Quello che segue è il
testo del mio intervento all'incontro di studio “Siate musica,
non statue” (Perugia, Archivio
di Stato, 21 aprile 2016) in occasione della pubblicazione del volume
di Aldo Capitini Un'alta passione, un'alta visione. Scritti
politici 1935-1968, a cura di
Lanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte Editore, 2016. È stato
pubblicato su “Il Ponte”. (S.L.L.)
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Aldo Capitini |
Aldo Capitini amava molto
la sua città sulla quale scrisse pagine appassionate. Vivo a Perugia
da 35 anni e non mi pare che la città abbia adeguatamente ricambiato
quest'amore - almeno la città ufficiale, la città che appare.
L'impressione è che nella vita di tutti i giorni essa abbia
dimenticato questa figura atipica di religioso senza chiesa e di
politico senza partito e che, quando - nei dì di festa - ne recupera
occasionalmente la memoria, da una parte lo beatifichi, dall'altra ne
fraintenda e sterilizzi il pensiero.
C'è qualche eccezione,
in verità. E non mi riferisco solo ai gruppi e ai singoli, non di
rado in polemica tra loro, che direttamente si richiamano
all'insegnamento del maestro; ma anche al Fondo Walter Binni o al
mensile “micropolis”, che – pur senza rivendicare alcuna
ortodossia (il che peraltro sarebbe l'esatto contrario della
“religione aperta” proclamata da Capitini) – in più occasioni
hanno sottolineato il valore internazionale di un'esperienza di
ricerca e di lotta maturata nella nostra provincia un po' isolata.
Gli scritti politici, recentemente raccolti, di Walter Binni, allievo
e sodale di Capitini in tante battaglie, come le testimonianze di
Maurizio Mori, che, giovanissimo, ne fu collaboratore al “Corriere
di Perugia” e nell'esperienza dei COS per poi orientarsi verso la
Quarta internazionale e il marxismo critico, hanno già da qualche
anno contribuito a demolire le deformazioni agiografiche di segno
moderato, un tempo assai in voga, e a far emergere il carattere
rivoluzionario della nonviolenza capitiniana.
Questa immagine forte e
combattiva del pacifista Capitini è confermata e consolidata dalla
pubblicazione di Un'alta passione, un'alta visione. Scritti
politici 1935-1968, la raccolta
curata da Lanfranco Binni e Marcello Rossi per le edizioni de
“Il Ponte”, un libro “necessario”, giacché restituisce la
parola a Capitini e favorisce un approccio alla sua concezione
politica non mediato, ma orientato da lui stesso. Attraverso due
terzi del secolo, il testo che
non casualmente apre la raccolta, è infatti una rigorosa
autobiografia intellettuale stilata nel 1968, ma per la morte
improvvisa e imprevedibile del suo autore in quello stesso anno, oggi
appare una sorta di testamento spirituale e una chiave utilissima per
la lettura delle opere.
Si intravede in tutti gli
scritti raccolti, dai pensieri sparsi contenuti nel Taccuino
del 1935-36 allo scritto incompiuto sull'Onnicrazia del 1968, un
nucleo di pensiero e di azione denso e compatto, in cui la dimensione
religiosa e spirituale, quella politica, quella etica, quella
educativa si connettono strettamente, non già in un “sistema”
definito una volta per tutte, ma in una ricerca a spirale nella quale
ogni tema viene ripreso a un livello più alto e più profondo con il
metodo dialogico, ascoltando l'altro e con lui relazionandosi,
attraverso quel TU che il pensatore perugino pone a fondamento di
ogni socialità. Capitini non amava i dogmi e gli irrigidimenti
dottrinari; e, di conseguenza, non amava le Chiese dogmatiche; lo
ribadì con nettezza e dolcezza proprio in quella che è forse la sua
ultima “lettera di religione”: “l'idea di un'ecclesia che
abbia la stessa ideologia ci sembra una vecchia idea, irrispettosa
della diversità che può sorgerci vicina ed essere migliore di noi”.
