L'istituzione monarchia è
assai poco presente nel dibattito scientifico, malgrado il
determinante ruolo esercitato a più riprese nella storia nazionale.
Si sa che, regnante casa Savoia, la storiografia nostrana, con poche
eccezioni, aveva contribuito non poco a tramandare dei sovrani una
immagine oleografica ed entusiasmante: furono così propagandati
prima il mito del «Re Galantuomo» (e Padre della Patria) - Vittorio
Emanuele II -, poi del «Re Buono» - Umberto I -, infine del «Re
Soldato» - Vittorio Emanuele III (a Umberto II, per mancanza di
agiografi pronti di fantasia data la durata mensile del suo regno, è
toccato passare alla storia come il «Re di Maggio»). La
storiografia di epoca repubblicana ha ridimensionato notevolmente
l’opera e la statura dei primi re d’Italia. Qui cercheremo di
fare alcune riflessioni sui primi due, Vittorio Emanuele II e Umberto
I.
Il Gran Re
Vittorio Emanuele II fu
il re del trapasso dallo Stato patrimoniale allo Stato nazionale,
punto d’arrivo della rivoluzione borghese, un processo già
iniziato sotto Carlo Alberto. Egli comprese, cosa che non riuscirono
ad afferrare invece gli altri principi italiani, che per salvarsi
bisognava assecondare il processo in atto che, come portato dei tempi
nuovi, era irreversibile.
Costretta nei limiti
angusti di una economia regionale o provinciale e nell’ambito di
condizioni politiche anacronistiche, la borghesia già da tempo si
stava agitando al fine di raggiungere la completa autonomia e la
creazione di un mercato nazionale. Questo processo di
autoaffermazione, di presa di coscienza di sé in quanto classe, non
avvenne ovunque in maniera omogenea, facendo sì che in talune
regioni buona parte della borghesia si schierasse all’opposizione
democratica. Nel regno di Sardegna si verificarono invece le
condizioni ideali per la riuscita del processo risorgimentale: l’ala
più illuminata della classe dominante - «l’aristocrazia
imborghesita» secondo la felice espressione di Romeo - intuiva la
validità degli obiettivi della borghesia e si alleava con essa.
Vittorio Emanuele ebbe
quindi dalla sua la diversa condizione piemontese: la nuova classe
dirigente vedeva nella copertura della corona la garanzia di ordine e
stabilità che la situazione europea richiedeva e anche la garanzia
per se stessa che la rivoluzione non andasse oltre gli obiettivi
prefissati, l’indipendenza politica e la formazione di un mercato
nazionale. Vittorio Emanuele aiutando l’avvento della prima,
avrebbe in cambio regnato sul secondo.
Ma come in ogni accordo
di interesse, non tutto poteva filare liscio come l’olio né
potevano mancare i contrasti. Impensieriva la borghesia la
personalità stessa di Vittorio Emanuele, educato alla luce di «una
tradizione che profondava le sue radici nell’età dell’assolutismo
monarchico», e il fatto che considerasse la propria dignità di
origine divina, più che dovuta alla volontà della nazione. Né
poteva essere gradito a ministri e deputati borghesi il principio che
«i ministri passano, il Re resta» come ebbe a dichiarare il sovrano
medesimo nel ‘75. Si pensò dunque di fare del sovrano un
personaggio circonfuso di un’aureola leggendaria, di creargli,
ancora vivo, un mito, quello del re che regna ma non governa.
Ma la divisa di Re
Galantuomo e monarca costituzionale, ideata da D’Azeglio e fatta
indossare da Cavour, per quanto onorifica e splendida, per quanto
allettasse il suo desiderio di popolarità, stava stretta a Vittorio
Emanuele. Dare il proprio avallo alla rivoluzione non significava
infatti da parte sua lasciarsi trascinare passivamente. Due ordini di
considerazioni assai realistiche preoccupavano Vittorio Emanuele II.
La prima, di indole generale, minava le basi stesse sulle quali
poggiava il pactum foederis tra il sovrano e la borghesia: chi
poteva assicurare che l’interesse alla garanzia regia, e per di più
con quella dinastia e non con un’altra, fosse destinato a durare a
lungo? Precedenti nella recente storia d’Italia mancavano; gli
avvenimenti francesi insegnavano che la borghesia rivoluzionaria
sapeva scegliersi il re secondo i propri interessi e all’occorrenza
poteva anche fame a meno.
