25.1.11

La mia bella patria. Una poesia di Rocco Scotellaro.

Rocco Scotellaro
Io sono un filo d’erba
un filo d’erba che trema.
E la mia Patria è dove l’erba trema.
Un alito può trapiantare
il mio seme lontano.

Effetti speciali (di Walter Cremonte - "micropolis", aprile 2001)

Un discorso sulla poesia contemporanea rimanda inevitabilmente alla posizione sostenuta da Umberto Saba nel suo scritto (del 1911) Quello che resta da fare ai poeti: resta da fare la poesia onesta. Ma che cosa può significare oggi questa parola, al di là della banalizzazione delle buone intenzioni?
Un modo di affrontare la questione potrebbe venire considerando, per esempio, l’uso prevalentemente improprio che oggi si fa del termine “ossimoro”. Gli apologeti della guerra contro la Jugoslavia hanno parlato di “guerra umanitaria”; i critici della guerra definiscono quell’espressione, appunto, un ossimoro, cercando in questo modo di toglierle verità. E’ giusto, ma allora perché all’interno della lingua poetica quella figura è efficace, anzi di enorme valenza conoscitiva ed espressiva (pensiamo a Dante, al disdegnoso gusto con cui cerca di spiegare l’inspiegabile, il suicidio di Pier della Vigna), e fuori da quella lingua essa diventa semplicemente un inganno? Oppure è proprio la lingua della poesia ad essere un inganno, a tendere trappole ai suoi ignari cultori? Aveva ragione Francesco De Gregori, quando cantava “i poeti, che brutte creature / ogni volta che parlano è una truffa”? Come si vede la cosa investe profondamente la responsabilità di chi fa la poesia e di chi se ne occupa, e dovremo dunque cercare di capire.
Un aiuto ci viene da un articolo di Tommaso di Francesco, sul “manifesto” del 16 febbraio scorso: “L’ossimoro vale sempre nei due sensi: entrare fuori corrisponde ad uscire dentro”. E’ così: l’ossimoro vero è quello in cui tra i due termini che lo compongono c’è una corrispondenza reciproca, per cui si riverberano l’uno nell’altro dandosi reciprocamente senso. Ho fatto qualche prova: per esempio il titolo bellissimo del libro di Giovanni Giudici, Lume dei tuoi misteri, è un ossimoro in cui non c’è affatto la sola banale contraddizione dei termini, ma un termine cede significato all’altro e viceversa, producendo significato ulteriore; la luce che illumina il mistero è una luce a sua volta misteriosa, il mistero che si lascia illuminare connota ambiguamente quella luce e forse quella luce misteriosa, quel mistero luminoso non sono altro che la poesia. Così, se prendiamo l’ossimoro più potente della nostra letteratura, la “provida sventura” con cui Manzoni salva dall’oltraggio Ermengarda, ne viene che il dolore ha certo una funzione provvidenzialmente positiva (per il cattolico Manzoni esso non è il parto di un Dio maligno e demente), ma anche che questa provvidenza - che poi dovrebbe essere il senso ultimo di tutto - ha un aspetto assai poco rassicurante: non solo si serve del male, ma è essa stessa male. Se dunque vale che l’ossimoro, per essere vero, funziona sempre nei due sensi, possiamo concludere che “guerra umanitaria” semplicemente non è un ossimoro, perché non c’è scambio possibile tra i due termini, se l’umanità non è tutta ridotta a fantoccio del capitale guerriero, se una par te almeno si sottrae: la migliore, la più umana. E’ dunque un finto ossimoro, un volgare “effetto speciale”, frutto della commistione delle diverse funzioni della lingua a fini mistificatori e di una escrescenza abnorme a tutti i livelli di quella che Jakobson ha chiamato la funzione poetica della lingua. Ecco allora qualcosa che, forse, “resta da fare”: salvaguardare la lingua poetica dall’uso truffaldino della funzione poetica della lingua. insomma rimettere un po’ a posto le cose. Almeno questo.

(Il testo è la trascrizione di un intervento tenuto in occasione di un “Dibattito sulla poesia contemporanea”, Perugia, 23 febbraio 2001, nel corso del quale è stata presentata la collana Il Caradrio - Selezione di poesia. a cura di Luigi M. Reale, Guerra Edizioni, Perugia)

Valori e tricolori (di Walter Binni)

Walter Binni
E’ in libreria La disperata tensione un corposo volume edito da “Il Ponte”, la rivista che fu fondata da Piero Calamandrei. E’ una raccolta di “scritti politici” di Walter Binni, figura tra le più notevoli della critica letteraria del Novecento e deputato socialista all’Assemblea Costituente, curata dal figlio Lanfranco, che ne ha scritto l'ampia e stimolante introduzione. “Il Ponte” completerà il ricordo di Walter Binni nel centenario della nascita con un numero speciale, monografico, di ricordi e testimonianze. Sull’intera operazione editoriale e sull’esemplarità attuale di una grande figura di intellettuale politico dirò la mia su “micropolis” di febbraio. Propongo qui una paginetta collegata ai 150 anni di indipendenza e unità d’Italia, una responsiva al Comune di Reggio Emilia che invitava  Binni a partecipare alla celebrazione dei 200 anni del tricolore cispadano. Fu pubblicata per la prima volta da “Liberazione” l’11 gennaio 1997. (S.L.L.)
Il tricolore della Repubblica Cispadana (Reggio Emilia 1797)
Al Sindaco di Reggio Emilia Antonella Spaggiari
Signor Sindaco di Reggio Emilia e presidente del Comitato regionale per le celebrazioni del Bicentenario del Tricolore.
Come ho già detto per telefono a una Sua funzionaria, non sono in condizioni – a causa di disfunzioni del mio vecchio cuore – di affrontare un lungo viaggio e di esser presente alle Celebrazioni del bicentenario del Tricolore, a cui Ella ha voluto invitarmi nella mia qualità di Costituente insieme agli altri sopravvissuti di quella gloriosa Assemblea, ideale continuatrice e rinnovatrice (dopo la notte della monarchia reazionaria e della dittatura fascista) degli ideali repubblicani, democratici e laici che dettero vita in Reggio alla Repubblica Cispadana e che vennero simboleggiati nella bandiera tricolore. In questa solenne ricorrenza che riveste un preciso valore solo se collegata con i valori repubblicani, democratici e laici del giacobinismo italiano, e non con un retorico e qualunquistico significato nazionale, ritengo non pretestuoso trarne motivo attuale e sentirne lo stimolo che ne viene alla difesa della nostra Costituzione cosí altamente e strenuamente propugnata da Giuseppe Dossetti, partigiano sull’Appennino reggiano e autorevolissimo membro della Costituente. Costituzione ora minacciata da stravolgimenti presidenzialistici e populistici – non democratici – entro un tetro, ottuso clima di revisionismo storico, di omologazione dei valori e dei disvalori della nostra storia, di equiparazione fra i caduti, nella Resistenza, per la libertà e l’indipendenza del nostro paese e i caduti per il ripristino della dittatura e per l’asservimento dell’Italia alla Germania nazista.
I caduti nella Resistenza possono ben essere sentiti idealmente fratelli dei giovani repubblicani cispadani e poi cisalpini e poi italiani che seguirono la «tricolorata bandiera» (per cui il giovane Foscolo dedicò alla città di Reggio l’ode Bonaparte liberatore) nella lotta armata contro gli Austriaci e le bande sanfediste pur etnicamente italiane.
Rivolgo il mio saluto ai Costituenti presenti a Reggio e fra loro al Costituente Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, alle altre cariche istituzionali, a Mario Luzi, chiamato come voce della poesia non estranea al senso profondo di queste celebrazioni, e ringrazio Lei che rappresenta una città a me cara anche per aver dato i natali ad uno dei grandi poeti italiani da me piú a lungo criticamente interpretati, Ludovico Ariosto.

24.1.11

La poesia del lunedì. Corrado Govoni (1894 -1965)

La trombettina
Ecco che cosa resta
di tutta la magia della fiera:
quella trombettina,
di latta azzurra e verde,
che suona una bambina
camminando, scalza, per i campi.
Ma, in quella nota sforzata,
ci son dentro i pagliacci bianchi e rossi;
c'è la banda d'oro rumoroso,
la giostra coi cavalli, l'organo, i lumini.
Come, nel sgocciolare della gronda,
c'è tutto lo spavento della bufera,
la bellezza dei lampi e dell'arcobaleno;
nell'umido cerino d'una lucciola
che si sfa su una foglia di brughiera,
tutta la meraviglia della primavera.