La
pubblicazione di questa raccolta è
un'occasione anche per la sua città: come dimostra questo convegno
ha già messo in movimento energie e intelligenze e ancora di più ne
metterà; ma è anche un'opportunità offerta alla sinistra in gran
parte sbandata e senza punti di riferimento dopo la sconfitta del
comunismo novecentesco e la caduta di tante illusioni riformistiche.
La Perugia democratica e civile che Capitini amava, la Perugia del 20
giugno, ha il dovere di farsi centro in questo impegno per restituire
alla cultura politica italiana e internazionale un pensiero forte,
un'esperienza esemplare. Registro come il direttore del Polo Museale
dell'Umbria si proponga una valorizzazione dei luoghi capitiniani, a
cominciare da quella torre campanaria di Palazzo dei Priori che ne fu
l'abitazione e che negli anni del fascismo divenne sede di
cospirazione democratica. Sento ragionare di una riedizione degli
scritti più importanti a cura della Fondazione e delle associazioni,
vedo come il lavoro svolto negli anni all'Archivio di Stato sulle
carte di Aldo Capitini, peraltro già amorosamente ordinate da Maria
Luisa Schippa, renda concreta la possibilità di un portale dedicato
al grande perugino, individuo segnali di interesse nelle Università
cittadine e nelle scuole secondarie della regione. È un momento
importante. È giunto il tempo di riaprire i libri, le carte, i
verbali e le lettere di Capitini per metterle a disposizione delle
nuove generazioni. Penso a un gruppo di studiosi, in prevalenza
giovani, in collaborazione tra loro, che nelle istituzioni e fuori di
esse lavorino ad elaborare un “lessico
capitiniano”, a
decostruire e ricostruire il suo pensiero intorno ad alcune parole
chiave, 15-20 al massimo: per esempio religione,
potere e potenza,
violenza/nonviolenza,
compresenza,
aperto/chiuso,
socialismo, libertà,
chiesa, centro,
rivoluzione. Vorrei
che la riflessione investa anche termini più specifici, di valenza
più limitata, ma in vari modi caratteristici del pensiero
capitiniano nei suoi diversi momenti, un centinaio al massimo e tra
questi moltitudine,
sciopero, straniero,
frontiera, gruppo,
cooperativa,
contestazione.
Quanto
a me vorrei solo comunicare qualche suggestione nata dalla lettura
degli Scritti politici.
La
prima riguarda il termine “Rivoluzione”.
Sull'argomento
il testo chiave di Capitini mi sembra essere Rivoluzione
aperta,
un saggio pubblicato per la prima volta nel 1956 presso l'editore
Parenti e dichiaratamente ispirato all'esperienza che Danilo Dolci
stava sviluppando in Sicilia, costruendo dei centri di iniziativa
sociale. Testo di battaglia dunque, di risposta alla offensiva
mafiosa e conservatrice contro il lavoro di un uomo che da solo,
senza nessun incarico e nessuna uniforme, a Trappeto e a Partinico
aveva messo in movimento contadini e pescatori per grandi obiettivi
di giustizia sociale; ma anche testo teorico, teoria inseparabile
dalla prassi, dall'esperienza. Sulla rivoluzione così
Capitini si esprime: “Noi non dobbiamo avere paura di questa
parola, anzi ci diciamo senz'altro rivoluzionari, proprio perché non
possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono,
con il male, che è anche sociale, ed è l'oppressione, lo
sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le
leggi ingiuste. Rivoluzione vuol dire cambiamento di tutte queste
cose, liberazione, rinascita come persone liberate e unite”. E poi:
“la storia deve mutare
(il corsivo è di Capitini) […] la nostra rivoluzione, oggi qui e
subito, ha qualche cosa di diverso, perché è fatta con l'animo di
tutti, con l'animo nostro unito a tutti anche se non ci sono accanto,
è rivoluzione con tutti e per tutti”.
Userò
come pietra di paragone per la proposta di Aldo Capitini un testo
importante scritto qualche anno dopo, il
libro di Hannah Arendt Sulla Rivoluzione
(la prima edizione americana è del 1963, quella definitiva del 1965;
la prima traduzione italiana del 1980, per le Edizioni di Comunità).