Vi era poi un altro
pericolo, più immediato: la macchina che il re stesso aveva
contribuito bene o male a mettere in movimento, lungi dal condurlo a
mete ambiziose, poteva portarlo a farsi travolgere dalla realtà dei
tempi ancora immaturi. Timori che emersero, ad esempio, in occasione
del celebre scontro con Cavour nel ‘59 in occasione dell’armistizio
di Villafranca: la prospettiva di un inserimento rivoluzionario della
monarchia di fronte all’Europa intera, mediante la guerra ad
oltranza all’Austria, metteva in forse la sopravvivenza stessa
della dinastia. Da qui l’importanza attribuita da Vittorio
Emanuele, nella migliore tradizione della politica assolutistica,
all’esercito e alla politica estera, dominio riservato al sovrano.
Nel momento culminante in
cui si compiva l’Unità d’Italia, incominciò a venir meno quella
certa compattezza di intenti che aveva caratterizzato l’azione
della classe dirigente durante le lotte risorgimentali: al suo
interno quei gruppi, che avevano accettato con riserve l’idea del
trapasso, si rivolsero al re nel quale vedevano la garanzia di una
continuità. Vivo ancora Cavour, Vittorio Emanuele, incoronandosi re
d’Italia, manteneva la numerazione della dinastia sabauda: segno
che qualcosa dell’antica concezione dello Stato patrimoniale era
rimasta.
Si può dire che con la
morte di Cavour, l’esperimento del «connubio» fosse
definitivamente concluso: non pochi elementi delle classi dirigenti
dei vecchi Stati preunitari vennero inseriti nella nuova maggioranza
moderata del Regno, per evitare sviluppi troppo rivoluzionari
del Risorgimento. Era soprattutto sul terreno degli interessi
economici che avveniva lo scontro fra le parti. L’Unità poteva
essere la condizione preliminare alla formazione di un mercato
nazionale: era necessario, tramite oculati provvedimenti e una serie
di infrastrutture (per esempio le ferrovie), che si rendessero
possibili le altre condizioni richieste dai tempi. In un’economia
capitalistica così carente la funzione di formare il capitale, da
una parte fu lasciata agli investimenti stranieri (in maggioranza
francesi), dall’altra fu attribuita allo Stato, il quale si
provvide soprattutto mediante le imposte. Ma per raggiungere tale
obiettivo bisognava che lo Stato fosse dotato di basi finanziarie
solide e ordinate, anche per garantire la continuità degli
investimenti stranieri.
Da una parte la Destra,
espressione degli agrari centro-settentrionali (Minghetti, Ricasoli)
e dei primi industriali del Nord (Sella), ricercava il pareggio del
bilancio mediante un inasprimento della pressione fiscale, voleva uno
Stato indipendente dagli interventi stranieri e al di sopra degli
interessi regionali, dall’altra, la Sinistra - in cui confluivano
gli interessi dei grandi agrari meridionali, colpiti dalla politica
tributaria della Destra, con quelli liberisti della piccola e media
borghesia - contrapponeva «il pareggio della nazione».
Fu in questo clima
agitato e teso seguente l’Unità che a Vittorio Emanuele II, in
cambio di quelle garanzie che solo la corona - morto Cavour - poteva
dare e che tutti le richiedevano, si offrirono maggiori spazi di
manovra, di cui egli si servì con spregiudicatezza, per
salvaguardarsi dall’eccessivo potere che questo o quel gruppo
cercava di consolidare.
Nel biennio ‘69-’70
il re intravide la possibilità, prima coinvolgendo l’Italia in
un’alleanza con Francia e Austria e poi schierandola in guerra a
fianco della sola Francia contro la Prussia, di risolvere il
prestigio della monarchia e contemporaneamente di impedire i gravi
tagli imposti al bilancio dell’esercito. Ma la politica estera
filofrancese del re, finora gradita alla borghesia italiana nel suo
complesso, trovò dei precisi limiti in quei suoi esponenti che
avevano sempre perseguito una politica di indipendenza dal capitale
straniero e che sapevano necessaria una politica di pace e di
economia per raggiungere il pareggio del bilancio. Se, a sconfitta
francese ormai avvenuta, Vittorio Emanuele fu pronto a recepire
l’indicazione venutagli dal Parlamento, nel chiamare al governo la
Sinistra, egli diede prova di avere compreso che la Destra, esaurito
il suo ciclo storico, non era più in grado di esprimere alcune
esigenze del paese e agì convinto di trovare tra gli uomini
dell’antico partito democratico collaboratori più docili e più
malleabili. Non si trattò di un calcolo del tutto errato, poiché la
Sinistra aveva bisogno del re per rafforzare al di fuori del
Parlamento le basi della propria maggioranza e per trovare un punto
di riferimento stabile al quale richiamarsi in momenti di instabilità
politica. In cambio, Depretis e soci erano disposti a subire le
ingerenze della corona, che speravano comunque di riuscire a
contenere.