Da Il quaderno dei sogni e delle stelle in Poesia italiana del Novecento a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi

Il manifesto di guerra del Comitato Nobel per la pace (di Domenico Losurdo)

Anita Silviano, traendolo dal sito in spagnolo Voltaire.net  (http://www.voltairenet.org/article168135.html ),  ha diffuso su fb, nella sua traduzione, questo articolo di Domenico Losurdo, dei cui ottimi libri su Stalin e sul pacifismo c’è già traccia in questo blog.  Credo che sia lettura utile a comprendere i pericoli che ci sovrastano. (S.L.L.)
Nella cerimonia di consegna del premio Nobel per la Pace al dissidente cinese Liu Xiabo, il presidente del Comitato Thoebjoern Jangland, ha pronunciato un discorso con il quale elogia le guerre combattute in nome della democrazia e ha lanciato un implicito invito a rovesciare il governo cinese.

Trasmesso in diretta dalle reti televisive più importanti del mondo, il discorso del presidente del comitato  del Nobel  rappresenta un vero e proprio manifesto di guerra.
(Vedi http://nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/2010/presentation-speech.html ).
Il concetto di base è tanto chiaro quanto grossolano e manicheo: le democrazie non si fanno la guerra tra di loro e non lo hanno mai fatto, pertanto  affinché la causa della pace trionfi una volta per tutte, occorre esportare la democrazia in tutto il mondo. Chi parla così ignora la storia. Ignora, per esempio,la guerra che si combatté dal  1812 al 1815 tra Gran Bretagna e Stati Uniti,due paesi "democratici"  che fanno parte anche della  "pragmatica" e "pacifica"  stirpe anglo-sassone.
Quella guerra raggiunse un tal grado di violenza che Thomas Jefferson giunse a paragonare il governo di Londra con "Satana" dichiarando inoltre che la Gran Bretagna e l'America stavano combattendo una "guerra eterna" destinata a concludersi solo con lo "sterminio" di una delle parti.
Identificando la causa della pace con quella della democrazia il presidente del Comitato del Nobel ingentilisce la storia del colonialismo, a causa del quale abbiamo visto molti paesi "democratici" promuovere l'espansionismo ricorrendo alla guerra, alle più brutali forme di violenza e alle pratiche di natura genocida.
Ma non si tratta solamente del passato.
Durante tutto il suo discorso, il Presidente del Comitato Nobel ha legittimato  a posteriori la prima Guerra del Golfo, la guerra contro la Jugoslavia e la  seconda guerra del Golfo, innescate da tutte le grandi "democrazie" nel nome della "democrazia".
Il maggiore ostacolo alla propaganda universale della democrazia è rappresentato oggi, dalla Cina che, pertanto, costituisce allo stesso tempo un fronte di guerra più pericoloso. Combattere con ogni mezzo per un  "cambiamento di regime" a Pechino è quindi una nobile impresa al servizio della pace.
Questo è stato il messaggio trasmesso da Oslo a tutto il mondo, proprio nel momento in cui una flotta di guerra americana si " esercitava" a poca distanza dalle coste della Cina.
Un illustre filosofo occidentale e "democratico",John Stuart Mill,difese all'epoca le guerre dell'oppio avviate contro la Cina come contributo alla causa della libertà, compresa la libertà del "compratore" dinanzi a quella del "produttore" o del "venditore".
Questa è la tragica  tradizione colonialista che stanno perpetuando i signori della guerra di Oslo.
Il manifesto del presidente del Comitato per il Nobel dovrebbe suonare come un allarme per le orecchie dei veri fautori della pace.

John F. Kennedy nel centenario dell'unità d'Italia (1961)


«Anche se molti di noi oggi qui non sono italiani per sangue o nascita, tutti noi abbiamo interesse in questo anniversario perché tutti noi siamo dei beneficiari dell’esperienza italiana. È un grande fatto della Storia che molto di quanto siamo e di ciò in cui crediamo ha avuto origine in questa relativamente piccola striscia di terra nel Mediterraneo».
(John  F. Kennedy, Discorso al Dipartimento di Stato per il primo centenario dell’unità d’Italia, 16 marzo 1961) 

23.1.11

Contro Berlusconi. Aventino o piazza? L'articolo della domenica.

Un amico assai caro oltre che polemista politico puntuto ed efficace è anche discreto analista. Un tempo azzeccava anche le previsioni, ma, da quando c’è in ballo Berlusconi, le sue facoltà predittive sono in ribasso. Dal dicembre del 1994 ne ha antiveduto la morte politica almeno una decina di volte, con immutata convinzione, ma tutte le volte ha dovuto poi riconoscere lo scacco. Temo che in lui l’immaginazione politica sia depotenziata dalla forza del desiderio.
Ora s’è fatto più prudente. Dice che il Cavaliere è come quel tipo che non fa che entrare e uscire dagli ospedali, ogni volta cavandosela e proclamando il proprio totale risanamento; aggiunge: “Prima o poi  ci rimane”.
L’errore del mio amico è di metodo, è nella convinzione che uno così, con il suo conflitto d’interesse, la sua incultura, la sua ciarlataneria, i suoi giri intercambiabili di politici prostituiti e prostitute politicanti, non può durare, che prima o poi il potere vero (che egli considera cosa più seria) lo espellerà dal suo seno.
Non è così che funziona. L’uomo ha accumulato una potenza economica che gli permette di irridere chi continua a trattarlo da parvenu e mostra una protervia, un senso dell’impunità che affascina i più consolidati potentati economici, finanziari o religiosi, dato che riesce a sintetizzare in un monstrum inimitabile tutto il peggio della tradizione italiota, dalla recitazione da guitto all’amoralità, dalla cialtroneria al bigottismo, superando in sfrontatezza i più riusciti personaggi di Alberto Sordi.
Come che sia i cardinaloni, i banchieroni, i rampanti manager maneggioni e le residue belle famiglie del capitalismo italiano non faranno niente per buttarlo giù. Continueranno piuttosto a prendere le distanze tutte le volte che il “Cavaliere del Cacchio”, avendo ampiamente superato ogni limite di decenza e buon gusto, sembrerà vacillare; ma continueranno ad usare il potere di lui per ottenere favori di ogni sorta.
Una tattica analoga segue la Lega di Bossi e Calderoli. Forte di un consenso costruito sul fallimento delle sinistre novecentesche e di una ideologia comunitarista che ricorda più il nazismo che il fascismo, la Lega spregiudicatamente usa con Berlusconi l’arma del ricatto ottenendo, soprattutto al Nord, fette di potere sempre più ampie, senza mai abbandonare l’ispirazione secessionista con la connessa vocazione totalitaria.
E’ infine un’illusione che il colpo di grazia possa venire a Berlusconi dai Fini e dai Casini che l’hanno a lungo sostenuto e il cui potere d’attrazione diminuisce ad ogni tentativo fallito, o dai frondisti del Pdl di cui di quando in quando si vocifera.
“La reazione è simile alle erbacce – diceva Mao – se non la sradichi non smette di crescere”. Vale anche per la mala pianta rappresentata da questo governo e, più in generale, dal berlusconismo. Non si può sperare che si dissecchi da sé, è indispensabile un'azione che oggi non sembra avere la forza necessaria.
L’opposizione parlamentare di centrosinistra è, del resto, quella che è. L’intransigente Di Pietro è ridotto all’impotenza. Ha sempre rifiutato di costruire altro che un partito personale, in cui i gruppi dirigenti a tutti i livelli dipendano da lui. Ma su questo terreno Berlusconi è assai più forte: ha più televisioni, più giornali, più denari e si compra i parlamentari che il molisano riteneva cosa sua.
Nel Pd, dopo mesi di tensioni, torna oggi un po’ di entusiasmo per il conato unitario del Lingotto e Scalfari nel sermone domenicale di “Repubblica” si esalta per il ritorno di Veltroni. Il vecchio e barbuto giornalista non ha mai portato fortuna ai leader per i quali si è schierato con più convinzione (De Mita e Spadolini, per esempio), ma la rinnovata infatuazione per l’ex sindaco di Roma e per il suo immarcescibile nuovismo mi pare un segno di accentuata senescenza, al limite del rimbambimento.
Piace anche a me la scelta del Pd, che questa volta sembra unanime, di smetterla coi traccheggiamenti e di chiedere oltre alle dimissioni di Berlusconi nuove elezioni, ma tutto questo mal si concilia con le disponibilità che sembrano riaffacciarsi sul federalismo fiscale ed altre consimili aperture di dialogo a destra. Bisogna aspettare i fatti.
Mercoledì scorso su “Il fatto” Paolo Flores ha avanzato alle opposizioni parlamentari una proposta: che compattamente escano “da un Parlamento che il Puttaniere ha già trasformato nel suk dei voti all’incanto” e si riuniscano “separatamente e pacificamente in una Pallacorda che rappresenti quanto ancora resta dell’Italia civile, per provare a salvarla e ricostruirla”. A me l’iniziativa più che la Pallacorda rammenta l’Aventino. Se realizzata avrebbe esattamente gli stessi limiti che i comunisti di Gramsci attribuirono all’Aventino quando ne uscirono. Le forze dei parlamentari “separatisti” sarebbero oggi ostili a un’iniziativa di piazza come allora rifiutarono la proposta comunista dello sciopero generale; si affiderebbero oggi al capo dello stato come gli aventiniani aspettarono, invano, il sostegno del re.
Credo pertanto che il terreno più idoneo alla cacciata di Berlusconi sia la piazza e penso che lo sciopero indetto per il 28 dalla Fiom sia l’occasione propizia e possa avere non solo un grande impatto, ma anche una capacità di trascinamento. Questione morale e questione sociale appaiono, del resto, sempre più legate. E lo strapotere padronale che ha trovato il suo acme nel diktat marchionnesco (ipocritamente chiamato referendum) di Pomigliano e Mirafiori è l’altra faccia del berlusconismo. Sarebbe troppo, tuttavia, chiedere ai metalmeccanici della Cgil di farsi carico di reclamare in prima persona le dimissioni del governo. Tocca ad altri dare, in primo luogo con la massiccia presenza e la combattività, questo contenuto alla giornata di lotta di venerdì prossimo: il movimento degli studenti, il popolo viola, il popolo dei precari, associazioni, forze politiche della sinistra. Una manifestazione grande e forte può essere per tutta l’Italia che non ne può più un grande segnale, può spingere all’azione i riluttanti, alla parola i silenti e accelerare la fine politica del tenutario di Villa Arzilla, dei suoi tirapiedi, delle sue cortigiane.