È un'opera della filosofa americana di origine ebreo-tedesca molto
meno citata del celebre opuscolo sulla banalità del male o delle
Origini del totalitarismo,
il cui intento dichiarato è una ricognizione teorica, storica,
fenomenologica sulla rivoluzione come tentativo di rifondare la
politica e la vita. Hobsbawm
la giudicava assai “poetica”, il che a me sembra una lode, non
una stroncatura come è sembrato ad altri. Il libro mostra sempre
rispetto, talora simpatia per le esperienze rivoluzionarie sia
democratiche che socialiste, ma il bilancio che traccia sulla
tradizione rivoluzionaria risulta complessivamente negativo. Anche
Capitini in più di un'occasione prende le distanze dai maestri di
rivoluzione degli ultimi due secoli, Robespierre, Marx, Lenin, Mao, e
per ragioni non dissimili: la violenza che tutto guasta, il prevalere
del determinismo economico che riconduce la rivoluzione dal regno
della libertà a quello della necessità. Non escludo che la Arendt,
il cui interesse per i temi della non-violenza e della disobbedienza
civile (a cui dedicherà un libro) risale agli anni 50 del Novecento,
conosca sia pure indirettamente l'elaborazione di Capitini. C'è
peraltro in Capitini e in Arendt una sostanziale consonanza nella
interpretazione del concetto di rivoluzione: l'uno e l'altra
valorizzano l'idea di “nuovo inizio”, di fondazione di un nuovo
ordinamento sociale e civile rispetto a quella, più vulgata, di
sovvertimento violento dell'ordine costituito. La differenza maggiore
riguarda semmai i compiti della Rivoluzione, che per la Arendt
avrebbero dovuto e dovrebbero esaurirsi nella fondazione di nuove
istituzioni politiche capaci di restituire alle comunità umane le
pubbliche libertà dell'antica polis greca; mentre per Capitini vanno
assai oltre e comportano una liberazione “totale e corale”,
civile, economica, etica e religiosa, che non si esaurisce, ma resta
aperta, e in cui è fondamentale l'esperienza diretta della
liberazione, fondata sulla non-menzogna, la non-collaborazione con il
potere oppressivo, la non-violenza.
Un
posto speciale ha nel libro della Arendt quello che ripetutamente
definisce il “tesoro perduto” della Rivoluzione, la conquista
forse più effimera nella sua efficacia attuale, ma nondimeno più
preziosa e solida nel suo significato libertario: la pratica e
l’istituzione di quelle forme di potere dal basso che, con nomi
diversi (Comuni, Soviet, Rate), ma con funzioni sostanzialmente
identiche, sono emerse in tutti i processi rivoluzionari ad esprimere
l’accesso al “cielo della politica” di strati popolari, a
sostanziare un processo di diffusione delle libertà pubbliche, che
va molto al di là della cerchia dei “già liberi”. Anche in
questo Capitini sembra anticipare l'elaborazione della grande
intellettuale emigrata nel Nuovo Mondo: chiave della sua rivoluzione
sono quelli che chiama COS, i Centri di Orientamento Sociale, luogo
del dialogo, della socialità, del potere di tutti. Non si tratta
tanto di una escogitazione intellettuale, di una intuizione teorica,
quanto di una pratica coltivata con pazienza rivoluzionaria in Umbria
e in Toscana negli anni del dopoguerra, che Capitini mette in prima
linea nel suo progetto di rivoluzione. Quando nel 1963 pubblicherà
il suo sintetico “manifesto” Per una corrente
rivoluzionaria nonviolenta tra i
primi obiettivi indicherà “la rapida costituzione di centri di
orientamento sociale aperti, in periodiche riunioni, a tutti e alla
discussione di tutti i problemi della vita pubblica”.
In
questi centri presenti anche e soprattutto nelle periferie Capitini
vede il realizzarsi ed il progressivo articolarsi nel reciproco
legame federativo di un potere dal basso, che è in primo luogo
controllo dei poteri costituiti, ma è anche progettazione di
progresso, in grado di condizionare e di orientare anche la politica
ufficiale, i governi e i parlamenti elettivi. Nell'ultima pagina del
saggio sull'“onnicrazia” (il potere di tutti), pubblicato
postumo, addirittura scrive di “due fasi del potere: la prima fase
è senza governo, ma è già un potere largo e complesso, da
articolare instancabilmente, è rivoluzione permanente”.
