di conquista) e alle opere difensive: forse nessuno sul trono di Roma fu impegnato quanto Adriano in una così frenetica attività edilizia (che lo vide talvolta in aperto contrasto con il grande architetto Apollodoro di Damasco), nella costruzione di ville superbe come quella di Tivoli, e nel collezionismo d'arte, che contribuì al diffondersi di un gusto solitamente etichettato come “classicismo adrianeo”.
Lungi dal proporre una ricostruzione oleografica, Morwood non nasconde gli aspetti più sconcertanti della figura e dell'operato di Adriano, incantato dalla cultura greca ma di estrema durezza nei confronti della popolazione ebraica, attento a rinsaldare mediante frequenti viaggi i rapporti con le regioni più disparate dell'impero, ma pronto a usare la mano pesante contro gli stessi sudditi che fino al giorno prima lo avevano incensato. Alla fine di questo agile percorso, occorre riconoscere che le ombre continuano ad addensarsi sul ritratto di Adriano senza che la luce che pur vi viene proiettata copiosamente riesca a fugarle del tutto. Lo stesso Morwood si astiene dal trarre impossibili conclusioni. La chiave per capire questa figura seducente ed enigmatica resta, tutto sommato, quella dell'ambiguità. Intrinseca, forse, alla natura stessa dell'impero e alle sue più svariate forme e manifestazioni, come già Tacito aveva lapidariamente annotato in una sentenza memorabile messa in bocca al caledone Calgaco: “là dove fanno il deserto, gli danno il nome di pace”.

L'Indice, Aprile 2016

Giuliano, da Apostata a idealtipo dell’imperatore illuminato (Francesco Lubian)

L'immagine dell'imperatore in una moneta di Antiochia


Probabilmente nessun personaggio antico custodisce il proprio segreto più caparbiamente dell’imperatore Giuliano: rampollo della dinastia cristiana dei Costantinidi eppure estremo, fervente cultore degli dèi pagani, spirito contemplativo e al contempo coraggioso combattente, filosofo votato all’ascetismo ma spesso preda di impulsività e superstizione, l’imperatore morto poco più che trentenne nel 363 d.C. ha rappresentato un enigma per i contemporanei così come per i posteri, da sempre vittime del suo fascino. A fare luce sul dossier giulianeo contribuisce adesso Arnaldo Marcone, professore di Storia romana presso l’Università di Roma Tre, con il suo Giuliano L’imperatore filosofo che tentò la restaurazione del paganesimo (Salerno Editrice «Profili», e 25,00): una biografia che non scivola mai nello psicologismo, prova ne siano i primi capitoli, che delineano lo sfondo politico, filosofico e religioso del IV secolo riservando particolare attenzione alla competizione e alle interazioni fra cristianesimo e culto pagano. Quel che emerge è un panorama del Tardoantico quale campo di tensione, in cui il paganesimo filosofico è attraversato da marcate tendenze spiritualizzanti, se non proprio monoteistiche, mentre il cristianesimo elabora rapidamente una forte identità comunitaria, apprestandosi a ereditare la missione universale dell’impero. Come riconosceva il vescovo Gregorio di Nazianzo, antico compagno di studi di Giuliano, la sua restaurazione del paganesimo non va perciò interpretata come un anacronistico ritorno al passato, ma come il tentativo, fortemente innovativo benché sostanzialmente vano, di strutturare una chiesa pagana centralizzata e gerarchizzata sul modello di quella cristiana. Ciò spiega l’insofferenza dell’imperatore per ogni tipo di esperienza religiosa o filosofica non organica rispetto al suo progetto di riforma, anche in campo pagano: i filosofi cinici, bersaglio di scritti come il Contro Eraclio e il Contro i cinici ignoranti, diventano così sostanzialmente sovrapponibili ai monaci cristiani, e il polemico radicalismo dei primi in nulla è diverso dall’empia ipocrisia dei secondi.
Ma a quando risale la conversione di Giuliano? Una rilettura critica dell’epistolario giulianeo – da maneggiare sempre con cautela, data la sua evidente natura apologetica – consente di ricostruire le tappe di una graduale riscoperta delle forme della religiosità pagana, in cui dovettero giocare un ruolo rilevante l’amore per la cultura ellenica trasmesso dal precettore Mardonio e il contatto con la teurgia neoplatonica di Massimo di Efeso. Negli anni dell’apprendistato in Asia Minore e Grecia prende forma così la vocazione speculativa e filosofica di Giuliano, il quale tuttavia, durante il quinquennio del cesarato in Gallia (355-360), darà prova anche di eccellenti doti militari. Così, quando le truppe di stanza a Parigi lo acclamarono Augusto nel novembre del 361 – Marcone parla efficacemente di putsch per l’usurpazione –, la missione divina di Giuliano sembrò definitivamente prendere corpo: egli stesso, nei suoi scritti, elaborò una spiegazione provvidenzialistica dell’ascesa al trono, apparentemente confermata dall’improvvisa morte di Costanzo II, che risparmiò all’impero lo scontro campale con il predecessore.
Una volta al potere, Giuliano si distinse per un ambizioso piano di riforme fiscali, legislative e religiose, riletto da Marcone come un tentativo coerente di riforma dello Stato, in parte osteggiato anche da ambienti di corte, con cui l’imperatore ambiva a dar vita a un nuovo apparato burocratico-amministrativo e a una nuova organizzazione del culto pagano, entrambi funzionali al dominio di un re filosofo e sacerdote. Dietro lo sbandierato ritorno all’Ellenismo si celava dunque un progetto politico e religioso largamente innovativo, che dovette spiazzare molti contemporanei. Una delle novità di questa biografia è proprio il tentativo di interpretare le riforme giulianee a partire dall’orizzonte delle aspettative delle élites e della plebe rispetto alla condotta generalmente attesa da parte di un imperatore tardoantico: diventa così comprensibile non solo perché il governo di Giuliano non godette mai del favore di Temistio, il grande retore pagano che era stato proconsole di Costantinopoli sotto Costanzo II, ma anche la cruciale crisi antiochena, a cui è dedicato uno dei capitoli più innovativi del volume.
I fatti sono noti: dopo aver trascorso pochi mesi a Costantinopoli, Giuliano scelse come propria residenza Antiochia, dove si trattenne per circa otto mesi, dal luglio del 362 al marzo del 363. La scelta di Antiochia, capoluogo della provincia di Siria e residenza del prefetto del pretorio d’Oriente, fu dettata senz’altro dalle esigenze dell’imminente spedizione persiana, ma anche dal fatto che la città, sede della scuola filosofica di Libanio nonché di numerosi culti pagani, sembrava prestarsi meglio dell’ormai cristiana Costantinopoli all’attuazione del suo radicale piano di riforme religiose. Antiochia come ideale laboratorio per il regno dell’imperatore-filosofo, dunque; eppure, al di là della crisi alimentare del 362, l’imperatore e gli Antiocheni erano destinati a non capirsi, e l’inflessibile austerità del principe non poteva andare a genio né ai notabili locali, né al popolo minuto. I primi, nonostante la mediazione di Libanio, intravedevano nella condotta di Giuliano i tratti di una nuova autocrazia – poco importa se ammantata di neoplatonismo –, del tutto disinteressata a mediare con le élites cittadine gelose della propria autonomia, mentre il secondo non riusciva a comprendere perché mai l’imperatore si sottraesse ai tradizionali obblighi di munificenza, cercando di convertire all’ascetismo i cittadini di una polis rinomata nel mondo antico per i suoi giochi e le sue feste. Una tragica incomprensione, dunque, testimoniata dalla disperata, aggressiva satira del Misopogon, L’odiatore della barba, esempio unico di invettiva di un governante contro i costumi dei propri sudditi.
Deluso dalle difficoltà incontrate in politica interna, il Giuliano della fatale campagna persiana sembra muoversi ormai sotto un cielo indifferente se non ostile, come rivelano i presagi che precedono la sua caduta sul campo a Maranga, nel deserto mesopotamico, il 22 giugno del 363. È l’aspro conflitto relativo alla sua eredità politica e ideale a spiegare il precoce proliferare di diverse versioni sulla sua morte, secondo una tendenza eroicizzante di matrice pagana e una opposta, polemica e denigratoria, da parte cristiana, che l’ha inchiodato per secoli all’etichetta di ‘Apostata’. Ma la scomparsa di Giuliano non è bastata a placare la battaglia intorno alla sua figura, ben tratteggiata da Marcone nell’ultimo capitolo del libro: così, se le agiografie bizantine ne fanno spesso una sorta di incarnazione dell’Anticristo, a partire dall’Umanesimo egli è progressivamente divenuto l’idealtipo dell’imperatore illuminato, capace di affascinare fra gli altri Lorenzo il Magnifico e Montaigne, Voltaire e Henrik Ibsen.
Venti mesi in tutto, si diceva, è durato il regno di Giuliano; poco più di un soffio se paragonato agli oltre milleduecento anni di vita di Roma. Eppure, come scrive Prisco a Libanio nel Giuliano di Gore Vidal, uno dei più importanti romanzi storici del Novecento: «A volte ho l’impressione che la storia dell’impero romano sia un’unica, interminabile ripetizione delle stesse facce. In fondo si assomigliano tutti, questi uomini d’azione: solo Giuliano è stato diverso».