"Limusinante dei povarielli" (di Domenico Straface Palma da Longobucco)


Vincenzo Padula
Vincenzo Padula (1819-1893) nacque e morì ad Acri, in provincia di Cosenza. Prete, poeta e narratore apprezzato da De Sanctis, tra il 1864 e il 1865 redigeva da solo un settimanale, "Il Bruzio", che conteneva la rubrica Stato delle persone in Calabria, inevitabilmente dedicata al cosiddetto “brigantaggio”.
Il fenomeno nella Sila era diffuso già in epoca borbonica, ma ora diventava una vera e propria rivolta guerrigliera ove convergevano la ribellione popolare e sociale contro il nuovo ordine unitario e sabaudo ancora più oppressivo del precedente, l’odio pretesco contro i “frammassoni” che avevano realizzato l’unità d’Italia come annessione, le velleità restauratrici di ufficiali legittimisti dell’esercito del Regno delle Due Sicilie. Si devono a Padula alcune testimonianze di prima mano su Domenico Straface Palma, un contadino ribelle nativo di Longobucco, intorno al quale le popolazioni silane costruirono un vero e proprio mito, chiamandolo “fatato”. Fu  in effetti una sorta di “primula rossa” e tenne a lungo in scacco i carabinieri; venne catturato e fucilato solo nel 1869, quando il fenomeno brigantaggio era già stato domato con grande spargimento di sangue.
Una rievocazione complessiva della leggendaria figura del Palma, di Maria Calderoni, la si può trovare su “Liberazione” del 30 luglio 2002. E lì che ho recuperato questa specie di “coccodrillo”, che la Calderoni ha tratto da un giornale di Catanzaro dei giorni successivi alla fucilazione: "Era reputato di indole poco efferata e sanguinaria. Era contadino laborioso ed ossequiente: fu spinto al malandrinaggio dalle insinuazioni malvage dei tristi, che provocano il brigantaggio per specularvi. Presso il volgo godeva prestigio e popolarità; le donnette favoleggiavano di lui chiamandolo santo, fatato, invulnerabile e invincibile; aveva saputo procurarsi queste false credenze con continuate, generose elargizioni, e tenendo osservanza a un tenore di vita parco e temperato".
Da Persone in Calabria, il libro che, per la cura di Carlo Muscetta, raccolse nel 1967 (Edizioni dell’Ateneo, Roma) gli articoli del Padula su “Il Bruzio”, recupero invece questa sorta di proclama diffuso dal Palma e diretto alla comunità di Rossano Calabro che, per paura e per istigazione di agenti governativi, propendeva per i piemontesi. Vi aggiungo il sapido commento di Vincenzo Padula. (S.L.L.)
Ritratto di brigante, probabilmente del Palma
Lettera ai rossanesi
Ogni cosa alla fine vena (viene) in piano; ogni cosa secreta vena richiarata. Li tradituri sunu canusciuti; li Rossanesi si sunu richiarati.
Tra loru unu consigliu anu faciutu: - Si cacciamu (diamo la caccia) a Palma , nua simo sarvati. Palma lu seppi e si fici na risata. Iu sugnu Palma e sacciu ca mi penne (pende) la capu.
Mi puozzo chiamari Re di la campagna, limusinante dei puvarielli: a chine (chi) fazzu le scarpi a chine lu mantu, a chine comprimientu (regalo) lu cappiellu.
Aju rurici (dodici) cumpagni buoni armati, e balurusi, e mi amanu comu tanti frati. C’era Labonìa, che era statu rispittatu, e ora ci ha misu nu tagliune (taglia); e mo ca stu fattu eni richiaratu, no mi li riguardu chiù li Russanisi, ca mi sunnu nimici richiarati.
- Sa chi vi dicu a vue, Russanisi? No rapportati (riferite) ca vi rovinati. Stu guappu ch’è a Rossanu e si chiama Pietru Vullivulli cu la vucca sua si è avantatu ca mi taglia la capu; ma poco struscio (scroscio) ne sientu de sti paroli. Cu la capu di stu guappune quattro spassi mi vuogliu pigliari; e mi viestu de veru pellegrino; dintra Rossanu lo viegnu ammazzari.
Il Commento di Vincenzo Padula
Questa lettera è un capolavoro, e vi s’incontrano dei versi interi, perché la Siena della Calabria, dove il nostro dialetto si parla con grazia, e i contadini sono naturalmente poeti, è appunto Longobucco.

22.1.11

Il rischio da correre (di Roberta Carlini)

Sul numero di gennaio 2011 de “La Rocca” di Assisi, il bel mensile della “Pro civitate cristiana”, si può ritrovare un articolo della carissima Robertina Carlini dal titolo Da Daghenham a Mirafiori. La parte centrale del “pezzo” è costituita dalla riflessione su un film inglese recente, di Nigel Cole, Wi want sex ed è quella che qui ripropongo. Il film, se diamo retta a quello che Carlini scrive, è senz’altro da vedere, ma le sue riflessioni vanno oltre e sono da valutare e discutere (S.L.L.)

