I corvi sentono l'acqua e la chiamano:
- Qua! Qua! acqua! acqua!
Se alto nel cielo passa il triangolo delle gru, e una avanti che fa strada, l'acqua è appresso.
Da Almanacco del popolo siciliano in Mimi ed altre cose, Vallecchi, 1946
Politica,storia,letteratura e varia umanità. Pezzi vecchi e nuovi d'ogni provenienza. Ogni lunedì una poesia. Borghesi e reazionari, pretonzoli e codini, reggicode e reggisacchi, ruffiani e pecoroni, tremate!
30.4.14
I corvi e le gru (Francesco Lanza)
Cinquemani e un orecchio (f.d.b.)
A firma f.d.m. e con
titolo lievemente diverso («L'orecchio a Cinquemani non l'ho
morso né staccato io») l'articolo è stato pubblicato sulla
prima delle pagine di cronaca dell'edizione agrigentina di un
quotidiano catanese. Non mi pare il caso di aggiungere commenti.
(S.L.L.)
Il giudice Francesco Pizzo durante un'udienza del Tribunale di Agrigento |
«Io non ho staccato
l'orecchio ad alcuno, non so chi sia stato, sono stato chiamato dopo
due mesi dai carabinieri per qualcosa che non ho mai compiuto».
Davide Dispensa di 34 anni, imputato per lesioni aggravate a danno
del concittadino Luca Cinquemani ieri mattina dinanzi al Tribunale si
è difeso - è proprio il caso di dirlo - «con i denti», rispetto
all'accusa della parte civile e della Procura.
Dispensa nell'agosto
2009 venne denunciato perché nei pressi di un locale di San Leone il
«Big Mamas» sarebbe stato autore di un presunto atto di quasi
cannibalismo. Secondo quanto raccontato dalla parte lesa, Dispensa
avrebbe puntato Cinquemani (trasferitosi dopo il fattaccio con la
famiglia a Trento) reo - secondo lui - di averlo guardato in un modo
ritenuto lesivo, facendolo reagire in maniera violenta.
Sempre secondo l'accusa,
Dispensa avrebbe aggredito, Cinquemani tanto da farlo cadere, non
prima di avergli staccato con un morso un pezzo di lobo di un
orecchio, sputandoglielo addosso. La difesa dell'imputato -
rappresentato dall'avvocato Monica Malogioglio - ha sempre
evidenziato come non sia mai stato provato il riconoscimento da parte
di Cinquemani del proprio vero aggressore. Ieri hanno deposto il
medico Drago il quale ha confermato come Cinquemani abbia riportato
lesioni estetiche moderato-gravi. Il collegio giudicante (Pizzo
presidente, a latere Marfia e Ricotta) - su richiesta della procura e
della parte civile ha deciso di citare la psicologa trentina Laura
Dondé per la prossima udienza del 19 giugno.
Il protagonista
dell'udienza è stato però l'imputato, il quale ha tracciato uno
scenario opposto a quello che gli viene addebitato. «Con Cinquemani
ci conoscevamo da anni. Nel 2005 ebbi un incidente in moto con sua
sorella. Loro dopo qualche tempo volevano risarcito il danno, ma io
non risarcii niente perché lei aveva torto».
Poi il fatto: «Ero
con mia moglie e amici, quando abbiamo notato urla e una rissa dal
Big Mamas di San Leone. Ci siamo avvicinati e a un tratto Cinquemani
mi ha sferrato una gomitata. Volevo reaggire, ma mia moglie e un
amico mi hanno tirato via e ce ne siamo andati. Dopo 2 mesi mi hanno
chiamato i carabinieri dicendomi che avevo una bella dentatura, ma
non capii a cosa si riferissero. Ancora oggi non capisco cosa voglia
da me Cinquemani. Perché non mi ha denunciato subito, se davvero gli
avessi staccato l'orecchio? » ha chiosato Dispensa.
A ruota le dichiarazioni
di Francesco Prinzivalli, teste a difesa.
“La Sicilia”,
martedì, 29 aprile 2014
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Il papa polacco (Agostino Spataro)
Puntodue.it è un sito
canicattinese animato da Vincenzo (Vicio) Sena, uno dei pilastri
della democrazia e della cultura di base in quella famigerata
cittadina fin dai tempi del Cineforum. Nei giorni scorsi il sito ha
diffuso un brano da un recente libro (I giardini della nobile brigata) di Agostino Spataro, ex dirigente e deputato comunista dell'agrigentino.