Non era facile però
contenere Vittorio Emanuele nei limiti che lo statuto e la tradizione
parlamentare gli avevano imposto. Egli era troppo importante perché
uomini nuovi potessero prendere il sopravvento: lo stesso mito che
impacciava tanto il re, pesava anche sull’azione dei suoi ministri.
Inoltre, ulteriore motivo di imbarazzo, nel re si personificava la
soluzione moderata del Risorgimento dalla quale buona parte della
Sinistra era stata esclusa: era insomma il re della Destra, che ora
voleva regnare (e governare) con la Sinistra. A risolvere la spinosa
e complessa situazione intervenne, provvidenziale quanto improvvisa,
una polmonite. Vittorio Emanuele II moriva il 9 gennaio 1878.
Il Re Buono
La storiografia ha sempre
presentato re Umberto sotto una luce più scialba e dimessa del suo
predecessore. Se ne può generare l’equivoco di contrapporgli
Umberto. Ma le apparenze ingannano. Umberto ebbe in comune col padre
le medesime convinzioni: la stessa alta considerazione del proprio
grado, una profonda sfiducia nelle capacità della borghesia e nella
sua onestà di fronte all’alleanza che era stata all’origine
dello Stato nazionale. Di conseguenza era portato a considerare,
anch’egli, l’esercito e la politica estera come un dominio
riservato al sovrano. Eppure qualcosa con Umberto I cambiò,
soprattutto in relazione all’evoluzione storica.
La classe dirigente
dell’Italia post-Risorgimentale chiedeva alla monarchia di non
essere considerata come un fine, bensì un mezzo, uno strumento per
«servire gli interessi del popolo italiano». Sulle spalle di
Umberto venne gettato un manto di splendore, quel manto che i gusti
un po’ rozzi di Vittorio Emanuele II avevano sempre rifiutato:
feste e ricevimenti al Quirinale, inserimento dell’aristocrazia
degli Stati ormai scomparsi, ripetuti gesti di munificenza, e
soprattutto l’aiuto che veniva dalla Regina Margherita, che, in
poco tempo, con con la propria eleganza e i suoi salotti mondani e
letterari, conquistava al mito monarchico un po’ tutti, dal
semplice popolano al politico prestigioso, all’intellettuale di
moda.
Ma sotto il manto era
però necessaria una divisa che consentisse a lui, il re tanto in
alto, di tornare ad essere, rispetto ai comuni mortali, un utile
istrumento. Umberto venne presentato come un re democratico: «Non
sono io forse un Re democratico? La dinastia sarà democratica o avrà
finito di esistere», dichiarava pubblicamente Umberto a Firenze
pochi mesi dopo l’avvento al trono: e fu forse per dare espressione
concreta a queste parole che acquistò in seguito azioni di
cooperative bracciantili e operaie; quindi un sovrano politicamente
avanzato. In più si disse che era un esempio di coraggio: non tanto
il coraggio militare - benché la leggenda del comportamento eroico a
Custoza durò a lungo - quanto quello civile, che lo spinse a recarsi
«nel ventre di Napoli», infestata dall’epidemia di colera del
1884.
Ma soprattutto Umberto fu
il re «buono», e con questo appellativo passò alla storia. Colui
il quale non esitò nel ‘98 a concedere di propria spontanea
volontà una alta onorificenza al generale Bava Beccaris per aver
ucciso a cannonate quasi cento milanesi, diventò il Re Buono, che
preferiva, a suo dire, la canna da passeggio alla sciabola dei suoi
corazzieri e che elargiva a ogni piè sospinto generose beneficenze
ai bisognosi.