Rosamund Pike in Wi want sex

Dagenham, Inghilterra, 1968. Centottantasette operaie, addette alla cucitura dei sedili delle Ford, entrano in stato d’agitazione. Vogliono essere pagate come operaie specializzate visto che lo sono, e inoltre vorrebbero qualche miglioria al loro capannone, dentro il quale gocciola acqua in caso di pioggia e si soffoca in caso di caldo. In breve tempo la loro lotta si trasforma in qualcosa di più: chiedono di avere lo stesso salario dei colleghi maschi. La parità retributiva. “We want sex equality”, diceva il loro striscione piazzato sotto Westmister, ma per sbaglio non l’avevano srotolato tutto dunque era rimasto solo “we want sex”, suscitando ilarità, ammiccamenti e entusiasmo nei passanti londinesi. Mentre mandano in tilt i piani alti della Ford: poiché sono solo loro a fare i sedili delle auto, con il loro sciopero riescono a bloccare la produzione, mettere sotto scacco la multinazionale e tenere a casa 40mila operai inglesi – maschi.
C’è un punto di questa storia che vale la pena ricordare qui. Quello in cui si fronteggiano Barbara Castle, ministra del lavoro, che sta per ricevere una delegazione delle donne in sciopero, e l’emissario della multinazionale americana, che piomba nel palazzo del governo e le dice a brutto muso: se lei cede, se queste donne vincono, noi ce ne andiamo. Lasciamo l’Inghilterra. Non possiamo permetterci – è il ragionamento – di pagare le donne come gli uomini, la nostra competitività crollerebbe. Dunque: “o così o ce ne andiamo”, fa sapere l’uomo della Ford al governo laburista di Wilson. Dopo aver incontrato le operaie e sorseggiato uno scotch, la ministra torna da lui che aspetta nell’altra stanza: “Correrò il rischio”, gli dice.
Chissà quanti, vedendo questo film nelle sale italiane nell’anno 2010, hanno pensato a quel intanto andava succedendo tra Mirafiori e Pomigliano. Certo la vicenda delle donne di Dagenham è imparagonabile, lontana anni luce: allora c’era il grande stabilimento (per l’appunto) fordista, nel quale bastava fermare una linea per bloccare tutto, oggi la produzione è spezzettata, diffusa, spesso esternalizzata; allora c’era la fase nascente delle lotte operaie, e l’emissario della Ford girava come un matto per il mondo a tamponare scioperi e rivolte, oggi la classe operaia è reduce da un ventennio di sconfitte e i salari hanno perso enormi quote del prodotto a vantaggio dei profitti, tornando a una situazione simile a quella degli anni Cinquanta; allora le scelte di localizzazione produttiva della Ford – o delle altre multinazionali – erano comunque limitate all’area del mondo occidentale, oggi le alternative a disposizione per la delocalizzazione sono molte di più; allora c’era un’industria forte e consumatori in aumento in Inghilterra e in tutt’Europa, oggi non più. E però, nonostante tutte queste ovvie lontananze, la differenza più forte, che salta agli occhi dello spettatore, è quella ravvisabile nelle parole della ministra: correrò il rischio. Quanti politici, nell’Italia del 2010 ma anche in tutto il mondo occidentale, sono disponibili a “correre il rischio” di contrastare, rifacendosi all’interesse generale che rappresentano, l’interesse particolare di un’industria, un gruppo finanziario, o di tutta l’industria e tutta la finanza? Quanti avrebbero oggi il coraggio di dire all’emissario Ford: il mio paese ha bisogno di voi, ma questo non vuol dire che potete fare tutto quel che volete? Quanti pensano che ci sia, nella politica, un punto di vista più alto e più forte, e anche più imparziale, di quello che c’è in una parte del gioco dell’economia? Pochi. E’ l’economia che è diventata più forte, o la politica che è diventata più debole?
Nella storia della Ford di Dagenham c’è il lieto fine: le operaie vincono, con una mediazione governativa assai accettabile, la Ford non se ne va, il parlamento inglese promulga la prima legge per la parità retributiva tra uomo e donna. Gli anni di distanza e lo stile soft dell’opera cinematografica non nascondono che comunque di una lotta dura e dolorosa si è trattato; ma resta nello spettatore (almeno è rimasta in me) la sensazione di un happy end irripetibile al giorno d’oggi, tanto quanto quello della fiaba di Cenerentola che ritrova principe e scarpetta.
E’ la legge della globalizzazione che non consente obiezioni e cancella le favole, dicono all’unisono i commenti del mondo politico, economico ed anche giornalistico italiano: chiunque si appelli a una remota possibilità di dire un “ma” o un “se” di fronte alle richieste Fiat è un irriducibile nostalgico, uno che non vuole prendere atto del fatto che i tempi sono cambiati, non siamo più agli anni Settanta, che è meglio perdere qualche diritto che l’intera industria. Tali argomenti – che comunque andrebbero presentati nella crudezza della loro realtà, ossia ammettendo che siamo di fronte a un ricatto a cui non ci si può sottrarre, insomma un male da sopportare, non un bene da accettare con entusiasmo – sembrano però oggi un po’ datati. Possibile che solo ora scopriamo la globalizzazione? 

Gadda e Mussolini (di Eros Barone)

La menzogna narcissica è, nel procedere della storia, quel che è la dissipazione nella vita privata. Consiste nel negare una serie di fatti reali che non tornano graditi a messer “Io” Tacchino e nel dare come esistenti in cassa una serie di imagini e fantasie delle quali morbosamente si compiace come di diplomi legalmente dovutigli. (Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo, Garzanti, 1967)
Eros e Priapo non è solo uno dei più bei libri di Gadda, ma anche una delle più acute letture del fascismo storico. L’analisi che ne compie Eros Barone, cui si deve il testo che qui propongo, mette in luce elementi che fanno del libro  un’opera di permanente attualità. (S.L.L.)

Eros e Priapo
Carlo Emilio Gadda scrive Eros e Priapo (sottotitolo: Da furore a cenere), uno dei suoi libri più originali, nell’immediato dopoguerra. Si tratta di una specie di saggio sulle motivazioni psicologiche profonde che permisero al fascismo di durare vent’anni. Al centro di questa interpretazione sessuologica della figura del Duce vi è la rabbia dell’ingegnere-scrittore di fronte alla fenomenologia della sconfitta del Logos (la ragione) da parte dell’irrazionale, del disordine, dell’italica insipienza.
Per duecento pagine, avvalendosi delle sue straordinarie risorse linguistiche, Gadda indaga le componenti erotico-sessuali del culto tributato al Duce e l’esibizione continua di potenza virile da lui praticata e predicata. Lo scrittore lombardo parte alla ricerca dei “torbidi moventi” che hanno espulso Logos dalla scena italiana e hanno poi degradato Eros a Priapo, proponendosi di ricostruire “una veridica storia degli appetiti e degli impulsi delle anime”, poiché sono “gli istinti e le libidini vitali, non la ragione, a muovere l’io collettivo”.
Mussolini, “Maresciallo del Cacchio”, non si è limitato ad armare e guidare scherani, ma, con il fiuto del furbo di provincia, si è assicurato il favore delle femmine facendo leva sulla “ghiottoneria ammirativa” di quelle anime docili e inclini al proselitismo e proponendosi come “maschio dei maschi”. Con accenti aristofaneschi Gadda sottolinea come le donne adorino, insieme con la virilità guerriera, il potere che vi è associato, e rifuggano dalla filosofia e da ogni forma di critica razionale. Al comportamento “istero-pappagallo-ecolalico-vulvaceo-sadico delle bassaridi” corrisponde così una gestione altrettanto ciarlatanesca della cosa pubblica sussunta dalla “libido dominandi” e da un generale mercimonio cui prendono parte legioni di clienti e di spie.
Per quanto concerne l’esibizionismo del Duce, Gadda ci spiega che gli atteggiamenti che ne derivano sono il prodotto della follia autoerotica, di una fase narcissico-puberale protratta oltre l’adolescenza e cristallizzata nella pratica della sopraffazione. “Priapo Ottimo Massimo” troverà, infatti, molti collaboratori nei giovani affetti dalle stesse tare: perdigiorno, bari di provincia, biscazzieri, “tonsori occasionali”, “contrabbandieri di cocaina”, trasformati in altrettanti eroi vestiti di orbace, calzati di stivali e muniti di speroni.
Spingendo più a fondo la sua diagnosi l’autore mette poi in rilievo come la follia narcissica e la schizofrenia coesistano “in una bischeraggine indecifrabile”. Il folle narcissico, osserva Gadda, è incapace di analisi e di critica (gli adulatori, ad esempio, sono da lui considerati genî), di ‘jus’, di attività etica e pedagogica e di sincerità, ossia di tutto ciò che “spiace all’Io Tacchino”: egli si abbandona perciò all’esibizionismo più sfrenato. Nello straripare beffardo e sarcastico delle immagini, delle similitudini e delle metafore, nello scoppiettìo delle più nere invettive e nella ‘variatio’ tendenzialmente illimitata degli epiteti più diversi attribuiti a Mussolini si rivelano la vastità degli interessi culturali e la prodigiosa fertilità linguistica e inventiva, che fanno di Carlo Emilio Gadda uno dei massimi scrittori italiani del Novecento. Ma si manifesta anche la forza profetica con cui è tratteggiato, a futura memoria, il ritratto di un uomo di potere la cui crisi personale coincide con la tragedia di una nazione, come suggerisce l’epigrafe sibillina apposta da Gadda a un simile pamphlet, quando esso vide per la prima volta la luce nella edizione Garzanti del 1967. Un’epigrafe tratta da una frase di Charles de Gaulle e soffusa dall’enigmatico sorriso dell’àugure: “Che abbia a spegnermi è certo: quando, non so”.
Eros Barone