Contribuisco anch'io – nel mio piccolo – alla circolazione del
pezzo, breve e sugoso, dotato di un finale fulminante. (S.L.L.)
Ormai dovrebbe essere
chiaro, anche ai semplici che hanno esultato, che l’elezione del
“Papa polacco” è avvenuta con l’intento di assegnare al
Vaticano il ruolo di “spalla” al progetto neo liberista di
globalizzazione dell’economia, di regressione culturale e sociale,
portato avanti dalla coppia Reagan- Tachter.
Ruolo, probabilmente,
rifiutato da Giovanni Paolo I, l’onesto Papa Luciani, la cui
(molto) sorprendente morte spianò la strada all’avvento di
Giovanni Paolo II.
A conti fatti, il Papa
polacco si è rivelato una grave disdetta per l’umanità più
povera e la più grande “fortuna” per i
padroni ai quali ha spianato la strada della globalizzazione
economica.
Egli è stato un
formidabile globetrotter, non c’è dubbio. Ha incontrato milioni
di persone. Però è stato molto selettivo perfino nei saluti. Sapeva
distinguere e distingueva.
A Managua rifiutò
l’omaggio deferente del prete-ministro della rivoluzione
sandinista. A Santiago del Cile, invece, non disdegnò di
affacciarsi, sorridente, con il dittatore Augusto Pinochet, dal
balcone della “Moneda” a salutare la folla. Dimenticando che in
quello stesso palazzo, violato e bombardato dai golpisti di Pinochet,
fu assassinato il presidente legittimo Salvador Allende.
Il sangue dei giusti,
presto lavato e dimenticato.
Santo subito! Prima che qualcuno se ne accorga.
Santo subito! Prima che qualcuno se ne accorga.
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La nicosiana (Francesco Lanza)
La nicosiana, che è che non è, se la
fece col compare; e tutte intorno a domandarle: - O come fu, comare? Insegnatelo a noi,
che non siam pratiche.
E quella: - Lo volete sapere? Venne il compare e
si mise a toccarmi, e io lo lasciai fare dicendo: - vediamo che vuol
fare il compare. - Poi tutta mi baciava e mungeva, e io dicendo: -
vediamo che vuol fare il compare. - Poi cominciò a spogliarmi e ci
coricammo insieme nel letto, e io: - vediamo che vuol fare il
compare. - Poi mi montò addosso, e fece quel che giusto gli parve; e
quando finì io finalmente ne fui accorta, e gli domandai spaventata:
- O che avete fatto, compare ? - E lui: - E che ne so io? Ho voluto
sentire come eravate di sapore: e siete più dolce della pasta di
casa, e me ne congratulo con vostro marito.
dai Mimi siciliani, Brancato 2001
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E' dolce nella sete... Una poesia di Asclepiade (III secolo a. C.)
Al centro, quasi a disegnare un cerchio, la costellazione della "Corona Borealis", grecamente Stéfanos |
E' dolce nella sete dell'estate
bagnare le labbra con la neve,
e dolce ai naviganti rivedere
al cessare dei freddi la Corona
di stelle che ci annunzia primavera.
Ma più dolce è vedere sotto un solo
lenzuolo due ragazzi innamorati
a celebrare Venere di Cipro.
Da Antologia Palatina, V, 168 - Traduzione Salvatore Lo Leggio
Commento
Da vecchi - e abbiamo ragione di credere che Asclepiade lo fosse al tempo di questo epigramma - ci si contenta di guardare, immaginare, ricordare.
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29.4.14
I rasoi automatici (Karl Kraus)
13 maggio 1909
I rasoi automatici
consentono all'uomo di avere un viso liscio senza che sia toccato da
mani estranee: ma in tal modo l'uomo perde quella eccitazione
intellettuale che, fino alla scoperta dei rasoi automatici, il
barbiere gli offriva. La maggior parte degli uomini, da quando hanno
acquistato questo aggeggio, stanno nella più nera desolazione. Non
conoscono più barzellette, non hanno più opinioni politiche, non
sanno se fa bel tempo, non vengono a sapere che il dottor Maier, quel
signore grasso che si fa sempre lavare i capelli, si è sposato. Per
farla breve, stanno davanti allo specchio con il rasoio in mano e
hanno un vuoto interiore. Cessano di esistere.