Su
una elaborazione così ricca e complessa pesa un pregiudizio analogo
a quello visto all'opera nei confronti della Arendt: Capitini è
poeta, profeta, ma nulla sa della politica reale, della politica
politicante, che è di necessità “sangue e merda”.
Non
mi pare che sia così. A me sembra che nella vicenda di Aldo Capitini
sia possibile rintracciare molta più politica di quanta non ve ne
sia nei suoi critici “politicisti”. In verità non mancò in lui
né attenzione né comprensione per quanto si muoveva tra i partiti,
in parlamento, nelle assemblee elettive, nei movimenti politici di
massa. Allo strumento partito preferì sempre l'azione diretta di
minoranze attive, di piccoli gruppi, di singoli, ma non scoraggiò la
partecipazione ad esperienze di politica partitica di amici,
compagni, allievi.
Capitini
dopo la liberazione dal fascismo combatté il potere democristiano
che si andava affermando: vedeva operanti al suo interno elementi di
conservazione e restaurazione e ne temeva la contiguità con la
“religione di Pio XII” e con la sua chiesa, nella quale scorgeva
pratiche fortemente illiberali e contro cui combatteva battaglie
importanti in nome della laicità delle pubbliche istituzioni e della
scuola. Ebbe ammirazione e rispetto per il mondo comunista, per le
energie di liberazione che il Pci animava nelle moltitudini, tra le
classi operaie e tra i contadini, ma nutrì una fondata diffidenza
verso l'autoritarismo, il dogmatismo, il conformismo che
caratterizzarono spesso l'azione del partito comunista durante il
periodo staliniano e anche oltre. Vide, peraltro, subito i
moderatismi e le subalternità presenti nell'azionismo dei La Malfa e
dello stesso Calogero e optò per un liberalsocialismo pienamente
socialista. Le sue simpatie prevalenti dunque, specie dopo la fine
del Partito d'Azione, andarono verso il movimento socialista e i suoi
partiti.
All'inizio
del 1948, benché alcuni dei suoi amici più cari (Binni e Codignola,
per esempio) avessero fatto scelte diverse, più caratterizzate
dall'autonomismo socialista, Capitini si dichiarò favorevole alla
costituzione del Fronte democratico popolare, che s'apprestava a
raccogliere in unica lista per le elezioni politiche il Pci di
Togliatti, il Psi di Nenni e Morandi e alcune personalità
indipendenti. Negli Scritti politici sono
due testi a rappresentare questa fase: il primo reclama l'inserimento
nel programma del Fronte di libere assemblee popolari sul modello dei
COS, il secondo, pubblicato su “Italia socialista”, dopo la
partecipazione di Capitini all'assemblea di lancio del Fronte,
svoltasi al Planetario il 28 gennaio, ne vorrebbe una strutturazione
dal basso, come comunità aperta che supera i vincoli partitici “con
le conseguenze assolutistiche, funzionaristiche”.
Questo
tentativo di dotare l'alleanza di sinistra di strumenti autonomi, non
partitici, segnala una contiguità forse inaspettata, ma – a mio
avviso – molto significativa. Qualche giorno prima del Convegno del
Planetario, il 21 gennaio, al XXVI Congresso Nazionale del Psi aveva
svolto il suo intervento Raniero Panzieri, un giovane studioso di
filosofia, che Nenni salutava nei suoi diari come uno degli elementi
più giovani messi in valore dal dibattito (vedi Raniero Panzieri,
L'alternativa socialista,
Scritti scelti 1944-1956,
Einaudi, 1982): secondo lui gli organismi di base del fronte erano
“le cellule embrionali di una società nuova” e in quanto tali
cooperavano al superamento della democrazia formale.