Dov'è finita la vergogna (di Guido Crainz)

Guido Crainz è storico di valore: Il paese mancato, che racconta l'Italia dal miracolo economico ai "nefasti" anni Ottanta, è tra i libri più importanti su un periodo tra i più controversi della storia recente. Su "la Repubblica" del 20 gennaio è stato pubblicato un suo articolo sul clima "morale" del nostro paese, che è anche un bilancio sulle illusioni che lo percorsero negli anni di "Mani pulite". Lo ripropongo qui per memoria mia e di pochi altri. (S.L.L.)
Ogni fase della vita di una nazione contiene in sé una rivelazione, nel bene come nel male, e i giorni che stiamo vivendo sembrano farci cogliere la progressiva "scomparsa della vergogna".
Dopo aver progressivamente smarrito la capacità di indignarci – che implica codici di riferimento e vincoli collettivi – stiamo forse per compiere un altro passo. "Stiamo sprofondando in una nuova era", diceva negli anni Ottanta un personaggio di Altan, ed è forte la sensazione che stia accadendo anche oggi: ce lo suggeriscono non solo le intercettazioni pubblicate, ma anche alcuni commenti ad esse. Quasi a giustificazione del premier e delle sue amiche, è stato scritto ad esempio (e non su un blog del Partito della Libertà) che in fondo "il mondo è pieno di ragazze che si concedono al professore per goderne l´indulgenza all´esame o al capo ufficio per fare carriera". E’ lecito chiedersi, mi sembra, che Paese siamo diventati. Si pensi poi alla privacy che viene strenuamente invocata a difesa del Cavaliere: dimenticando costantemente che essa è stata messa immediatamente fuori causa dalla telefonata del Premier alla questura di Milano, dal suo contenuto e dalle sue modalità (oltre che dalla immediata comparsa sulla scena di una eletta alla Regione Lombardia, che era stata inserita d´autorità nella lista blindata del cattolicissimo governatore Formigoni).
Si avverte davvero l´urgenza che la classe dirigente nel suo insieme pronunci quel "sermone della decenza", quel pronunciamento solenne sui limiti invalicabili che Barbara Spinelli ha invocato ieri benissimo su queste pagine. Purtroppo quel pronunciamento non sembra imminente e in questi giorni hanno tenuto campo invece non pochi "sermoni dell´indecenza".
È inevitabile ripensare ai primi anni Novanta e al crollo della "prima repubblica". Quel crollo fu accelerato e non frenato dal tentativo parlamentare di salvare Bettino Craxi e dal vasto sussulto di indignazione collettiva che esso suscitò: in caso di "assoluzione parlamentare" del Cavaliere – con una ulteriore dichiarazione di guerra alla giustizia e alla magistratura – sembra difficile prevedere oggi qualcosa di simile a quella mobilitazione. Anche su essa però occorre riflettere molto criticamente, perché anche gli abbagli e le semplificazioni di allora possono aiutarci a capire. Fu un grave errore considerare quel sussulto nel suo insieme solo un segno di diffusa sensibilità civile e non cogliervi anche alcuni degli umori peggiori dell´antipolitica: senza l´agire di essi non comprenderemmo perché quella fase si sia conclusa con il trionfo di Silvio Berlusconi e di Umberto Bossi.
Fu un devastante autoinganno attribuire ogni colpa al ceto politico, contrapponendogli una virtuosa società civile: come se non fosse stata attraversata anch´essa da quella profonda mutazione antropologica che Pier Paolo Pasolini aveva colto. E non è possibile rimuovere che corpose espressioni della "società civile" che si era modellata negli anni Ottanta furono immesse realmente nelle istituzioni dalla Lega e da Forza Italia, con gli effetti che abbiamo sotto gli occhi. C´è naturalmente da chiedersi perché altre, ben diverse e positive parti di "società civile" siano state largamente ignorate dalle forze politiche che si contrapponevano a Berlusconi e a Bossi, ma giova restare al cuore del problema.
Si ripeté in realtà vent´anni fa l´errore che Massimo D´Azeglio coglieva alle origini del nostro Stato: "Hanno voluto fare un´Italia nuova e loro rimanere gli italiani vecchi di prima (…) pensano a poter riformare l´Italia e nessuno si accorge che per riuscirci bisogna che gli italiani riformino se stessi" (la frase, come si vede, è molto più illuminante di quella che gli viene abitualmente attribuita). Non va dunque mitizzata la reazione della società italiana dei primi anni Novanta alla crisi della politica, ma all´interno di essa vi fu anche sussulto civico, vi fu anche l´idea di una diversa etica pubblica, vi furono anche umori e passioni civili. Essi riemersero poi ancora negli anni successivi, diedero spesso vigore e anima a un centrosinistra che dimostrò presto la propria inadeguatezza sia al governo che all´opposizione. Indubbiamente l´assenza di una reale prospettiva di cambiamento ha contribuito poi potentemente al diffondersi di disincanto e di rassegnazione, di sensi diffusi di impotenza, di ripiegamenti nel silenzio (e talora di nuovi, sconsolati conformismi). Ha reso progressivamente più deboli quelle diverse e disperse parti della società che non volevano rinunciare a un futuro differente. Più ancora, non volevano rinunciare al futuro. Sarebbe però di nuovo un errore cercare le colpe solo nella politica senza interrogarsi più a fondo sui processi profondi che hanno attraversato in questi anni la società italiana. Nel vivo delle più ampie mobilitazioni civili vi erano stati spesso, ad esempio, quei "ceti medi riflessivi" su cui ha richiamato l´attenzione Paul Ginsborg: la storia di questi anni è però anche la storia del loro progressivo isolamento culturale e sociale, non solo politico. E’ anche la storia dell´affermarsi di forme moderne di incultura se non di "plebeismo" – per dirla con Carlo Donolo – nello stesso "cuore ansioso dei ceti medi", sempre più incapaci di svolgere ruoli di "incivilimento". Ma ancor più a fondo dovremmo spingere lo sguardo per cogliere lo spessore del baratro che abbiamo scavato, a partire dalla dissipazione quasi irreversibile dei beni pubblici o dalla distruzione delle risorse e – più ancora – delle speranze delle generazioni più giovani.
A sconsolanti riflessioni rimanda del resto anche il clima in cui sono stentatamente iniziate le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell´Unità, ed è impietoso il raffronto con l´Italia del primo centenario. In quel 1961 non vi era solo l´entusiasmo per il "miracolo economico": assieme alle condizioni materiali quell´Italia stava migliorando sensibilmente anche il proprio orizzonte di libertà. Stava mettendo mano all´attuazione reale di una Costituzione che era stata "congelata" negli anni della guerra fredda, stava rimuovendo pesanti residui del fascismo e dando voce a sensibilità sin lì inedite. Più in generale, si stava presentando anche sullo scenario internazionale come una realtà nuova, e si leggono oggi con emozione le parole che John Fitzgerald Kennedy pronunciò al Dipartimento di Stato proprio in occasione del nostro centenario. In quel discorso il Presidente degli Stati Uniti giudicava l´Italia "l´esperienza più incoraggiante del dopoguerra" e vedeva al tempo stesso "nella tradizione di Mazzini, Cavour e Garibaldi, come di Lincoln e di Washington" il riferimento possibile per un "nuovo Risorgimento" internazionale (le parole sono sempre di Kennedy). Non saranno molti i capi di Stato che si rivolgeranno a noi con accenti simili nelle celebrazioni in corso, ma quelle lontane parole di Kennedy smentiscono drasticamente chi ci dice con desolante rassegnazione che "siamo sempre stati così". E ci dicono che potremmo ricostruire anche oggi un futuro diverso: difficilissimo, quasi impensabile, ma disperatamente necessario.