Che differenza con il
passato, quando il modo ancora personale di radersi provvedeva a
rallegrare lo spirito! Che spettacolo si presentava ai miei occhi
quando entravo in una bottega di barbiere! Ecco un signore
apparentemente altolocato che si curvò sul lavandino ansimando e
sbuffando per l'umido piacere che provava. Ebbe ancora la presenza di
spirito di asserire: «È di un Bismarck che abbiamo bisogno!».
Il garzone al quale erano
rivolte queste parole, annui e cominciò a parlare delle abitudini di
un ministro austriaco che aveva l'onore di servire. «Ma che mi dice:
con la pomata?», ribatté il cliente sbalordito, e così, una parola
dopo l'altra, la bottega si riempì del germe della fecondazione
spirituale, e una risata generale proveniente da quattro poltrone
dimostrò che il ponte fra i conflitti di classe lo gettava
l'umorismo. La macchinetta ha eliminato questa fortuna, e ora
qualcuno sbadiglia di fronte a uno specchio in cui non vede altro che
la sua faccia.
In Aforismi in forma
di diario, Traduzione e cura di
Paola Sorge, Newton Compton, 1993
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"La Repubblica" e il Quirinale (S.L.L.)
“La Repubblica” di
oggi spara in prima pagina come “Berlusconi-show” l'accusa a
Napolitano di aver negato la grazia.
Il quotidiano di Mauro,
Scalfari e De Benedetti - ovviamente – nei giorni scorsi ha
censurato e nascosto (e tuttora censura e nasconde) le accuse più
gravi che il cavaliere caduto da cavallo ha rivolto a Napolitano,
quando era ospite da Vespa: 1) di aver organizzato la "congiura"
di Fini promettendo a costui il premierato (B. ha detto di aver 12
testimoni che hanno sentito, registrata, la promessa telefonica di
Napisan); 2) di aver cospirato con non si sa quali ambienti
finanziari per costringerlo alle dimissioni attraverso la pressione
sul debito pubblico italiano (e di avere poi collocato al suo posto
Monti, un premier al servizio dei tedeschi).
Queste accuse – a
maggior ragione – sono state ignorate dagli “ambienti del
Quirinale” e dal “Quirinale” stesso, che in genere, per molto
meno, reagisce stizzito in ogni suo mattone.
In verità la mancata
grazia è un'accusa ridicolizzabile perfino dai granatieri di quel
palazzo romano, le altre accuse - certo stravaganti se lanciate da un
uomo politico che poi ha rieletto Napolitano tra squilli di trombe -
richiederebbero comunque una riflessione sul ruolo del trasformista
partenopeo in molti recenti passaggi della storia politica su cui si
preferisce stendere un velo pietoso.
28.4.14
L'Italia che frana. La questione territoriale (Piero Bevilacqua)
Sui giornali toscani del
7 marzo 2014 si leggeva: “Il presidente della Regione Toscana,
Enrico Rossi, questa mattina è tornato a occuparsi di dissesto
idrogeologico con un sopralluogo sulla frana di Panicaglia, a Borgo
San Lorenzo, durante la tappa mugellana del suo viaggio in
Toscana: «Non
possiamo sopportare che la Toscana abbia strade franate o ponti
divelti dalla furia delle acque come è accaduto nel senese». È
stata l’ennesima occasione per stendere un triste bilancio
dell’emergenza perenne che interessa il territorio toscano: quella
del dissesto idrogeologico. Ad oggi, ricordano dalla Regione, sono
150 le frane censite in Toscana”. Il mese prima, nella stessa
regione la frana di Roccalbegna, nel grossetano, aveva spaccato in
due una comunità, con gravissimi danni economici.
L'articolo che segue è
vecchio, del novembre 2011, e trovava occasione nei disastri di
quella stagione, affronta il tema in termini generali. I fatti
dimostrano che quella materia resta attualissima. Credo che se ne
dovrebbe parlare nella campagna elettorale europea in corso di
svolgimento, come in quelle di molti Comuni. Ma sono certo che non si
farà. Ho il sospetto che al ceto politico non dispiacciano le
“emergenze”: non dico che le procurino appositamente, ma se
capitano sono contenti, perché gli interventi per le emergenze si
fanno con più discrezionalità e meno controlli nella spesa.
(S.L.L.)