“alias – il manifesto”, 19 maggio 2019

Il mafioso Giulio Andreotti (Gian Carlo Caselli)

Assolto! Assolto! Assolto!”: così urlava al telefono al suo cliente Giulio Andreotti, l’avvocato - oggi ministro - Giulia Bongiorno. Era l'avvio di una spregiudicata campagna innocentista che ha truffato la stragrande maggioranza del popolo italiano, in nome del quale le sentenze sono emesse. Una campagna che aveva e ha tuttora un obiettivo preciso: minimizzare i rapporti fra mafia e politica che hanno drammaticamente segnato la storia di questo paese.
È questo il sommario dell'articolo di Giancarlo Caselli, presidente onorario di “Libera”, contenuto nel recente numero speciale di “Micromega” intitolato Il paese dell'impunità e dedicato a Mafia, corruzione e non solo (n.3/2019). Il fascicolo è proprio da leggere, possibilmente per intero, poiché i vari articoli compongono un mosaico terrificante. Dall'articolo del giudice Caselli riprendo qui l'inizio, che ha qualche aggancio con il presente. (S.L.L.)


Le tappe del processo
Ecco, per sommi capi, lo svolgimento del processo di Palermo al senatore Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e 33 volle ministro (nel suo curriculum anche 26 volte davanti alla Commissione parlamentare inquirente e 26 volte archiviato).
In primo grado (23 ottobre 1999) c’è stata assoluzione, sia pure per insufficienza di prove (la vicenda processuale, invece di essere valutala nella sua interezza, è stata segmentata e dispersa in mille rivoli; per cui, a fronte di vari giudizi sostanzialmente negativi su singoli gravi episodi, è mancato un bilancio conclusivo coerente). In appello (2 maggio 2003) la sentenza del tribunale è stata parzialmente ribaltata. Mentre per i fatti successivi alla primavera del 1980 Andreotti è stato nuovamente assolto per insufficienza di prove, per quelli antecedenti è stato ritenuto colpevole per aver COMMESSO il reato contestatogli (associazione a delinquere con Cosa nostra). Il reato COMMESSO è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente COMMESSO.
La Cassazione (28 dicembre 2004) ha confermato la sentenza d’appello anche nella parte in cui si afferma la penale responsabilità dell'imputato fino al 1980. Processualmente è questa la verità definitiva ed irrevocabile.
La sentenza della Corte d’appello consta di una motivazione di circa 1.500 pagine e di un dispositivo di poche righe, lette come di regola in pubblica udienza (presenti quindi giudici, pm, segretari, cancellieri, avvocati, giornalisti e pubblico). Chiara e forte nel silenzio di tutti, è risuonata la parola «COMMESSO» e tutti in quell’aula l’hanno chiaramente udita. Ma pochissimi - allora e poi - l’hanno voluta capire. A partire dall’avvocato Giulia Bongiorno, allora difensore di Andreotti e oggi ministro, attenta solo a quel che le conveniva. E così, subito dopo aver ascoltato il dispositivo, eccola esibirsi spensierata e felice - in favore di telecamere in un triplice urlo: «Assolto! Assolto! Assolto!», in collegamento telefonico col suo cliente. Peccato che una parte essenziale del dispositivo ascoltato pochi istanti prima dicesse tutto il contrario. Era l’avvio di una spregiudicata campagna innocentista che ha truffato la stragrande maggioranza del popolo italiano, in nome del quale le sentenze sono emesse. Un macigno sulle spalle dell’imputato è stato sminuzzato se non dissolto a colpi di manipolazioni e insulti al buon senso. Perché la formula «assolto per aver commesso il reato» non esiste in natura. È un ossimoro da capogiro. Una contraddizione logica prima che tecnica.
La Corte d’appello (confermata, ripeto, in Cassazione) si è basata su prove sicure e riscontrate. In particolare ha ritenuto provati - insieme ad altre decisive parti dell’impianto accusatorio - due incontri in Sicilia del senatore (accompagnato da Salvo Lima e dai cugini Nino e Ignazio Salvo) con Stefano Bontade, all’epoca capo dei capi, e altri mafiosi di «rango». Negli incontri (il secondo si svolse nella primavera del 1980, la data del dispositivo della sentenza che indica il «dies ad quem» del commesso reato) si discusse di fatti criminali gravissimi relativi a Piersanti Mattarella, capo della Dc siciliana, politico onesto che pagò con la vita l’essersi opposto a Cosa nostra. Principale fonte di prova il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia (teste oculare di un incontro): un «pentito» rivelatosi sempre analiticamente preciso (già con Giovanni Falcone) e mai smentito. La Corte d’appello ha sottolinealo in particolare che l’imputato non ha denunziato le responsabilità dei mafiosi «in relazione all’omicidio di Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza». In sintesi, la Corte d’appello ha ritenuto che Andreotti abbia contribuito «al rafforzamento della organizzazione criminale», ravvisando a suo carico «una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo».
Meritano inoltre di esser ricordati alcuni specifici punti.
- Contro la sentenza d’appello la difesa di Andreotti fece ricorso in Cassazione. Ecco la prova provata, secondo una logica elementare, che non vi fu «assoluzione» per i fatti fino al 1980. Mai visto, in quasi cinquant’anni di magistratura, un difensore o imputato che ricorra contro la sua assoluzione. Non esiste.
- La prescrizione è per legge rinunziabile, ma l’imputato non lo fece, sperando di poter essere assolto anche per i fatti fino al 1980; la Cassazione gli diede però torto.
- Tommaso Buscetta (che di Andreotti non volle dir nulla a Giovanni Falcone: sennò ci prendono per pazzi...) già nel 1985 ne aveva parlato al pm statunitense Richard Martin nell’indagine «Pizza connection». Martin, che non aveva utilizzato la rivelazione su Andreotti in quanto ininfluente nella sua inchiesta, confermò la circostanza (sotto giuramento) in pubblica udienza al processo Andreotti. Con il che diventa ridicola qualunque accusa di «teorema».
- Ricorrendone tutti i presupposti, la procura di Palermo esercitò l’azione penale (obbligatoria) contro Andreotti. Non farlo sarebbe stato illegale, disonesto e vile. Nessuno ha mai pensato di riscrivere la storia d’Italia.
- Chi ha nascosto la verità sull’esito del processo di Palermo non ha voluto elaborare la memoria di ciò che è stato perché teme il giudizio storico su come in una certa fase si è (almeno parzialmente) formato il consenso; è evidente il pessimo servizio che in questo modo si rende alla trasparenza democratica del nostro paese.
Quest’ultimo punto aiuta a capire perché l’incontestabile verdetto di colpevolezza fino al 1980 sia stato sistematicamente stravolto, occultando la responsabilità penale - accertata con riferimento a un vergognoso delitto - con un «sapiente» processo di beatificazione mediatica. Fino al punto di celebrare il centesimo anniversario della nascita di Andreotti con una solenne cerimonia a Palazzo Madama, col patrocinio del Senato, alla presenza della compiaciuta e ilare presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati. Così completando la trasformazione di un colpevole definitivo in un povero perseguitato innocente, costretto a un calvario di una decina d’anni da un gruppetto di magistrati politicizzati, sconsiderati e malvagi: giustizialisti irriducibilmente prevenuti e accaniti nei suoi confronti.

"MicroMega" 3/2019

24.5.19

Albe Steiner. Valori estetici, morali e politici (Gian Carlo Ferretti)

