Robert De Niro in "C'era una volta in America" |
ROMA
New York, Lower East
Side. 1923. Esterno giorno. Noodles sguscia fuori dalla porta del
grande locale di «delikatessen» dove campeggia pomposamente la
scritta in inglese «i più famosi sandwiches della città». Ha
appena baciato, la sua piccola Deborah. Incontra l'amico Max, si
guardano e ridono insieme di quella prima avventura sentimentale. Ma
all'improvviso cinque teppistelli li circondano, li sfottono: e
comincia il pestaggio. «Scusa il guanto», ghigna il più cattivo,
sfoderando il pugno di ferro. «Stop! Non ci siamo. Questi non sono
cazzotti, sono carezze. Troppo finti, troppo distanti. E quel
coltello, poi! Deve scattare fuori dalla tasca più rapidamente.
Rifare!». Siamo sul set di C'era una volta in America,
l'ormai leggendario kolossal che Sergio Leone —
dopo dieci anni di
progetti, traversie giudiziarie e nscritture — sta girando
attualmente (compiute le riprese in America e in Canada) tra gli
studi di Cinecittà e questo terreno all'estrema periferìa di Roma,
oltre Pietralata, sul quale è stato ricostruito un intero quartiere
ebraico. La finzione cinematografica ti aggredisce magicamente: i
tombini fumanti, un via vai di uomini con i larghi cappelli e le
treccine ai lati delle orecchie, i muri rossicci, le insegne brunite
(«Shapiro's Use Clothing», «Hebrew Book Store Rabinowitz»), i
dolci tipici, le gustose «Charlotte russe», bene in vista sui
banchi del locale che nasconde una distilleria clandestina.
Sergio Leone |
Un cappotto beige
pesante, la sciarpa ben stretta attorno al collo, guanti di lana e
stivali massicci, Sergio Leone dirige con la consueta severità la
scena della rissa. No, non ci sono Robert De Niro, né James Woods,
perché si sta «girando» l'adolescenza di questi due gangster ebrei
attorno ai quali ruota la storia complessa (si parte dagli Anni Venti
per finire al 1968) di C'era una volta in America. Film,
dicevamo, già leggendario: per i soldi che vi sono investiti (oltre
28 milioni di dollari), per l'impenetrabile «silenzio stampa» che
lo protegge, per le note idiosincrasie (ma Leone le chiama timidezze)
di Robert De Niro che ha suggerito che tutti gli attori parlassero
con accento del Bronx, per la curiosità che avvolge il ritorno alla
regia del regista di Per un pugno di dollari. Niente
interviste, ci avevano detto, e invece con un po' di fortuna siamo
riusciti a chiacchierare con Sergio Leone. In due puntate; e la
seconda è stata un'autentica sorpresa perché, senza nemmeno
sperarci, abbiamo rivisto, già sviluppata e pronta per il montaggio,
la scena alla quale avevamo assistito qualche giorno prima.
— Perché un titolo così epico?
«Epico? Il film si intitola C'era una volta in
America non: L'America. E molto importante, perché la
vicenda narrata non è un'indagine, un saggio, sia pure romanzato,
un'esplorazione politica o sociale. Non sono americano, non sono
ebreo, non sono più blandamente gangster di tanti altri miei
colleghi registi. E allora, la chiave del film sta appunto nel titolo
così come è formulato: una favola. Certamente per adulti, ma pur
sempre favola».
— E perché tanto
mistero attorno alla vicenda?
«Perché la magia del cinema non ha
bisogno di parole. Non è un caso che il film inizi in una fumeria
d'oppio dove su un telo bianco si svolge un gioco di ombre cinesi.
Ecco, di fronte alla finzione del cinema noi dobbiamo essere come
coloro che assistono ad uno spettacolo di ombre cinesi. Potrei dire
però che i temi scelti sono quelli classici di un certo mondo
hollywoodiano».
— E cioè?
«L'alleanza
degli emarginati, le scelte dettate dalla disperazione, le grandi
amicizie virili. E il negativo di tutto questo: il tradimento, la
violenza, la corruzione. Ma il "viaggio" di Noodles non è
soltanto attraverso le visioni dell'oppio. E anche l'altro percorso,
quello reale, che compie dal lontano Iowa fino a New York... Dove si
aggirerà come in un labirinto. È un viaggio verso la conoscenza. È
il rifiuto ad ammettere che tutto, pro-prio tutto, il Bene o il Male,
sia un inganno».
— Leone, che cosa vuol
dire aspettare dieci anni per fare un film?
«Abbassare la media. Io,
purtroppo, do pochissima importanza al tempo. Dieci giorni o dieci
anni, la spinta è sempre una: che la cosa mi interessi e mi
appassioni. E fino ad ora questo è accaduto».
— Lei disse un giorno
che non esiste una distinzione tra film politico e non politico, ma
tra cinema e non cinema. È sempre di quest'av viso?
«Più che mai!
Esopo ha fatto miglior politica di qualsiasi capo di partito. Infatti
resiste di più».
— Le è piaciuto Il
Padrino? E che cosa ha di diverso il suo nuovo film?