Roccalbegna (Gr) |
Chi, ormai da decenni,
studia la storia del territorio italiano, di fronte alle frane e ai
morti delle Cinque terre e ora al disastro di Genova, oltre al dolore
per le vittime prova oggi uno scoramento profondo. La voglia di non
dire nulla, il senso dell’inutilità di scrivere e protestare. Chi
scrive è troppe volte dovuto intervenire per commentare simili
tragedie, tentando di mostrare le cause morfologiche e storiche che
sono normalmente all’origine delle cosiddette calamità naturali
nel nostro Paese. E, per la verità, lo ha fatto insieme a voci
sempre più numerose e agguerrite di geologi, meteorologi, esperti.
Tutto invano. E nell’ultimo ventennio più invano che mai,
considerata la qualità intellettuale e morale del ceto politico di
governo che ci è capitato in sorte e che del territorio italiano si
è occupato per darlo in pasto agli appetiti speculativi.
Tuttavia, l’obbligo di
contribuire alla riflessione collettiva su fatti così gravi finisce
col vincere sul senso di frustrazione. Senza l’ostinazione e la
tenacia, d’altronde, la lotta politica, specie per chi sì è
ritagliato una piccola frontiera di critica e di opposizione, non
sarebbe neppure concepibile. Oggi, di fronte agli eventi catastrofici
che si susseguono, bisogna denunciare con chiarezza l’emergere di
una grave questione territoriale in Italia. Non si tratta di una
novità assoluta, le vicende del territorio hanno un corso lento,
lasciano il tempo per essere osservate, ma essa oggi si presenta con
caratteri assolutamente nitidi e drammatici per un insieme di
ragioni. Mettiamo da parte, per brevità, la Pianura Padana, che ha
problemi particolari, ma che ospita, ricordiamolo, il più complesso
sistema idrografico d’Europa, essendo il ricettacolo dei grandi
fiumi alpini.Si tratta dell’area più stabile del nostro Paese,
eppure, anch’essa, è percorsa da sistemi di forze che possono
assumere carattere distruttivo in caso di eventi climatici estremi.
Il problema principale si
chiama Appennino. La dorsale montuosa con i suoi innumerevoli corsi
d’acqua e gli ingenti materiali d’erosione che trascina
incessantemente a valle. Un tempo, la centralità dell’Appennino
nell’equilibrio complessivo della penisola era chiaro anche agli
uomini politici, quando questi possedevano un proprio profilo
culturale oltre al curriculum politico. Meuccio Ruini, ad esempio,
che fu anche presidente del Senato, ricordava nel lontano 1919, come
«contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni
storiche, ogni cosa insomma dell’Italia peninsulare è
signoreggiata dall’Appennino e ne riceve l’impronta». Ora, è
noto da tempo, l’Appennino è in stato di abbandono. Ma soprattutto
in condizioni di abbandono si trovano le terre pedemontane e
collinari interne, quelle che per secoli sono state presidiate dalle
abitazioni contadine, che sono state tenute sotto manutenzione dal
lavoro quotidiano degli agricoltori. Una delle ragioni della
diffusione e della durata storica della mezzadria nell’Italia di
mezzo (soprattutto Toscana, Marche, Umbria) che dal medioevo è
arrivata sino alla seconda metà del ’900, è legata al fatto che
essa prevedeva l’insediamento della famiglia mezzadrile nel fondo,
impegnata a governare
un territorio instabile.
Ora, anche questo è
noto, da tempo le colline mezzadrili sono state abbandonate, o sono
coltivate industrialmente, con poche macchine e senza uomini. Tale
situazione, nota da tempo ai pochi esperti e appassionati della
materia, conosce oggi un aggravamento dovuto a più fattori
evolutivi. Da una parte, il progressivo, ulteriore abbandono
dell’agricoltura da parte dei piccoli coltivatori che non ce la
fanno a reggere i bassi prezzi con cui viene remunerata la loro
impresa. Un fenomeno a cui gli economisti agrari di solito plaudono,
perché il modello competitivo – nel pensiero economico astratto -
è naturalmente la grande azienda, senza alcuna considerazione di ciò
che accade al territorio, quando scompare un presidio. Di norma,
quando la piccola impresa non è accorpata a una azienda più ampia,
il terreno viene progressivamente invaso dalla vegetazione spontanea.
Negli ultimi anni,
tuttavia, a tale fenomeno si è aggiunto un sempre più largo uso
edificatorio del suolo. Il cemento ha preso il posto degli ulivi o
degli alberi da frutto. I comuni hanno fatto cassa svendendo il loro
territorio.