Lica e Albe Steiner

Albe Steiner rappresenta certamente una delle figure ed esperienze culturali più importanti del Novecento, per il suo complesso e originale ruolo professionale, nel quale il lavoro grafico-redazionale e l'operatività pratica s'intrecciano strettamente alla militanza politica e alla creatività intellettuale. Che significa anche l'anticipazione o addirittura l'invenzione di un modello. L'articolata vicenda biografica di Steiner, i suoi contesti e committenti, la sua rete di relazioni a un alto livello nazionale e internazionale, e la sua sterminata attività editoriale, educativa e pubblicitaria (compresi numerosi progetti non realizzati, come accade sempre per le grandi personalità), vengono ricostruite nel saggio di Marzio Zanantoni (Albe Steiner, Cambiare il libro per cambiare il mondo. Dalla Repubblica dell'Ossola alle Edizioni Feltrinelli, pp. 433, € 20, Uni-copli, Milano, 2013) con un ammirevole impegno di ricerca su studi editi, carte d'archivio e interviste inedite, con un'estesissima raccolta di giudizi, notizie, aneddoti, e con un'analisi e interpretazione intelligente e appassionata. Un saggio insomma davvero esaustivo, che valorizza anche il contributo concreto e prezioso della moglie Lica. Dall'interno della molteplicità e ricchezza di temi, edizioni, testate, scuole, ecc., che ha la sua parte centrale tra il 1945 e il 1965, ma che si sviluppa dagli anni trenta ai settanta, è necessario ricavare alcune linee essenziali e caratterizzanti.
Gli anni giovanili di Steiner sono segnati tra l'altro dalla figura dello zio Giacomo Matteotti assassinato dai fascisti nel 1924, e dalle prime prove professionali a Milano, che proseguono negli anni successivi, insieme alla maturazione antifascista e alla scelta comunista, attraverso l'amicizia dell'architetto e pittore Gabriele Mucchi, la frequentazione del gruppo di “Corrente”, il lavoro politico clandestino e alcuni drammi familiari dovuti alle persecuzioni razziali e alla deportazione. Una serie di esperienze e di eventi che culminano nella partecipazione di Steiner alla lotta partigiana in Valdossola nel 1944, e alla breve intensa vita della “zona liberata”.
Il ritorno a Milano nel 1945 dopo l'internamento in Svizzera, apre un'importante fase di lavoro, nel fervido clima ideale dell'Italia Liberata: dall'“Unità”, dove Steiner inizia il sodalizio con Elio Vittorini redattore capo, al mensile di letteratura, politica e storia “Risorgimento”; dal quotidiano “Milano Sera”, dove continua il sodalizio con Vittorini condirettore, al leggendario “Politecnico” che rimane una delle più significative realizzazioni giornalistiche, culturali, politiche e grafiche del Novecento. Un giornale settimanale (e poi mensile) nel quale Steiner è di Vittorini un interlocutore e collaboratore fondamentale, quasi un coautore. La tensione militante e insieme divulgativa del “Politecnico”, infatti, si fonda sullo stretto rapporto tra progetto intellettuale e impostazione grafica, e sulla costante integrazione di testo e immagine. Un giornale vivace, vitale e nuovo nei suoi contenuti e nelle sue forme.
I crescenti dissensi politici che in questi anni segnano i rapporti tra Vittorini e il Pci fino alla rottura sono ben noti, mentre c'è da parte di Steiner una fedeltà che continuerà anche in seguito, e sia pure con una critica all'insensibilità del partito verso la novità delle forme espressive da lui praticate e teorizzate. Steiner peraltro non pone soltanto l'esigenza specifica di un diverso modo di fare propaganda, ma più in generale approfondisce un'idea che ha sempre circolato al fondo del suo lavoro: quella di una finalità sociale della grafica, realizzata al di fuori degli schemi ideologici tradizionali, e all'interno di una non neutrale modernità. A questa idea contribuiscono anche i contatti con le avanguardie politiche, artistiche e letterarie in Messico durante il suo soggiorno tra il 1946 e il 1948.
Dal ritorno a Milano perciò, si ritrova in Steiner una lucida coerenza tra l'attività pedagogica e organizzativa nel Convitto e nella Cooperativa Rinascita e nella Società Umanitaria, e l'esercizio di un sempre più consapevole e avanzato mestiere grafico nel campo della stampa e dell'editoria di sinistra, dalle riviste alla produzione libraria, dalle Edizioni Avanti! agli Editori Riuniti, negli anni cinquanta e primi sessanta. Ma di particolare rilievo in questo quadro è la sua esperienza feltrinelliana, che inizia nel 1954 alla vigilia della nascita della casa editrice, e che ha il suo periodo più proficuo e produttivo tra il 1956 e il 1960, seguito da una fase di difficoltà e di contrasti interni, e da un conclusivo distacco.
Steiner si trova a lavorare su una produzione che, grazie al dinamismo, alla concretezza e alla lungimiranza del fondatore Giangiacomo Feltrinelli, sviluppa attraverso i suoi diversi filoni un discorso unitario, nel segno della scoperta e della discussione, della militanza e del rigore, e anche del successo di critica e di pubblico. I casi clamorosi del Dottor Zivago e del Gattopardo, la narrativa straniera attivamente sperimentale, la saggistica d'assalto, le collane di alto livello scientifico e una ricca “Universale economica”, diventano infatti espressioni di una forte identità editorial-culturale. Alla costruzione del prodotto-libro nelle sue varie forme e all'immagine poliedrica e insieme coesa delle edizioni Feltrinelli contribuisce perciò la grafica di Steiner. Caratterizzanti soprattutto le copertine, non puramente o esteriormente ornamentali, ma ispirate al proposito di collegarsi più o meno direttamente al contenuto. Copertine inoltre articolate liberamente in una vasta gamma di formule funzionali a questo o quel libro o collana, dalle più severe alle più audaci, ma rappresentative di quella stessa identità.
Steiner conclude la sua straordinaria carriera in una casa editrice che non è tra le grandi protagoniste dell'editoria libraria italiana, ma che può vantare una produzione moderna e innovatrice nei settori della scolastica e della manualistica, delle enciclopedie monografiche e dei dizionari: la Zanichelli di Bologna.
Con la morte di Steiner scompare nel 1974 l'intellettuale che in Italia, con il suo impegno e la sua genialità, ha saputo fare della grafica una disciplina autonoma e nuova, fondata su un fecondo legame tra valori estetici, valori sociali e valori politici. Un autentico e grande maestro.

L'Indice, Marzo 2014

Sul cielo del Montello. Francesco Baracca, eroe dei cieli o suicida? (Alessandro Marzo Magno)