«Avendo
rifiutato di dirigerlo non sono un buon giudice. In ogni caso, il
secondo mi è piaciuto più del primo. La differenza, fondamentale, è
che Il Padrino attinge dalla realtà per sconfinare nello
spettacolo. Io, invece, spero, attraverso il mito dello spettacolo,
di ricordare una certa realtà».
— Perché due gangster
per fare un omaggio all'America? E perché ebrei?
«Perché nelle
favole c'è il huono e il cattivo. Tra i due mi interessa sempre il
secondo, specie quando scopri che il primo, molte volte, è solo un
aggettivo. E l'America è il paese degli aggettivi. Ebrei, perché di
gangster italiani se n'è parlato troppo, e qualche volta a
sproposito, senza mai dire che spesso abbiamo esportato contadini e
reimportato gangster».
— Oggi, al cinema, la
gente vuole l'azione pura, il ritmo mozzafiato, molti spari e poche
parole, insomma, un po' ciò che faceva lei ai tempi di Per un
pugno di dollari. Adesso lei dice, invece, che il racconto può
essere disteso, monumentale e coinvolgere lo stesso. Ha una ricetta?
«Le ricette le lascio ai cuochi. È solo una questione di
intuizione. Devi raccontare quello che preferisci, nel modo più
autentico possibile e con il tempo che ti occorre per farlo. Se il
pubblico, che è una "bestia intuitiva" scopre la tua
sincerità, ottanta volte su cento ti decreta il successo».
— Passiamo al western.
Perché non se ne fanno più nemmeno in America?
«Perché se ne sono
fatti molti, troppi e in genere brutti. Pochi di valore. Tutto qui».
— Le citazioni.
Bertolucci dice di aver disseminato la sceneggiatura di C'era una
volta il West di mille riferimenti ai vecchi film western e ama
raccontare che lei, pur non cogliendoli tutti, riusciva a citare dal
nulla: il che, per lui, era il massimo della genialità...
«Bertolucci, non avendo mai partecipato alla sceneggiatura, ricorda
male. Tutt'al più, nel soggetto iniziale, steso con me e con Dario
Argento, può benissimo aver disseminato il "nulla" di cui
parla. A me, nel realizzarlo, è toccato il resto: metterci il
massimo della genialità».
— Senta Leone, lei girò
Per un pugno di dollari con 120 milioni; oggi fa C'era una
volta in America con decine di miliardi. È cambiato qualcosa nel
suo modo di lavorare?
«È sempre lo stesso. Non mi sono mai
preoccupato della poca spesa, non vedo perché dovrei preoccuparmi
della molta. E un compito che spetta al produttore. Faccia i suoi
conti, se tornano significa che il film si può fare».
— I film western di
Leone, qui in Italia, non hanno mai avuto buona stampa. In America,
invece, tanto per fare un esempio, Il buono, il brutto, il cattivo
viene studiato all'Università del cinema e smontato inquadratura per
inquadratura. Che cosa risponde lei?
«Che in Italia si "smonta"
solo la gioia di fare buon cinema».
— Al pubblico ha niente
da rimproverare?
«Niente! Io proprio niente».
— Cinque pregi e cinque
difetti dì Sergio Leone (il più possibile sinceramente).
«Mi
offende la nota. Perché credo che la sincerità sia la mia prima
qualità. Ma l'includerei anche nei difetti. Vediamo comunque. Voler
molto bene alla gente che mi è cara. Il non saper dire "bravo"
alla gente che lo merita, per timidezza, ma soprattutto per la
preoccupazione che mi si risponda "lo so da me". Non essere
invidioso. Preoccuparmi molte volte delle inezie e trascurare le cose
importanti. Al di fuori del lavoro essere tremendamente pigro. Essere
affascinato dall'idiozia. Perdere tempo nella speranza di scoprire il
lampo di genialità. Avere un profondo rispetto per l'amicizia,
quella rara. Amare molto il cinema (ma non so se è un pregio o un
difetto). Avere pochi interessi al di fuori del lavoro. E per ultimo,
farmi sfuggire dalla mente completamente i buoni (se ce ne sono) e
farmi affiorare una lunga lista di cattivi, su cui è meglio stendere
un velo».
— La violenza. Sam
Peckinpah dice che nei suoi western non c'è sadismo, c'è solo la
voglia di far vedere alla gente come è fatto il buco d'entrata nella
carne di un proiettile. Per lei invece che cos'è la violenza
cinematografica?.
«Violenti sono i sentimenti che racconto. È
profondamente diverso».
— Una curiosità: è
vero che i tre killer dei titoli di testa di C'era una volta il
West dovevano essere, nelle sue intenzioni, Clint Eastwood, Lee
Van Cleef ed Eli Wallach?
«Sì, ma dovevano morire sotto il fuoco di
Charles Bronson, quasi a suggerire la conclusione di un "periodo".
Lee ed Eli, burloni come sono, ci sarebbero pure stati. Ma Eastwood
era già troppo divo per crepare. E poi così, a pochi minuti
dall'inizio del film. Infatti disse di no».
— Rifarebbe un western
negli anni di Guerre stellari? «Certamente. In questi ultimi
tempi mi sono accorto di aspettarlo anch'io».
E rimettendosi il
cappottone beige, s'allontana tra i fumi di quel Bronx a quattro
passi da Pietralata brontolando contro qualcuno.
“l'Unità”, 23
gennaio 1983