Capitini
e Panzieri sicuramente ebbero tra loro dei rapporti, specie nel
periodo tra il 1953 e il 1957, quando il secondo svolse ruoli di
primo piano nel Psi nazionale, ma non risultano manifestazioni di
reciproca simpatia. I loro nomi, in ogni caso, possono essere
accostati in più di una circostanza anche dopo quel fatidico
Quarantotto, nonostante le evidenti differenze tra “il potere di
tutti” e il classismo del dirigente socialista, considerato il
capostipite dell'operaismo. Non mi pare mera coincidenza un Capitini
che nel 1963 incoraggia la ricerca sugli immigrati meridionali a
Torino di Goffredo Fofi, uno dei suoi allievi, già sodale in Sicilia
di Danilo Dolci, purché sia un aiuto al fare, non un alibi al non
fare, e un Panzieri che viene licenziato dalla Einaudi, ove curava
alcune collane, proprio perché vuole a ogni costo pubblicare
quell'inchiesta scomoda.
In
un testo firmato insieme a Lucio Libertini nel 1958, le Sette
tesi sul controllo operaio, Panzieri
rivendicò sulla programmazione
economica un controllo operaio dal basso che si fa potere, orientando
le decisioni di governo e parlamento; parlò – riprendendo una
formula usata da Lenin nelle Tesi di aprile (1917)
– di “dualismo di potere”. Solo che in Lenin il dualismo tra i
“governi provvisori” insediatisi in Russia dopo la “Rivoluzione
di febbraio” e i soviet appariva frutto di un equilibrio
provvisorio, da superare in tempi brevi, mentre la compresenza tra
Parlamento e governo da una parte e controllo operaio dall'altra è
per Panzieri destinata a durare nel tempo.
Lo
stesso concetto, in forma perfino più radicale, si ritrova in tanti
scritti nel Capitini di quegli stessi anni. Ecco per esempio cosa si
può leggere a proposito della programmazione nel già citato
manifesto Per una corrente rivoluzionaria non violenta:
“A coloro che obiettassero che la pianificazione economica sociale
di uno stato moderno non può che essere centralistica e autoritaria,
rispondiamo che la pianificazione può e deve essere accompagnata
dall'esistenza di organi popolari che ne rendano possibile la
preparazione, il controllo della esecuzione, la revisione. Questi
organi sono l'unica garanzia che l'autoritarismo della pianificazione
non si trasferisca nell'autoritarismo di tutto l'apparato statale,
come ha dimostrato l'esperienza sovietica. Questi organi, infatti,
continuando l'azione già svolta nella situazione di economia
privatistica dai consigli dei lavoratori, dovranno svilupparsi fino a
diventare i protagonisti del mondo produttivo socialista nei due
settori pubblico e cooperativo di autogestione”.
Infine
quando, a Torino nei primi anni 60, Raniero Panzieri, è promotore
dei “Quaderni rossi”, ma ormai deliberatamente fuori dalla vita
dei partiti, alle sollecitazioni perché “rientri in politica”
reagirà con parole che ricordano quelle di Capitini sulle minoranze
attive, sui piccoli gruppi capaci di lavorare molto più in
profondità dei partiti verso il cambiamento. È la conferma di una
contiguità che non va sopravvalutata, ma neanche sottovalutata; i
critici ortodossi, in ogni caso, usano per l'uno e per l'altro gli
stessi accenti, le stesse accuse: “intellettualismo”,
“astrattismo”, “minoritarismo”, eccetera.
Sono
questi due esempi nel Novecento italiano di maestri controversi, di
eretici che apparivano ai margini del corso principale della storia.
Ce ne sono altri. Penso a Leonardo Sciascia, Franco Fortini, Walter
Binni, Mario Mineo, Edoarda Masi, Sebastiano Timpanaro. Altri
farebbero altri nomi, di sicuro altrettanto importanti o forse di
più, di intellettuali e politici molto diversi da questi e tra loro.
Non sono molti, comunque, e sono proprio quelli che possono aiutarci
a riprendere i percorsi dell'uguaglianza, della libertà di tutti e
per tutti che appaiono interrotti. A Perugia abbiamo una grande
opportunità, cominciare da Capitini. Non sprechiamola.
“Il
Ponte”, Anno LXXII n. 6 – Giugno 2016