Gli eroi sono sempre giovani e belli, e fin qua ci siamo. E poi non si suicidano, altrimenti che eroi sarebbero (tanto più in un Paese cattolico, dove fino a qualche tempo fa ai suicidi veniva negata la sepoltura in terra consacrata). E da questo punto di vista Francesco Baracca potrebbe avere qualche problemino.
L’eroe, l’asso dell’aviazione italiana prima ancora che l’Aeronautica fosse stata inventata (Baracca, come molti piloti, era un ufficiale di cavalleria, al tempo si pensava che duellare nell’aria fosse un po’ come duellare lancia in resta in sella a un destriero), con 34 vittorie al suo attivo, quel 19 giugno 1918 forse non è stato ucciso da un aereo nemico, o dal proiettile sparato da un cecchino austroungarico, ma da un colpo della sua pistola, suicida per non morire arso vivo, orrida fine di molti, moltissimi, piloti.
Baracca quel giorno volava sul Montello, un salsiccione sopraelevato che domina un tratto del fiume Piave. Era in corso la battaglia del Solstizio, ovvero l’evento che ha davvero deciso le sorti della Prima guerra mondiale: l’Austria-Ungheria in quell’offensiva sul far dell’estate si era giocata il tutto per tutto. Aveva gettato sul Piave tutto quello che poteva (poco) contando di arrivare a Treviso in paio di giorni e a Venezia subito dopo. Ma Vienna non si rendeva conto che l’esito risultava minato fin dal principio, per due motivi: i contrasti tra i comandanti e perché le truppe erano – letteralmente – alla fame. Il fronte montano era affidato a Franz Conrad von Hötzendorf , ex capo di stato maggiore, rimosso dall’imperatore Carlo e mandato a comandare l’area del Trentino, dell’altipiano di Asiago e del Grappa. La pianura, invece, era assegnata a Svetozar Borojević von Bojna – un serbo di Krajina – detto “il Leone dell’Isonzo” perché per due anni aveva comandato il fronte meridionale, che gli italiani chiamano Carso e gli austriaci Isonzo, resistendo senza perdere troppo terreno a undici battaglie e vincendo quella decisiva, la dodicesima, che gli italiani conoscono come Caporetto. Conrad vuole attaccare in montagna, Boroević in pianura (ognuno vuole la gloria per sé, ovviamente). Vienna invece di puntate sull’una o l’altra opzione, e concentrare tutte le proprie forze, decide di non scontentare nessuno dei prestigiosi comandanti (l’Austria è l’Austria) e quindi l’offensiva comincerà in montagna, tra l’Astico e il Piave, e poi, in caso di esito negativo, continuerà in pianura. Ovvero: le forze vengono disperse e la battaglia è persa prima ancora di cominciare.
Un’altra conseguenza della battaglia del Solstizio a noi ben nota è La leggenda del Piave, composta di getto nella notte del 24 giugno 1918 da un autore di canzoni napoletane, E. A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta. Questi aveva scritto alcuni celeberrimi hit partenopei – “Santa Lucia”, tanto per citarne uno – ma lega il suo nome a quel «il Piave mormorò» che sarà presto sulla bocca di tutti i soldati e che cambierà per sempre il genere del fiume Piave (in precedenza si diceva “la” Piave, come femminili erano Sile e Livenza, mascolinizzati pure quelli per analogia).
Ma ora torniamo a Baracca. Gli austriaci nel settore del Montello erano riusciti a passare il Piave e avevano preso la cittadina di Nervesa. Gli aerei italiani mitragliavano i nemici a bassa quota. Lo Spad del maggiore Baracca cade in località Busa delle rane, un posto impervio e dalla vegetazione fittissima. Gli austriaci non se ne curano e gli italiani – che sanno chi era ai comandi dell’aereo colpito – raggiungono il corpo dell’asso solo alcuni giorni dopo, il 23, quando le truppe dell’imperatore erano ormai tornate al di là del Piave.
Baracca risulta essere stato ucciso da un colpo nell’incavo dell’occhio destro, alla radice del naso. Il punto è: partito da quale arma? L’abbattimento del velivolo era stato rivendicato sia dai piloti austriaci Arnold Barwig e Max Kauer, sia da un cecchino che aveva detto di aver sparato all’aereo dall’alto di un campanile, oppure potrebbe esser stato abbattuto da fuoco antiaereo, come avrebbero stabilito studi più recenti. Rimane però sempre in piedi l’ipotesi che si sia suicidato. Durante la Prima guerra mondiale i piloti non avevano paracadute («ne diminuirebbe l’ardimento», decretarono i generali più stupidi che la storia ricordi) e quindi, se non erano colpiti direttamente, erano destinati a una morte orrenda: bruciati vivi nell’aereo in fiamme. Baracca aveva scritto qualche tempo prima che non intendeva morire in quel modo e che, se fosse precipitato, si sarebbe sparato. Si dà il caso però che lo Spad con il cavallino rampante prenda fuoco solo in parte e il cadavere del pilota sia ritrovato intatto.
La pistola del maggiore di cavalleria divenuto aviatore non è nella fondina. Il foro di entrata del proiettile è nettamente più piccolo degli squarci provocati dai proiettili di mitragliatrice che hanno colpito e abbattuto l’aereo. Ma il più fulgido eroe italiano non può essersi suicidato: il suicidio, nella mentalità di allora, è un atto di vigliaccheria, non di eroismo, quindi si dà inizio a una grande operazione di propaganda per nascondere la verità. Baracca, già celebrato in vita, da morto viene quasi santificato. Ai funerali, a Lugo di Romagna, suo paese natale, partecipa l’erede al trono, e subito comincia la costruzione del mito che dura ancora ai giorni nostri, con strade, piazze e persino stadi (a Mestre) e squadre di calcio (il Baracca Lugo) dedicate all’eroe caduto in battaglia.
Studi recentissimi mettono in forse anche la tesi del suicidio, la ferita sulla fronte non sarebbe di arma da fuoco, ma da impatto. Ovvero Baracca sarebbe riuscito in qualche modo ad atterrare, avrebbe preso un colpo tremendo sotto l’occhio, sarebbe riuscito a uscire dalla carlinga e ad allontanarsi dall’aereo prima che bruciasse, per poi morire poco lontano, probabilmente a causa di un’emorragia interna. Tante ipotesi, nessuna certezza. Quel che accadde davvero sul cielo del Montello 95 anni fa rimane ancora un mistero.

Linkiesta, sabato 30 giugno 2012

Ricorrenze. Dieci anni fa la campagna di “Repubblica” sull'affaire Noemi- Berlusconi. Un articolo di D'Avanzo e Sannino.


A partire dal 10 maggio 2009 e per alcune settimane “la Repubblica”, stampò ogni giorno le Dieci domande al premier, Silvio Berlusconi, in cui – con indicazioni particolareggiate – si chiedevano spiegazioni al Cavaliere (ora ex Cavaliere), in quel momento all'apice del potere, spiegazioni sui suoi rapporti con la giovanissima napoletana, Noemi Letizia, alla cui festa dei 18 anni aveva partecipato a Napoli, dopo averla ospitata ancora minorenne in una sua villa in Sardegna. Il quotidiano diretto da Mauro, in mancanza di risposte puntuali, arricchì la sua campagna con articoli di inchiesta sull'affaire, che smentivano le generiche smentite del presidente del Consiglio. Un momento cruciale della campagna fu l'intervista con l'ex fidanzato di Noemi Letizia, un giovane operaio di nome Gino Flaminio, all'epoca di 22 anni, firmata da Giuseppe D'Avanzo e Conchita Sonnino, quella che qui recupero dall'archivio del quotidiano. Com'è noto Berlusconi superò in qualche modo questa prima campagna sulla sua “malattia”, come la definì la moglie Veronica Lario, ma non quella successiva incentrata sui suoi incontri con la cosiddetta “Ruby Rubacuori”, sulle feste in piscina con escort ed altre piccanti rivelazioni. (S.L.L.)