La quintessenza del berlusconismo (di Ida Dominijanni),

Gli articoli dei quotidiani sono spesso destinati a un invecchiamento rapidissimo, ma, dopo una settimana abbondante, mi pare che questo editoriale di Dominijanni, pubblicato il 15 gennaio scorso su "il manifesto" con il titolo Foto di regime, continui a rappresentare quanto sta accadendo con il massimo di lucidità e chiarezza. Da (ri)leggere, dunque, e meditare, credo. (S.L.L.)
Uso della prostituzione minorile e concussione aggravata non sono due reati leggeri per nessuno, tantomeno per un presidente del consiglio. E la richiesta del rito immediato sta a significare che le prove in possesso della procura di Milano sono consistenti. Siamo di fronte all’atto giudiziario che sigla una sequenza di cosiddetti «scandali sessuali», meglio definita fin dall’inizio da Veronica Lario «ciarpame politico», che dura da ventuno mesi, e che contiene in sé tutti gli elementi necessari a un giudizio politico sul regime di Silvio Berlusconi, anche a prescindere dalla prova tecnica di un reato penale.
Chiunque, di fronte a tanta evidenza, cederebbe il passo, si imporrebbe cautela, abbasserebbe i toni. Berlusconi e la sua corte no. Quando, nell’autunno scorso, si seppe dai giornali che il premier aveva personalmente telefonato alla questura di Milano, la notte del 27 maggio scorso, perché Kharima el Marhouh, in arte Ruby, minorenne marocchina arrestata per furto, venisse rilasciata in quanto «nipote di Mubarak » e affidata a Nicole Minetti, il premier prima negò poi rivendicò: «l’ho fatto per bontà», «amo le donne» e «meglio amare le donne che essere gay». Oggi fa il gradasso e dice che non vede l’ora di difendersi dal reato inventato di «cena privata a casa del presidente». I suoi, intanto, organizzati in due armate, ripassano e ripetono il copione. L’armata politica grida alla giustizia a orologeria e al complotto destabilizzante; l’armata giuridica, Ghedini & co., prepara i cavilli per sfilare l’inchiesta dalla procura di Milano e le carte per usufruire di quel che resta del legittimo impedimento; Gaetano Quagliariello, testa di ponte fra i due battaglioni, sentendo parlare di prove «aspetta di vedere i preservativi» (parole sue). Non è da escludere che la seconda armata riesca nel suo intento di diluire nel nulla l’ennesima inchiesta a carico del premier. Ma qui non è, o non è solo, il seguito giudiziario della vicenda il punto.
Sempre nell’autunno scorso, fu di Carlo Freccero l’acuta osservazione che quel verbale della questura di Milano da cui risultava la telefonata notturna del premier rompeva improvvisamente e definitivamente, con un inoppugnabile dato di realtà, la fiction scritta, prodotta e interpretata con successo per vent’anni da Silvio Berlusconi.
A romperla in verità c’era già stata la parola di due donne, Veronica Lario e Patrizia D’Addario, la moglie e la prostituta uscite allo scoperto per denunciare di quanto ciarpame e di quanta corruzione fosse fatta quella fiction; ma si sa che nella misoginia imperante, non solo berlusconiana, la parola di due donne vale meno di un verbale. E dietro quel verbale ce n’erano altri, in procura, a resocontare un’inchiesta su un presunto giro di prostituzione organizzato a beneficio del premier dai suoi fidi, Mora, Fede, Minetti per le feste di Arcore nello stesso ruolo che fu di Tarantini per le feste di palazzo Grazioli e di villa Certosa. Questo è lo stato del principe e della corte. Questa è la fotografia del regime che va sotto il nome, ormai in tutto il mondo, di «berlusconismo».
Ora il punto è il seguente. Da ventuno mesi ci sentiamo ripetere, dalla maggioranza e dall’opposizione, la stessa solfa. Dalla maggioranza: sono «intrusioni indebite della vita privata»; a casa propria ognuno può fare quello che vuole, e la legge non ci può entrare; il premier è un simpatico libertino perseguitato da magistrati delinquenti e dalla stampa di sinistra talebana. Dall’opposizione, fatte salve poche e meritevoli eccezioni: lo stile di vita del premier non è un esempio di moralità, ma non ci interessa, se non per le questioni di sicurezza e di decoro istituzionale che solleva; non è su questo che Berlusconi va combattuto e battuto, ma sulla politica «vera», l’economia, il malgoverno, i deputati comprati e venduti. Lasciamo perdere gli insuccessi strategici e tattici di cui è stata costellata, anche di recente, questa strada, e torniamo alla fotografia del regime. Il fatto è che nella soap dei cosiddetti «scandali sessuali» che va avanti da ventuno mesi, derubricata da destra e da sinistra a fatto minore, c’è tutta, ma proprio tutta, la quintessenza del berlusconismo. Sconfinamento fra pubblico e privato, politicizzazione della biografia e privatizzazione della politica; contrabbando dell’arbitrio per libertà (tutto si può fare); riduzione a supermarket della vita pubblica e privata (tutto si può comprare, dalle donne ai parlamentari); uso della sessualità come protesi del potere; uso dei ruoli sessuali («veri uomini» e «vere donne») come maschere rassicuranti per identità, maschili e femminili, incerte;uso razzista della bellezza; imperativo del godimento come surrogato del desiderio; pratica dell’illegalità come risposta beffarda alla crisi dell’autorità e della legge; eccetera. Prima la politica di un’opposizione degna di questo nome si deciderà a occuparsi di questo fascio di questioni con una proposta culturale degna di questo nome, prima spunterà l’alba del dopo-regime. Diversamente la fiction scritta, prodotta e interpretata da Silvio Berlusconi continuerà a calamitare la sua audience, e i cavilli di Ghedini a occupare le cronache.

L'incerto avvenire della Fiat. Il progetto Mirafiori spiegato al popolo (di Guido Viale)

Da "il manifesto" del 20 gennaio recupero questo articolo di grande interesse e cristallina chiarezza (S.L.L.).

Mirafiori 1955. La catena di montaggio
A tutti i «modernizzatori» che hanno salutato il referendum di Mirafiori come l'ingresso delle relazioni industriali italiane nella «modernità» va ricordato che la Modernità, o «Età moderna», è iniziata nel 1492 con la scoperta dell'America. A quel tempo, nella Modernità, l'Italia delle Signorie era già entrata. Nei secoli successivi ha avuto alti e bassi (attualmente sta sicuramente attraversando un basso); ma se il 14 gennaio 2011 dovesse diventare una data storica, starebbe a segnare non l'entrata ma l'uscita del paese dalla Modernità: per ripiombare in un nuovo Medioevo; oppure, per instaurare una forma nuova di «feudalesimo aziendale». Perché?

FEUDALESIMO AZIENDALE
Non mi soffermo sulla limitazione del diritto di sciopero - accordata dal nuovo contratto - che ogni lavoratore dovrà poi sottoscrivere individualmente; né sulla abolizione della rappresentanza elettiva a favore di una gestione dei contenziosi affidata ai sindacati firmatari (trasformati così in missi dominici: ovvero, agenti del padrone); temi già ampiamente trattati da altri. Ma che cosa succederà in produzione?
Gli operai verranno messi in cassa integrazione, prima ordinaria, poi straordinaria, motivata da un «evento improvviso e imprevisto» (così il contratto; che però prevede «l'imprevisto» con assoluta certezza) e finanziata con fondi Inps attinti dalla «gestione speciale» dei lavoratori precari (che in questo modo verranno scorticati delle loro già irrisorie pensioni) e da contributi statali aggiuntivi (alla faccia della rinuncia della Fiat agli aiuti di Stato). Nel frattempo - oltre un anno - i lavoratori verranno convocati uno a uno per la firma del contratto individuale per vincolarli indissolubilmente ai termini dell'accordo. E per essere selezionati. Molti verranno scartati per una ragione o un'altra. È quello che Fiat sta già facendo con gli operai della Zastava, nonostante i generosi aiuti della Bei e del governo serbo. Marchionne sa bene che maestranze con un'età media di 48 anni (nel 2012), per il 30% composte da donne, e per un altro 30% certificate Rcl (ridotte capacità lavorative) non possono reggere i ritmi di lavoro previsti dall'accordo. Poi verrà costituita la NewCo - sembra che si chiamerà Mirafiori Plant - ristrutturando gli impianti con fondi Chrysler e Fiat (il famoso miliardo: ma chi sa quanto sarà poi effettivamente speso?). A febbraio 2012, se tutto «va bene», comincerà la produzione. Di che cosa?