Per quanto si insistesse
sulla sua bontà (e Di Rudinì malignamente aggiungeva che era
ritenuto «buono... a nulla») Umberto non era poi così ben disposto
ad accettare un ruolo meramente coreografico o strumentale; nell’81
ad esempio tentò di imporre al Parlamento un ministero Sella e
determinare una sterzata a Destra. La manovra non riuscì: la
borghesia, che stava cercando un proprio difficile assestamento su
basi le più «allargate» possibili («trasformismo», riforma
elettorale), non poteva accettare un anacronistico ritorno al
passato, con una nuova probabile egemonia ristretta, addirittura
regionale (Piemonte). Cacciata con rispettosa fermezza dalla porta,
la politica personalistica del re rientrò l’anno seguente dalla
finestra... della politica estera: caldo sostenitore di un
riaccostamento agli Imperi centrali, Umberto vide nellaTriplice
Alleanza, un potente elemento di conservazione nei confronti della
politica interna. Per sua diretta ispirazione nel preambolo del
trattato è esplicitamente dichiarato che la sua natura è
«essenzialmente conservatrice» e suo fine precipuo è «di
rafforzare il principio monarchico e per mezzo di questo assicurare
il mantenimento intatto dell’ordine sociale e politico». La classe
dirigente non si oppose questa volta alla manovra del re che veniva a
consacrare, in forma di alta politica, il proprio interesse al
capitale tedesco, oltre che a riconoscere l’intangibilità del
sistema.
Sistemata la politica
estera, precluso ogni intervento diretto in politica interna, Umberto
era quindi libero di dedicarsi ad attività più direttamente
redditizie: potè così prendere anche egli parte all’euforia
generale di quegli anni, partecipando alle attività speculative,
legandosi sempre più, in prima persona o tramite membri della
famiglia ai gruppi affaristici più influenti.
Nel ‘93 ricorreva il
15mo anniversario dell'avvento al trono di Umberto: ma la ricorrenza
cadde in un anno particolarmente difficile. Lo scandalo della Banca
Romana era al culmine mentre si verificavano i Fasci Siciliani, i
moti in Lunigiana e c’era un continuo ripetersi di attentati
dinamitardi a Roma.
Al governo Umberto stesso
aveva voluto Giolitti, poiché dichiarava di non ritoccare le spese
militari. Ma la linea politica di Giolitti - con le sue richieste di
maggior giustizia sociale e di ristrutturazione del sistema fiscale,
con la volontà di contenere la spesa pubblica entro limiti
realistici - era l’espressione di una tendenza più moderna che
riuscirà ad imporsi dopo il ‘900, ma che per ora non poteva
riuscire gradita ai gruppi di pressione che appoggiavano e
condizionavano il re. A quest’ultimo, malgrado l’antipatia
personale, non rimase che rivolgersi a Crispi che s’impegnò
soprattutto in politica estera. La ripresa e il potenziamento,
sull’imitazione e a rimorchio della foga imperialistica delle
grandi potenze, dell’espansione coloniale in Africa non
rispondevano soltanto all’esigenza di creare un diversivo rispetto
alla grave situazione interna, bensì erano stati richiesti da quei
gruppi affaristici che avevano voluto e ottenuto l’allontanamento
di Giolitti e che ora contavano di ricavarne notevoli vantaggi sia
pure indiretti (ordinativi militari, appalti di lavori pubblici, noli
marittimi, ecc.).
Nel frattempo, però, la
situazione generale veniva nuovamente evolvendosi: per superare
definitivamente la crisi, di cui si incominciava a intravedere la
fine nel ‘95 e di cui già si avvertivano i primi effetti positivi,
era necessaria una politica di pace che abbandonasse l’avventurismo
e i sogni di grandezza. L’opposizione industriale si rafforzò
ulteriormente; i gruppi affaristici indeboliti notevolmente dal
terremoto bancario del ‘93-’94 non erano più in grado di
sostenere Crispi e la sua politica estera. La sconfitta di Adua servì
ad aprire gli occhi sulla inanità di un simile sforzo, privo di un
reale riscontro con le possibilità e le esigenze del paese. Il
clamore e la commozione che la disfatta suscitò nell’opinione
pubblica, offrirono una facile occasione agli oppositori di Crispi
per sbarazzarsi definitivamente di lui.