Nel frattempo il circolo
vizioso demografico si è venuto sempre più accelerando. Se si
abbandonano le aree interne tutto tende a gravitare nelle zone di
pianura, che nella Penisola solo prevalentemente le aree costiere.
Qui oggi si accentra oltre il 66% della popolazione peninsulare. E
qui sono insediati
industrie, servizi,
infrastrutture, la ricchezza materiale italiana. Ma anche qui, negli
ultimi devastanti decenni dei governi di centrodestra (e nella
pochezza e brevità di quelli di centrosinistra) si è continuato a
cementificare con furia da “accumulazione originaria” cinese.
Ora, l’ultimo elemento che completa il quadro riguarda la frequenza
degli eventi estremi, vale a dire, nel nostro caso, la straripante
quantità d’acqua che oggi cade in poco tempo in delimitate aree
territoriali. Si tratta di un fenomeno dipendente dal riscaldamento
globale, che il climatologo inglese John Houghton, definì, nel 1994,
come «frequenza e intensità di eccessi meteorologici e climatici».
Dunque, come in questi
ultimi anni, le piogge tenderanno in futuro a presentarsi sempre più
come eventi particolarmente intensi. E le acque, dalle colline
abbandonate o cementificate, mal regimate, precipiteranno lungo le
pianure costiere dove il verde – la spugna che un tempo assorbiva
le piogge – è diventato sempre più raro, impermeabilizzato da
chilometri quadrati di cemento.
Che cosa possiamo
aspettarci? Davvero pensiamo di affrontare tale gigantesca questione
organizzando meglio la protezione civile? Rendendo più efficaci i
sistemi di allarme? È evidente che qui ci si presenta una sfida che
è anche una grande opportunità per il nostro Paese. Sia per creare
nuove occasioni di lavoro, sia per ridare orizzonti progettuali alla
politica sprofondata nel tramestìo quotidiano. La prospettiva è:
riequilibrare la distribuzione demografica e valorizzare le vaste
aree interne della Penisola. Un grande progetto per scongiurare
disastri, ridando vita a una vasta area territoriale in cui gli
italiani hanno vissuto per secoli. Il che si può fare con una
molteplicità di interventi concertati, che puntino alla selvicultura
e all’agricoltura di qualità, allo sfruttamento economico delle
acque interne, al potenziamento del turismo escursionistico, al
recupero – anche per insediarvi centri di ricerca - di tanti borghi
e centri cosiddetti “minori”: spesso gioielli monumentali che
fanno l’identità profonda di una parte estesa d’Italia. Un
insieme di iniziative e pratiche che potrebbero offrire lavoro alla
nostra gioventù e a tanti giovani extracomunitari, oggi perseguitati
da una legislazione criminogena.
L’urgenza e l’assoluto
vantaggio economico di procedere in tale direzione potrebbe fornire
anche nuova forza al grande e specifico problema di tutela e
conservazione del nostro paesaggio. Un bene inestimabile che stiamo
compromettendo. Naturalmente, per realizzare tale obiettivo, che col
tempo potrà salvare l’Italia da perdite umane ed economiche sempre
più gravi, occorre utilizzare risorse. E le risorse – per
definizione sempre scarse - oggi lo sono più che mai. Ma proprio per
questo appare necessario, in questo momento, un atto di coraggio
anche da parte di tanto ceto politico e giornalismo che, talora in
buona fede, ha visto nelle cosiddette grandi opere (Tav, Ponte dello
Stretto) un’occasione di sviluppo per il nostro Paese. Bisogna
avere la forza di ricredersi. Se le risorse finanziarie andranno alle
grandi opere verranno a mancare per le piccole con cui noi oggi
dobbiamo affrontare la questione territoriale italiana. Se si
realizzerà il Tav, le risorse pubbliche saranno prosciugate e, per
la salvezza del nostro territorio, resteranno le briciole. O l’uno
o le altre, tertium non datur. Senza dire che le due scelte si
presentano incompatibili anche sotto il profilo storico e culturale.
Le grandi opere sono il
frutto recente di un modo di procedere del capitale finanziario, in
concerto con i poteri pubblici, per costruire infrastrutture – di
più o meno provata utilità collettiva – e in genere contro la
volontà delle popolazioni che vivono nei luoghi interessati. Senza
dire che il nostro è un territorio delicato, che mal sopporta il
gigantismo delle costruzioni fuori misura.