LA FINE DELLA FIAT
Di Suv (che modernità!) con marchio Chrysler e Alfa, assemblati su pianali e con motori prodotti negli Usa, e poi rispediti negli Usa per essere venduti, mercato permettendo: anche con nuovi motori, i suv restano pur sempre i veicoli più energivori, quelli che avevano mandato a picco la produzione dei tre big di Detroit nel 2008; e il petrolio sta risalendo verso i cento dollari al barile. Ma che senso ha questo andarivieni tra Italia e Usa, quando persino lo stabilimento di Termini Imerese era stato giudicato improduttivo perché troppo lontano dai fornitori di componenti? Il senso è che tra le condizioni poste da Obama per consentire la scalata di Marchionne alla Chrysler c'è quella di esportare dagli Usa, e fuori dall'ambito Nafta (Canada e Messico), prodotti per almeno 1,5 mld di dollari. Dunque, pianali e motori trasferiti da Detroit a Torino (cioè da Chrysler a Fiat Plant: due società differenti anche se controllate dallo stesso management) dovranno concorrere nella misura maggiore possibile al raggiungimento dell'obiettivo. Ovvio che l'esportazione di componenti verrà sovrafatturata (lo ha già prospettato anche Massimo Mucchetti sul Corsera) e i margini di Mirafiori ridotti all'osso (o erosi completamente per giustificare successivi ridimensionamenti o la chiusura dello stabilimento); con tanti saluti per coloro che dalla produzione di nuovi modelli a più alto valore aggiunto - cioè più grandi, più complicati, più lussuosi, più spreconi, per soli ricchi - si aspettano la rimessa in sesto del Gruppo. Ma quale Gruppo?
L'accordo di Mirafiori, dopo quello di Pomigliano, dopo la dismissione di Termini Imerese, dopo lo spin-off di Fiat Industrial - la separazione dall'auto di Cnh e Iveco, i settori più redditizi rimasti in mano agli Agnelli - e in attesa di nuovi accordi anche per Cassino e Termoli (Melfi, cioè Sata, sta già per conto suo), prelude alla dissoluzione di Fiat Group. Intanto va notato che: a) Mirafiori - «nocciolo storico» del gruppo - non produrrà più macchine Fiat e diventerà una «fabbrica cacciavite» che lavora per altri; b) Pomigliano eredita le produzioni e l'organizzazione della fabbrica polacca di Tychy, che è di Fiat ma lavora anche per Ford e che, in attesa di chiarimenti, lavorerà sempre di più per altri; c) Magneti Marelli è in vendita; d) Maserati, Alfa, Lancia e Ferrari sono oggi, con l'eccezione dell'ultima, soprattutto marchi: che possono essere venduti come «marchi senza fabbrica», così come Tychy e Mirafiori sono o possono diventare «fabbriche senza marchio». E poi?

L’ENIGMA DEI MERCATI
Poi la crisi è tutt'altro che superata. Le finanze di tre quarti dei paesi dell'Ue sono a rischio. I consumi ristagnano. Il mercato europeo dell'auto (a differenza di quelli Usa e asiatico) non dà segni di ripresa. A livello mondiale la capacità produttiva è di 100 milioni di veicoli all'anno mentre la domanda è stata di 60 milioni (sarà forse di 70 quest'anno). C'è un eccesso di capacità non solo in Europa e negli Usa, ma anche in Giappone, Cina e Corea, i cui produttori sono pronti a scalare la classifica delle vendite in Europa. Qualcuno si è chiesto quali siano i vantaggi competitivi con cui Marchionne conta di vendere ogni anno in Europa un milione in più di vetture fabbricate in Italia. Cioè di portare via almeno un milione di vendite annuali a Volkswagen, senza perdere colpi di fronte a Daimler e Kia-Yundai, in piena ascesa, o a Reanult-Nissan e Toyota, molto più solide, per non parlare dello sbarco in Europa dei produttori cinesi.

I NUOVI SERVI DELLA GLEBA
Alcuni oggi si chiedono che chance può avere una competitività ottenuta strizzando ancor più gli operai, il cui costo incide per non più del 7% sul prezzo finale del veicolo. Molti meno si sono chiesti che senso ha paragonare i 100 o 80 veicoli annui per addetto prodotti da Fiat in Polonia o in Brasile con i 30 degli stabilimenti italiani. A parte la differente complessità dei modelli e il differente confine tra fornitura esterna e fasi internalizzate, come si fa a paragonare la produttività di fabbriche che lavorano a pieno ritmo con quella di impianti dove le giornate di cassa sono più di quelle lavorate? La verità è che se Marchionne vuole vendere, o affittare, o dare in uso ad altri i suoi impianti, ciascuno dei quali farà capo a una diversa società, il valore aggiunto di una manodopera messa alle corde è molto maggiore di quello degli impianti dello stabilimento che li impiega. Ma le due cose sono indisgiungibili. È questo il feudalesimo aziendale a cui ci sta portando l'accordo di Mirafiori; quello che fa degli operai i nuovi «servi della gleba» dell'impresa globalizzata.
Marchionne e i suoi azionisti se riescono a portare a termine la scalata a Chrysler possono anche permettersi di mandare a fondo i lavoratori della Fiat, dopo averli legati con un accordo capestro ai loro rispettivi stabilimenti. Ne ricaveranno un aumento di utili e stock option. Ma chi vive del suo lavoro non può farlo. Però il futuro degli impianti, del knowhow e del lavoro che oggi fanno ancora capo a Fiat o al suo indotto non riposa più sull'industria dell'auto. I settori che hanno un avvenire sono quelli che conducono verso la sostenibilità: rinnovabili, efficienza energetica, ecoedilizia, riassetto del territorio, mobilità flessibile, agricoltura e alimentazione biologiche. Il tutto - tendenzialmente - a rifiuti e a km zero.

UN DIFFUSO PRECARIATO
Ma la conversione ecologica dell'apparato produttivo e dei nostri consumi avrà ancora bisogno per un tempo per ora indefinibile di industria, economie di scala, grandi flussi di materiali, grandi impianti (il contrario dei chilometri zero) e di lavoratori impegnati, seppure in maniera più creativa e intelligente, su di essi. Sono temi ineludibili. Ma chi può mai lavorare a una prospettiva del genere?
Gli accordi capestro della Fiat avvicinano quello che un tempo era l'esercito dei «garantiti» alla condizione di un sempre più diffuso precariato. Mentre i temi e i modi in cui è andata crescendo la lotta contro la distruzione di scuola, università, ricerca e cultura fa di quel movimento, composto da precari attuali (ricercatori e studenti che lavorano per mantenersi agli studi) e futuri (milioni di giovani a cui è stato rubato il futuro), il segmento più organizzato dell'oceano del precariato italiano.