La borghesia si mostrava
sempre più inquieta: essa avvertiva che l’alleanza cominciava a
non rendere più, mentre intatti ne rimanevano il costo e gli
obblighi. Voci sempre più consistenti e meno isolate si levavano a
richiamare Umberto al suo senso di lealtà e di fedeltà ai propri
doveri istituzionali, mettendolo in guardia dai pericoli che potevano
venire alla stessa monarchia.
La morale o il succo di
queste minacce era semplice: una corona che si rifiuta o non è in
grado di farsi istrumento per servire gli interessi del popolo,
o per meglio dire della sua classe dirigente, e che non costituisce
nemmeno più quell’elemento di lusso a causa del discredito che si
è attirato, rappresenta un intralcio grave allo sviluppo armonico
del sistema, addirittura ne mette a repentaglio l’esistenza.
A questi elementi
inquieti, si contrapponevano, ispirati dall’alto, i conservatori,
che proclamavano la propria fedeltà fino all’estremo alla
monarchia, la lusingavano con suggestioni e prospettive di rinnovato
prestigio e che suggerivano la via del colpo di Stato. Non erano però
tempi adatti a simili imprese, dato lo scarso credito e la poca
autorità di cui godevano sia la corona che l’esercito. Fu Sonnino
a trovare la formula giusta, che ebbe immediatamente successo:
«Torniamo allo Statuto». Si trattava cioè di attuare un colpo di
Stato legalizzato dal Parlamento, eliminando tutte quelle
degenerazioni degli istituti, previsti dalla costituzione, ma
deformati irrimediabilmente da un lungo periodo di regime
parlamentare.
Spinto dalle suggestioni
reazionarie del suo grande amico Guglielmo II, di Margherita e dei
più fidi cortigiani, sostenuto politicamente solo dai settori più
retrogradi della borghesia italiana, Umberto era pronte a marciare
per la via indicata da Sonnino si trattava solo di attendere
l’occasione buona, che non tardò a presentarsi l’anno dopo a
mezza primavera. Lo spunto, com’è noto, fu dato dai tragici
avvenimenti di Milano che provocarono una reazione indiscriminata e
violentissima, quale non si era ancora vista nella pur tormentata
storia del Regno.
La frenesia repressiva
solo in apparenza nasceva da un irrazionale e esagerato fenomeno di
paura nei confronti di eventuali sconvolgimenti sociali, in realtà
obbedì va a un preciso disegno politico, che da una parte mirava a
riunire in un fronte comune antirivoluzionario i diversi gruppi della
borghesia, dall’altra intendeva infierire iu colpo definitivo a
tutta l’opposizione, particolarmente a quella socialista.
Conseguiti ambedue gli obiettivi, il piano proseguiva secondo
l’ordine prestabilito: cadut Di Rudinì, Umberto I poté finalmente
chiamare un generale, e per giunta piemontese, Luigi Pelloux, col
preciso mandato di trasformare, in nome del sovrano e con
l’approvazione del Parlamento, il regime parlamentare. Così
facendo, Umberto fu costretto a esporsi in prima persona, rinunciando
a quelle apparenze democratiche che erano servite a mascherare la sua
azione. Ma il processo di evoluzione verso un nuovo e più avanzato
assestamento della borghesia italiana iniziatosi nel ‘96, non
costituiva un fenomeno transitorio di cui si potesse invertire la
tendenza: esso mirava a investire e coinvolgere un sempre maggior
numero di settori e infrastrutture ai fini della loro eliminazione o
trasformazione, e per quanto Umberto impegnasse nel contrasto tutto
il peso e l’autorità della propria persona, ottenne solo di
ritardarne le conclusioni e influenzarne i risultati, ma non poté
impedirne l’avvento.
Umberto ormai non era più
che un sopravvissuto, il rappresentante di una politica battuta nella
sua prova estrema e di un’epoca ormai destinata al superamento.
Sempre più impellente si avvertiva la necessità di un ricambio al
vertice delle istituzioni: non ci fu questa volta una provvidenziale
polmonite, né ci fu tempo per pensare a soluzioni di ripiego
(abdicazione, luogotenenza, ecc). Il 29 luglio 1900 Umberto I moriva
a Monza per mano di Gaetano Bresci, il quale intendeva così
vendicare le non dimenticate vittime di Milano e la politica
reazionaria.
Da Lezioni di storia.
La fine dei Savoia, supplemento
al “manifesto” senza indicazione di data, ma primavera 1994.