Al contrario, le piccole
opere per risanare l’habitat italiano possono esaltare la
partecipazione popolare, iscriversi nel solco di una tradizione
secolare che ha fatto dell’Italia, per mano di anonimi artisti
popolari, quello che resta ancora del Belpaese.
“il manifesto”, 8
novembre 2011
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Filosofi. Lo squadrismo e la marcia su Roma secondo Giovanni Gentile
Sorse
così lo squadrismo. Giovani, risoluti, armati, indossanti la camicia
nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare
una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo
Stato.
Lo
squadrismo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui
attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e
finalmente osò l'insurrezione del 28 ottobre 1922, quando colonne
armate di fascisti, dopo avere occupato gli edifici pubblici delle
Provincie, marciarono su Roma. La Marcia su Roma, nei giorni in cui
fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti, soprattutto nella Valle
Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale,
si compì dapprima fra la meraviglia e poi l'ammirazione ed infine il
plauso universale. Onde parve che ad un tratto il popolo italiano
avesse ritrovato la sua unanimità entusiastica della vigilia della
guerra, ma più vibrante per la coscienza della vittoria già
riportata e della nuova onda di fede ristoratrice venuta a rianimare
la nazione vittoriosa sulla nuova via faticosa della urgente
restaurazione delle sue forze finanziarie e morali.
Il
brano è tratto dal Manifesto degli intellettuali fascisti,
che Giovanni Gentile stilò e di cui fu primo firmatario. Venne
pubblicato dai giornali italiani il 21 aprile 1925.
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La legge antiomofobia e l'emendamento Gitti (S.L.L.)
Il deputato Gregorio Gitti (Scelta Civica) |
Si parla tanto
dell'emendamento del deputato Gitti (Scelta Civica) che ha modificato
alla Camera il testo della legge antiomofobia già approvato in
Senato. Vediamo di che si tratta.
A Palazzo Madama il
progetto di legge aveva avuto l'approvazione di Sel e Cinquestelle,
ora contrari perché, a detta dei loro esponenti, l'emendamento
snaturerebbe e sterilizzerebbe l'intera normativa. Il relatore Pd,
Ivan Scalfarotto, dice che la legge, seppure emendata, resta una
buona legge e auspica che il Senato la confermi senza ritardi.
Lo schema piddino di
politica parlamentare sembra insomma quello collaudato sul “voto di
scambio”. Per “portare a casa il risultato” al Senato si fa
maggioranza con Sel e Cinquestelle, ma alla Camera dove il Pd dispone
di una forza vicina alla maggioranza assoluta, si aggiusta il testo
per ottenere il consenso delle forze di destra. La nuova formulazione
al Senato viene classificata come inemendabile, perché – si dice
– l'approvazione di una legge – seppure imperfetta - è
indilazionabile. Questa volta, però, qualcosa non ha funzionato e la
compattezza del gruppo Pd alla Camera è venuta meno. I voti sono
risultati in numero inferiore al previsto.
Per capire meglio che
cosa tutto ciò voglia dire al di là delle tattiche conviene in ogni
caso leggere l'emendamento in questione, che così recita: “Ai
sensi della presente legge, non costituiscono discriminazione, né
istigazione alla discriminazione, la libera espressione e
manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al
pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla
violenza, né le condotte conformi al diritto vigente, ovvero assunte
all’interno di organizzazioni che svolgono attività di natura
politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione, ovvero di
religione o di culto, relative all’attuazione dei principi e dei
valori di rilevanza costituzionale che connotano tali
organizzazioni”.
Per i critici l’emendamento Gitti rischia di annullare l’intera legge anti-omofobia, relativizzando termini come “discriminazione” o “istigazione alla discriminazione” e liberalizzando almeno in parte le prese di posizione antigay di movimenti politici, religiosi ecc. Io credo che non si sbaglino. Sulla base dell'emendamento Gitti se - per esempio - un Giovanardi a un convegno del Nuovo Centro sulla famiglia (istituzione tutelata dalla Costituzione) dicesse: "Gli omosessuali sono malati e le loro pratiche sono segno di disordine psicologico ed etico", non dovrebbe essere perseguito. Se lo dicesse un prete nell'omelia, lo farebbero addirittura santo senza aspettare il suo ritorno nella casa del padre. Subito.