LA VIA DELLA CONVERSIONE ECOLOGICA
La domanda di saperi che non servano a costruire operatori, tecnici, insegnanti e ricercatori asserviti a datori di lavoro estemporanei o a imprese ed enti fantasma, dove nessuno avrà mai la sicurezza di un reddito né la possibilità di realizzare le proprie potenzialità, non traduce solo il rigetto della riforma Gelmini e la critica pratica delle forme e dei modi in cui la trasmissione dei saperi viene organizzata e finanziata. Esprime soprattutto la rivendicazione - che può farsi proposta, pratica attiva, percorso di realizzazione - di una riforma della ricerca e dei saperi che investa i contenuti della conoscenza, le sue le finalità, la frantumazione dei saperi in tanti ambiti disciplinari privati di qualsiasi consapevolezza. Per questo il tema centrale di ogni possibile riforma di scuola, università, saperi, cultura dovrebbe essere la conversione ecologica: una prospettiva che richiede l'integrazione di conoscenze sociali, tecniche, giuridiche, economiche, storiche con pratiche fondate sul confronto e la lotta, ma anche sulla capacità di fare proposta e di promuovere organizzazione. Pratiche che possono trovare punti di riferimento e di applicazione concreti nelle lotte dei precari, dei lavoratori delle fabbriche in crisi, dell'opposizione esplicita o soffocata (come i «sì» di Mirafiori) all'avvento del nuovo feudalesimo aziendale.

20.1.11

Tu da che parte stai? Appello a don Ciotti.

Da volontario impegnato in Libera, da sostenitore del presidente Luigi Ciotti, detto "don" in quanto prete, sento il bisogno di comunicare la mia grande delusione prima per il suo diuturno silenzio sul referendum tra i dipendenti Fiat a Mirafiori, poi, a risultato acquisito, per le dichiarazioni fatte nella trasmissione televisiva di Gad Lerner (http://benvenutiinitalia.it/2011/01/19/don-luigi-ciotti-ospite-alla-trasmissione-di-gad-lerner-linfedele/ ).
Ciotti, infatti, ha ringraziato tutti i lavoratori votanti, quelli del “sì” e quelli del “no”, ha parlato del grave carico di responsabilità e sofferenza che ha caratterizzato la scelta di tutti, comunque abbiano votato, e ha chiesto che anche i “no” siano rappresentati sindacalmente dentro la fabbrica.
E’ un’impostazione che sarebbe inattaccabile, se il referendum sul diktat di Marchionne, impropriamente chiamato "accordo", si fosse svolto in condizioni di libertà e di parità. E’ difficile che a don Ciotti sia sfuggito come dentro quel referendum agisse la prospettiva della chiusura dello stabilimento, del suo trasferimento in Serbia o altrove, avallato dal capo del governo, come su di esso aleggiasse lo spettro della disoccupazione. E non mi capacito di come non si sia accorto del pesante sbilanciamento di tutti i media che contano a favore dell’azienda e dei sindacati collaborativi denunciato da Articolo 21.
Non mi aspettavo questo silenzio e questa disattenzione da parte del fondatore del Gruppo Abele e di Libera, che su tante battaglie di legalità e libertà (immigrati, autonomia dei magistrati, leggi ad personam, corruzione ecc.) non ha fatto mai mancare il suo impegno anche personale.
So che Libera è associazione di associazioni e che vi aderiscono diverse strutture nazionali e territoriali della Cisl. Posso comprendere, dunque, le difficoltà di Ciotti; anche perché non sono tra quelli che considerano la Cisl venduta al padrone e perduta per sempre alle buone cause.
Negli anni 50 la Fim Cisl in Fiat fu punta di lancia nell’attacco alla Fiom Cgil, nel licenziamento massiccio dei suoi quadri, nell’isolamento dei militanti Fiom nei reparti confino. Poi arrivò la spinta di base che travolse gli steccati e la Fim di Carniti divenne paradossalmente uno dei sindacati più unitari, coraggiosi e combattivi. E’ comprensibile che oggi, come negli anni 50, i dirigenti Cisl in Fiat e altrove pensino a un sindacato aziendalista, che collabora con le scelte padronali e non soggetto dell’autonomia culturale dei lavoratori. Lo è altrettanto che molti impiegati e non pochi operai seguano questo approccio, convinti che sia l’unica strada percorribile. Credo che si sbaglino e  vadano contro i propri stessi interessi, ma in questo non sono gli unici né saranno gli ultimi.
E tuttavia la vicenda Fiat investe temi che hanno molto a che vedere con i principi ispiratori di Libera. Un referendum sindacale svolto sotto la minaccia di licenziamento non ha molto in comune con la legalità costituzionale e contiene una violenza e una prepotenza, certo diverse da quelle “mafiose” ma altrettanto evidenti. Dentro la bozza di intesa ci sono poi elementi che dovrebbero scandalizzare i paladini dei diritti: la lotta all’assenteismo fatta alla do’ cojo cojo che colpisce il diritto dei malati al salario, per esempio, oppure la sostanziale abrogazione del diritto di sciopero, o anche la forte limitazione delle libertà sindacali per chi dissente. Chi trae giustamente vanto dalla dimostrata capacità di liberare il lavoro in terra di mafia, non può accettare che altrove sia nuovamente asservito.
Delle posizioni di don Ciotti perciò non mi capacito. Forse agisce in lui, come tentazione, la “sindrome di Alberto Sordi”, che, pur essendo notoriamente un moderato e un sostenitore dell’onorevole Andreotti, una volta si recò alla Festa nazionale dell’Unità e alla folla che l’applaudiva gridò: “Io so’ de tutti”. Ma ci sono situazioni in cui non si può essere di tutti.
Don Ciotti, insieme a Libera, per aiutare a vincere incertezze e timidezze nella lotta contro le mafie e  i loro complici, ha diffuso uno slogan efficacissimo: “Tu da che parte stai?”. E’ una domanda che vale anche per la prepotenza padronale. E' quella che bisogna combattere e non c'è alcun bisogno di scegliere tra i lavoratori del sì e quelli del no, tra le vittime che a malincuore subiscono e quelle che in qualche modo si oppongono.
E’ possibile che don Ciotti non voglia far dispiacere a tanti amici di Libera che, o perché non hanno compreso la posta in gioco o per  un malinteso senso dell’opportunità, si sono schierati con Marchionne. In questo caso lo sollecito, nel mio piccolissimo, a una scelta personale, autonoma dalle associazioni di cui è guida amata e stimata. Tutte le volte che ha voluto, Ciotti si è esposto di persona, scontando i mugugni di amici e compagni. Per esempio alle elezioni 2008, allorché firmò un appello pro-Veltroni scontentando i suoi sodali dell'Estrema.
Adesso ha un'occasione importante. C’è, imminente, lo sciopero Fiom. Vi partecipi e lo faccia sapere, anche per sostenere la battaglia per una rappresentanza democratica in Fiat. Ci metta la faccia e il nome. E non si preoccupi di non essere stato tra i  primi ad aderire e solidarizzare. “Gli ultimi saranno i primi”, diceva quello.

19.1.11

Brugola


Sul “Corriere della sera” di ieri (martedì 18 gennaio), in un “improvviso” di Sebstiano Vassalli si parla della “brugola”, un particolare tipo di vite a testa esagonale e si cita il racconto di un noto lessicografo, Mario Cannella, da un libro recente sul suo lavoro.
Scrive Cannella: “Il lemma brugola, parola degli Anni 80, era presente nel vocabolario Zingarelli e nell’etimologia si diceva che probabilmente l’origine era dal latino vericulu (m), ‘piccolo spiedo', diminuitivo di veru, ‘spiedo’. Tullo De Mauro lodò sull’Espresso il neologismo e l’etimologia. Un lettore scrisse ironico che l’etimologia era davvero bella e che lui nella sua ignoranza pensava invece che derivasse dalle Officine Egidio Brugola che erano proprio a Lissone, in provincia di Milano, dove lui abitava. A quel punto Lorenzo Enriques (l’editore) telefonò all’azienda e parlò con il figlio d’Egidio Brugola, il quale confermò che le viti e le chiavi erano state vendute con la dicitura ‘Brugola’ nella confezione. Da allora il lemma, nello Zingarelli, è accompagnato dalla corretta etimologia”.
Dubito che abbia ragione un signore che, in una discussione da blog, ipotizza che con l’articolo il Vassalli e con il racconto il Cannella abbiano voluto mettere in dubbio l’attendibilità e l’autorevolezza del vocabolario Zingarelli (cui Cannella, da lessicografo  ha dato un grande contributo) e della Zanichelli (che ha pubblicato il suo libro intervista Idee per diventare lessicografo).
Piuttosto la storia esemplifica come, anche nella ricerca etimologica, la scienza proceda per “tentativi ed errori”. (S.L.L.)  

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