Silvio Berlusconi alla festa di compleanno di Noemi Letizia
Parla Gino, l'ex fidanzato della ragazza di Portici
"Così papi Berlusconi entrò nella vita di Noemi"
di GIUSEPPE D'AVANZO e CONCHITA SANNINO

Napoli
Il 14 maggio “Repubblica” ha rivolto al presidente del consiglio dieci domande che apparivano necessarie dinanzi alle incoerenze di un "caso politico". Veronica Lario, infatti, ha proposto all'opinione pubblica e alle élites dirigenti del Paese due affermazioni e una domanda che hanno rimosso dal discreto perimetro privato un "affare di famiglia" per farne "affare pubblico". Le due, allarmanti certezze della moglie del premier - lo ricordiamo - descrivono i comportamenti del presidente del Consiglio: "Mio marito frequenta minorenni"; "Mio marito non sta bene".
Al contrario, la domanda posta dalla signora Lario - se ne può convenire - è crudamente politica e mostra le pratiche del "potere" di Silvio Berlusconi, pericolosamente degradate quando a rappresentare la sovranità popolare vengono chiamate "veline" senza altro merito che un bell'aspetto e l'amicizia con il premier, legami nati non si sa quando, non si sa come. "Ciarpame politico" dice la moglie del premier.
Silvio Berlusconi non ha ritenuto di rispondere ad alcuna delle domande di “Repubblica”.
E, dopo dieci giorni, “Repubblica” prova qui a offrire qualche traccia e testimonianza per risolvere almeno alcuni dei quesiti proposti. Per farlo bisogna raggiungere Napoli, una piccola fabbrica di corso San Giovanni e poi un appartamento, allegramente affollato di amici, nel popolare quartiere del Vasto a ridosso dei grattacieli del Centro Direzionale. Sono i luoghi di vita e di lavoro di Gino Flaminio.