Per i critici l’emendamento Gitti rischia di annullare l’intera legge anti-omofobia, relativizzando termini come “discriminazione” o “istigazione alla discriminazione” e liberalizzando almeno in parte le prese di posizione antigay di movimenti politici, religiosi ecc. Io credo che non si sbaglino. Sulla base dell'emendamento Gitti se - per esempio - un Giovanardi a un convegno del Nuovo Centro sulla famiglia (istituzione tutelata dalla Costituzione) dicesse: "Gli omosessuali sono malati e le loro pratiche sono segno di disordine psicologico ed etico", non dovrebbe essere perseguito. Se lo dicesse un prete nell'omelia, lo farebbero addirittura santo senza aspettare il suo ritorno nella casa del padre. Subito.
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La poesia del lunedì. Boris Pasternak (1890 - 1960)
Amare gli altri è una pesante croce
ma tu sei bella senza obliquitàe il segreto della tua grazia
è pari al mistero della vita.
A primavera si avverte il fruscìo dei sogni,
sussurro di novità e certezze.
Tu sei del seme di quei sogni
e il tuo senso spassionato come l'aria.
Non è difficile svegliarsi e veder chiaro,
pulire il cuore dal pattume delle parole
e vivere senza ingorghi prematuri.
E' una piccola astuzia - tutto ciò.
1932
da Poesie, Newton Compton, 1978
Alla traduzione di Bruno Carnevali ho apportato qualche modifica, a mio giudizio migliorativa.
Canapa curativa (da "micropolis" - 27 aprile 2014)
La demonizzazione, che
negli Stati Uniti d'America colpì la canapa indiana fin dagli inizi
del secolo scorso attraverso vere e proprie campagne d'opinione,
aveva connotazioni se non razzistiche almeno etnocentriche. Il nome
con cui si chiamarono le sigarette riempite con le foglie di quella
pianta, marijuana (“mariagiovanna”), ne designava la provenienza
dal Sud, dalle terre degli “ispanici”, e ad esse vennero subito
associati comportamenti criminali piuttosto gravi. Anche per gli
effetti di lungo periodo di quelle campagne, il proibizionismo verso
il fumo di quelle foglie e quello dell'hascish, diffuso in tutto
l'Occidente industrializzato, ha creato una sorta di barriera non
solo intorno alle varietà di Cannabis (l'indica, appunto, e
la sativa) che contengono in quantità elevate il famigerato
THC, l'agente che rende psicotrope foglie e resine, ma perfino
intorno alle canape usate per i tessuti, in cui il principio attivo è
assai poco presente. Particolarmente grave è stata poi la
proibizione dell'uso terapeutico dei derivati della cannabis. Sebbene
ostacolati dalle autorità esistono ormai da decenni studi seri, con
sperimentazioni più che attendibili, che comprovano l'efficacia di
farmaci a base di “cannabinoidi” in numerose patologie e
particolarmente contro certi dolori quasi insopportabili. La scelta
dei governi è stata però, in genere, quella di ostacolare la
produzione e l'uso della cosiddetta “marijuana terapeutica”,
proibendo ogni coltura della pianta, con la scusa dell'esistenza di
farmaci ugualmente o maggiormente efficaci. Tutto ciò ha spinto
diversi sofferenti, singoli o in gruppo, sulla via
dell'autocoltivazione illegale oppure a costose importazioni.
La battaglia politica per
la legalizzazione delle cure a base di canapa, iniziata una trentina
di anni fa, ha ottenuto buoni successi negli Stati Uniti, ove – in
seguito a referendum popolari – una decina di Stati ha spezzato il
proibizionismo, ma continua una sorta di guerra – a volte aperta a
volte sotterranea e strisciante – delle istituzioni federali
antidroga per sabotare le nuove, più tolleranti legislazioni. In
Italia la strada per una legislazione regionale favorevole alla
marijuana terapeutica distribuita dal servizio sanitario pubblico è
stata aperta nel 2010 dalla Puglia. Leggi analoghe sono state
promulgate negli anni successivi da altre regioni, specie dopo che il
governo Monti ha emanato direttive che in sostanza convalidavano
l'efficacia delle cure. Il Consiglio Regionale dell'Umbria, ai primi
d'aprile, sulla spinta del pronunciamento contro la Fini-Giovanardi
della Corte Costituzionale, ha finalmente approvato con un voto
trasversale (contrari solo i Fratelli d'Italia) una legge in materia:
la Regione è la nona del gruppo e la sua legge, a sentire gli
esperti, è ben fatta, la più avanzata, giacché i farmaci a base di
derivati delle canape, dopo il placet ospedaliero o specialistico,
saranno dispensati gratuitamente con ricettazione del medico di base.