Gino, 22 anni, operaio, una passione per la kickboxing, è stato per sedici mesi (dal 28 agosto del 2007 al 10 gennaio del 2009) l'"amore" di Noemi Letizia, la minorenne di cui il premier ha voluto festeggiare il diciottesimo anno in un ristorante di Casoria, il 26 aprile. Gino e Noemi si sono divisi, per quel breve, intenso, felice periodo le ore, i sogni, il fiato, le promesse. "Quando non dormivo da lei a Portici - è capitato una ventina di volte - o quando lei non dormiva qui da me, il sabato che non lavoravo mi tiravo su alle sei del mattino per portarle la colazione a letto; poi l'accompagnavo a scuola e ci tornavo poi per riportarla indietro con la mia Yamaha. Lei qualche volta veniva a prendermi in fabbrica, la sera, quando poteva".
Gino Flaminio è in grado di dire quando e come Silvio Berlusconi è entrato nella vita di Noemi. Come quel "miracolo" (così Gino definisce l'inatteso irrompere del premier) ha cambiato - di Noemi - la vita, i desideri, le ambizioni e più tangibilmente anche il corpo, il volto, le labbra, gli zigomi; in una parola, dice Gino, "i valori". Il ragazzo può raccontare come quell'ospite inaspettato dal nome così importante che faceva paura anche soltanto a pronunciarlo nel piccolo mondo di gente che duramente si fatica la giornata e un piatto caldo, ha deviato anche la sua di vita. Quieto come chi si è ormai pacificato con quanto è avvenuto, Gino ricorda: "Mi è stato quasi subito chiaro che tra me e la mia memi non poteva andare avanti. Era come pretendere che Britney Spears stesse con il macellaio giù all'angolo...".
È utile ricordare, a questo punto, che il primo degli enigmi del "caso politico" è proprio questo: come Berlusconi ha conosciuto Noemi, la sua famiglia, il padre Benedetto "Elio" Letizia, la madre Anna Palumbo? A Berlusconi è capitato di essere inequivocabile con la Stampa (4 maggio): "Io sono amico del padre, punto e basta. Lo giuro!". Con France2 (6 maggio), il capo del governo è stato ancora più definitivo. Ricordando l'antica amicizia di natura politica con il padre Elio, Berlusconi chiarisce: "Ho avuto l'occasione di conoscere [Noemi] tramite i suoi genitori. Questo è tutto". Un affetto che il presidente del consiglio ha ripetuto ancor più recentemente quando ha presentato Noemi "in società", per così dire, durante la cena che il governo ha offerto alle "grandi firme" del made in Italy a Villa Madama, il 19 novembre 2008: "È la figlia di miei cari amici di Napoli, è qui a Roma per uno stage" (“Repubblica”, 21 maggio). All'antico vincolo politico, accenna anche la madre di Noemi, Anna: "[Berlusconi] ha conosciuto mio marito ai tempi del partito socialista".
Berlusconi, qualche giorno dopo (e prima di essere smentito da Bobo Craxi), conferma. "[Elio] lo conosco da anni, è un vecchio socialista ed era l'autista di Craxi". (Ansa, 29 aprile, ore 16,34). Più evasiva Noemi: "[Di come è nato il contatto familiare] non ricordo i particolari, queste cose ai miei genitori non le ho chieste". (“Repubblica”, 29 aprile). Decisamente inafferrabile e chiuso come un riccio, il padre Elio (ha rifiutato di prendere visione di quest'ultima ricostruzione di “Repubblica”). Chiedono a Letizia: ci spiega come ha conosciuto Berlusconi? "Non ho alcuna intenzione di farlo" (“Oggi”, 13 maggio).
Gino ascolta questa noiosa tiritera con un sorriso storto sulle labbra, che non si sa se definire avvilito o sardonico. C'è un attimo di silenzio nella stanza al Vasto, un silenzio lungo, pesante come d'ovatta, rispettato dagli amici che gli stanno accanto; dalla sorella Arianna; dal padre Antonio; dalla madre Anna. È un silenzio che si fa opprimente in quella cucina, fino a un attimo prima rumorosa di risate e grida. La madre, Anna, si incarica di spezzarlo: "Quando un giorno Gino tornò a casa e mi disse che Noemi aveva conosciuto Berlusconi, lo presi in giro, non volli chiedergli nemmeno perché e per come. Mi sembrava ridicolo. Berlusconi dalle nostre parti? E che ci faceva, Berlusconi qui? Ripetevo a Gino: Berlusconi, Berlusconi! (gonfia le guance con sarcasmo). Un po' ne ridevo, mi sembrava una buffonata di ragazzi".
Gino la guarda, l'ascolta paziente e finalmente si decide a raccontare:"I genitori di Noemi non c'entrano niente. Il legame era proprio con lei. È nato tra Berlusconi e Noemi. Mai Noemi mi ha detto che lui, papi Silvio parlava di politica con suo padre, Elio. Non mi risulta proprio. Mai, assolutamente. Vi dico come è cominciata questa storia e dovete sapere che almeno per l'inizio - perché poi quattro, cinque volte ho ascoltato anch'io le telefonate - vi dirò quel che mi ha raccontato Noemi. Il rapporto tra Noemi e il presidente comincia più o meno intorno all'ottobre 2008. Noemi mi ha raccontato di aver fatto alcune foto per un "book" di moda. Lo aveva consegnato a un'agenzia romana, importante - no, il nome non me lo ricordo - di quelle che fanno lavorare le modelle, le ballerine, insomma le agenzie a cui si devono rivolgere le ragazze che vogliono fare spettacolo. Noemi mi dice che, in quell'agenzia di Roma, va Emilio Fede e si porta via questi "book", mica soltanto quello di Noemi. Non lo so, forse gli servono per i casting delle meteorine. Il fatto è - ripeto, è quello che mi dice Noemi - che, proprio quel giorno, Emilio Fede è a pranzo o a cena - non me lo ricordo - da Berlusconi. Finisce che Fede dimentica quelle foto sul tavolo del presidente. È così che Berlusconi chiama Noemi. Quattro, cinque mesi dopo che il "book" era nelle mani dell'agenzia, dice Noemi. È stato un miracolo, dico sempre. Dunque, dice Noemi che Berlusconi la chiama al telefono. Proprio lui, direttamente. Nessuna segretaria. Nessun centralino. Lui, direttamente. Era pomeriggio, le cinque o le sei del pomeriggio, Noemi stava studiando. Berlusconi le dice che ha visto le foto; le dice che è stato colpito dal suo "viso angelico", dalla sua "purezza"; le dice che deve conservarsi così com'è, "pura". Questa fu la prima telefonata, io non c'ero e vi sto dicendo quel che poi mi riferì Noemi, ma le credo. Le cose andarono così perché in altre occasioni io c'ero e Noemi, così per gioco o per convincermi che davvero parlava con Berlusconi, m'allungava il cellulare all'orecchio e anch'io sentii dalla sua voce quella cosa della "purezza", della "faccia d'angelo". E poi, una volta, ha aggiunto un'altra cosa del tipo: "Sei una ragazza divina". Berlusconi, all'inizio, non ha detto a Noemi chi era. In quella prima telefonata, le ha fatto tante domande: quanti anni hai, cosa ti piacerebbe fare, che cosa fanno tua madre e tuo padre? Studi? Che scuola fai? Una lunga telefonata. Ma normale, tranquilla. E poi, quando Noemi si è decisa a chiedergli: "Scusi, ma con tutte queste domande, lei chi è?", lui prima le ha risposto: "Se te lo dico, non ci credi". E poi: "Ma non si sente chi sono?". Quando Noemi me lo raccontò, vi dico la verità, io non ci credevo. Poi, quando ho sentito le altre telefonate e ho potuto ascoltare la sua voce, proprio la sua, di Berlusconi, come potevo non crederci? Noemi mi diceva che era sempre il presidente a chiamarla. Poi, non so se chiamava anche di suo, non me lo diceva e io non lo so. Lei al telefono lo chiamava papi tranquillamente. Anche davanti a me. Magari stavamo insieme, Noemi rispondeva, diceva papi e io capivo che si trattava del presidente. Quando ho assistito ad alcune telefonate tra Berlusconi e Noemi, ho pensato che fosse un rapporto come tra padre e figlia. Una sera, Emilio Fede e Berlusconi - insieme - hanno chiamato Noemi. Lo so perché ero accanto a lei, in auto. Ora non saprei dire perché il presidente le ha passato Emilio Fede, non lo so. Pensai che Fede dovesse preparare dei "provini" per le meteorine, quelle robe lì". (Ieri, a tarda sera, durante “Studio Aperto”, Fede ha affermato di aver conosciuto la nonna di Noemi. “Repubblica” ha chiesto a Gino se, in qualche occasione, Noemi avesse fatto cenno a questa circostanza. "Mai, assolutamente", è stata la risposta del ragazzo).
"Comunque, quella sera, sentii prima la voce del presidente e poi quella di Emilio Fede - continua Gino - Non voglio essere frainteso o creare confusione in questa tarantella, da cui voglio star lontano. Nelle telefonate che ho sentito io, Berlusconi aveva con Noemi un atteggiamento paterno. Le chiedeva come era andata a scuola, se studiava con impegno, questa roba qui. Io però ho cominciato a fuggire da questa situazione. Non mi piaceva. Non mi piaceva più tutto l'andazzo. Non vedevo più le cose alla luce del giorno, come piacevano a me. Mi sentivo il macellaio giù all'angolo che si era fidanzato con Britney Spears. Come potevo pensare di farcela? Gliel'ho detto a Noemi: questo mondo non mi piace, non credo che da quelle parti ci sia una grande pulizia o rispetto. Mi dispiaceva dirglielo perché io so che Noemi è una ragazza sana, ancora infantile che non si separa mai dal suo orsacchiotto, piccolo, blu, con una croce al collo, "il suo teddy". Una ragazza tranquilla, semplice, con dei valori. Con i miei stessi valori, almeno fino a un certo punto della nostra storia".
Intorno a Gino, questo racconto devono averlo già sentito più d'una volta perché ora che il ragazzo ha deciso di raccontare a degli estranei la storia, la tensione è caduta come se la famiglia, i vicini di casa, gli amici già l'avessero sentita in altre occasioni o magari a spizzichi e bocconi. C'è chi si distrae, chi parlotta d'altro, chi parla al telefono, chi si prepara a uscire per il venerdì notte. Gino sembra non accorgersene. Non perde il filo e a tratti pare ricordare, ancora una volta, a se stesso come sono andate le cose.
"Ho cominciato a distaccarmi da Noemi già a dicembre. Però la cosa che proprio non ho mandato giù è stata la lunga vacanza di Capodanno in Sardegna, nella villa di lui. Noemi me lo disse a dicembre che papi l'aveva invitata là. Mi disse: "Posso portare un'amica, un'amica qualunque, non gli importa. Ci saranno altre ragazze". E lei si è portata Roberta. E poi è rimasta con Roberta per tutto il periodo. Io le ho fatto capire che non mi faceva piacere, ma lei da quell'orecchio non ci sentiva. Così è partita verso il 26-27 dicembre ed è ritornata verso il 4-5 gennaio. Quando è tornata mi ha raccontato tante cose. Che Berlusconi l'aveva trattata bene, a lei e alle amiche. Hanno scherzato, hanno riso... C'erano tante ragazze. Tra trenta e quaranta. Le ragazze alloggiavano in questi bungalow che stavano nel parco. E nel bungalow di Noemi erano in quattro: oltre a lei e a Roberta, c'erano le "gemelline", ma voi sapete chi sono queste "gemelline"? Penso anche che lei mi abbia detto tante bugie. Lei dice che Berlusconi era stato con loro solo la notte di Capodanno. Vi dico la verità, io non ci credo. Sono successe cose troppo strane. Io chiamavo Noemi sul cellulare e non mi rispondeva mai. Provavo e riprovavo, poi alla fine mi arrendevo e chiamavo Roberta, la sua amica, e diventavo pazzo quando Roberta mi diceva: no, non te la posso passare, è di là - di là dove? - o sta mangiando: e allora?, dicevo io, ma non c'era risposta. Per quella vacanza di fine anno, i genitori accompagnarono Noemi a Roma. Noemi e Roberta si fermarono prima in una villa lì, come mi dissero poi, e fecero in tempo a vedere davanti a quella villa tanta gente - giornalisti, fotografi? - , poi le misero sull'aereo privato del presidente insieme alle altre ragazze, per quello che mi ha detto Noemi... Al ritorno, Noemi non è stata più la mia Noemi, la mia alicella (acciuga, ndr), la ragazza semplice che amavo, la ragazza che non si vergognava di venirmi a prendere alla sera al capannone. A gennaio ci siamo lasciati. Eravamo andati insieme, prima di Natale, a prenotare per la sua festa di compleanno il ristorante "Villa Santa Chiara" a Casoria, la "sala Miami" - lo avevo suggerito io - e già ci si aspettava una "sorpresa" di Berlusconi, ma nessuno credeva che la sorpresa fosse proprio lui, Berlusconi in carne e ossa. Ci siamo lasciati a gennaio e alla festa non ci sono andato. L'ho incontrata qualche altra volta, per riprendermi un oggetto di poco prezzo ma, per me, di gran valore che era rimasto nelle sue mani. Abbiamo avuto il tempo, un'altra volta, di avere un colloquio un po' brusco. Le ho restituito quasi tutte le lettere e le foto. Le ho restituito tutto - ho conservato poche cose, questa lettera che mi scrisse prima di Natale, qualche foto - perché non volevo che lei e la sua famiglia pensassero che, diventata Noemi Sophia Loren, io potessi sputtanarla. Oggi ho la mia vita, la mia Manuela, il mio lavoro, mille euro al mese e va bene così ché non mi manca niente. Certo, leggo di questo nuovo fidanzato di Noemi, come si chiama?, che non s'era mai visto da nessuna parte anche se dice di conoscerla da due anni e penso che Noemi stia dicendo un sacco di bugie. Quante bugie mi avrà detto sui viaggi. A me diceva che andava a Roma sempre con la madre. Per dire, per quella cena del 19 novembre 2008 a Villa Madama mi raccontò: "Siamo stati a cena con il presidente, io, papà e mamma allo stesso tavolo". Non c'erano i genitori seduti a quel tavolo? Allora mi ha detto un'altra balla. Quella sera le sono stati regalati una collana e un bracciale, ma non di grosso valore. E il presidente ha fatto un regalo anche a sua madre. Sento tante bugie, sì, e comunque sono fatti di Noemi, dei suoi genitori, di Berlusconi, io che c'entro?".
Le parole di Gino Flaminio appaiono genuine, confortate dalle foto, dalla memoria degli amici (che hanno le immagini di Noemi e Gino sui loro computer), da qualche lettera, dai ricordi dei vicini e dei genitori, ma soprattutto dall'ostinazione con cui il ragazzo per settimane si è nascosto diventando una presenza invisibile nella vita di Noemi. “Repubblica” lo ha rintracciato con fatica, molta pazienza e tanta fortuna nella fabbrica di corso San Giovanni dove tutti i suoi compagni di lavoro conoscono Noemi, la storia dell'amore perduto di Gino. Compagni di lavoro che - fino alla fine - hanno provato a proteggerlo: "Gino? E chi è 'sto Gino Flaminio?" e Gino se ne stava nascosto dietro un muro.
La testimonianza del ragazzo consente di liquidare almeno cinque domande dalla lista di dieci che abbiamo proposto al capo del governo. La ricostruzione di Gino permette di giungere a un primo esito: Silvio Berlusconi ha mentito all'opinione pubblica in ogni passaggio delle sue interviste. Nei giorni scorsi, come quando disse a France2 di aver "avuto l'occasione di conoscere [Noemi] tramite i suoi genitori". O ancora ieri a Radio Montecarlo dove ha sostenuto di essersi addirittura "divertito a dire alla famiglia, di cui sono amico da molti anni, che non desse risposte su quella che è stata la nostra frequentazione in questi anni". Come di cartapesta è la scena - del tutto artefatta - disegnata dalle testate (“Chi”) della berlusconiana Mondadori.
Il fatto è che Berlusconi non ha mai conosciuto Elio Letizia né negli "anni passati", né negli "ambienti socialisti". Mai Berlusconi ha discusso con Elio Letizia di politica e tantomeno delle candidature delle Europee (“Porta a porta”, 5 maggio). Berlusconi ha conosciuto Noemi. Le ha telefonato direttamente, dopo averne ammirato le foto e aver letto il numero di cellulare su un "book" lasciatogli da Emilio Fede. Poi, nel corso del tempo, l'ha invitata a Roma, in Sardegna, a Milano.
Le evidenti falsità, diffuse dal premier, gli sarebbero costate nel mondo anglosassone, se non una richiesta di impeachment, concrete difficoltà politiche e istituzionali. Nell'Italia assuefatta di oggi, quella menzogna gli vale un'altra domanda: perché è stato costretto a mentire? Che cosa lo costringe a negare ciò che è evidente? È vero, come sostiene Noemi, che Berlusconi ha promesso o le ha lasciato credere di poter favorire la sua carriera nello spettacolo o, in alternativa, l'accesso alla scena politica (“Corriere del Mezzogiorno”, 28 aprile)? Dieci giorni dopo, ci sono altre ragionevoli certezze. È confermato quel che Veronica Lario ha rivelato a Repubblica (3 maggio): il premier "frequenta minorenni". Noemi, nell'ottobre del 2008, quando riceve la prima, improvvisa telefonata di Berlusconi ha diciassette anni, come Roberta, l'amica che l'ha accompagnata a Villa Certosa. La circostanza rinnova l'ultima domanda: quali sono le condizioni di salute del presidente del Consiglio?

"la Repubblica", 24 maggio 2009)

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