In più s'è deciso – per ridurre i costi – di avviare
sperimentazioni produttive controllate nel territorio regionale. Il
nostro augurio è che questa vittoria del buon senso scientifico apra
le strade in Umbria e in Italia a politiche sulle droghe che abbiano
come criterio la riduzione del danno individuale e sociale e che
contemplino la legalizzazione, ormai più che matura, dell'uso di
droghe leggere controllate. La nostra preoccupazione è che in Umbria
accada quel che è successo nelle vicine Marche, ove al Consiglio
Regionale, nel marzo scorso, una interrogazione dei Verdi denunciava
come la legge sulla marijuana terapeutica, emanata un anno fa, sia
tuttora totalmente disattesa.
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La nuova religione delle cellule antenate (Marco d’Eramo)
È sconfinata la boria
mentale con cui ci pensiamo «moderni» (o «postmoderni»)! Ma in
tutte le epoche ogni uomo si è sentito moderno, secondo la bella
frase di Walter Benjamin (e immaginiamo
con che disdegno ci
guarderanno i posteri). In questa nostra prospettiva dall’alto in
basso, l’alterigia c’impedisce di riconoscere che tante nostre
accanite discussioni replicano credenze antiche, addirittura
primordiali, che pensavamo ormai sepolte come fossili sotto
innumerevoli strati geologici di «civiltà».
Una di tali credenze
riguarda quello che potremmo chiamare l’«animismo cellulare».
Questa credenza ha un significato addirittura letterale quando
trapela dal dibattito sulle cellule staminali, dove persino alla
singola cellula è attribuita un’anima. Ma laici incalliti
potrebbero pensare che si tratta di un residuo di superstizione, come
il sangue di San Gennaro.
Cugini, nipoti, ex
mariti
Più stupefacente è che
lo stesso schema concettuale affiori in un best-seller internazionale
scritto da una laureata in biologia, divulgatrice scientifica del
“New York Times”, un saggio scelto come «miglior libro del 2010»
da più di 60 media, subito tradotto in 25 lingue, tra cui l’italiano
(è già uscito presso Adelphi).
Sull’oggetto del saggio
«Alias» ha già pubblicato il 24 settembre uno splendido dossier di
Alessandro Delfanti che in quel contesto ha usato il libro stesso
solo come fonte, senza discuterne né l’impostazione né la
filosofia. Sto parlando delle cellule cosiddette ‘He La’ e del
libro La vita immortale di Henrietta Lacks di Rebecca Skloot.
Il libro racconta la
storia delle cellule tumorali (di un tumore all’utero) di una
signora chiamata Henrietta Lacks: nel 1951 queste cellule furono le
prime a essere riprodotte ad libitum in una coltura di laboratorio
(questo lignaggio cellulare è chiamato «He La» e sotto questo nome
è noto ai ricercatori biologici e medici di tutto il mondo) e quindi
a essere cedute – o vendute – e spedite ai laboratori di tutta la
terra.
Il libro di Rebecca
Skloot racconta con molti dettagli non solo le peripezie
tecnico-commerciali e scientifiche di queste cellule e delle loro
innumerevoli discendenti, ma anche la vita, la morte, gli amori, le
manie, le depressioni, le repressioni, le gelosie, le superstizioni
non solo di Henrietta Lacks, ma anche dei suoi parenti, nonno paterno
bianco, mamma e papà, sorella, primo marito, cugino (e secondo
marito), cinque figli, svariati cugini, nipoti, matrigna dei suoi
figli rimasti orfani, marito divorziato di sua figlia, e molteplici
amici e conoscenti. Il libro molto si commuove sul fatto che, benché
il giro di affari intorno alle cellule He La sia assai consistente, i
consanguinei di Henrietta non abbiano mai visto un centesimo. Ancor
più il libro – che più politicamente corretto non si può – si
commuove perché cellule tratte da una persona nera siano servite
alla ricerca che tante vite bianche ha salvato.
Il tono è già dato dal
titolo. Presupposto che queste cellule tumorali hanno il doppio dei
cromosomi di qualunque cellula umana e quindi difficilmente possono
essere catalogate come «umane», in che senso le He La costituiscono
«Henrietta» in tutta la sua complessità, tanto che il loro
riprodursi si traduce nella sua «vita immortale»? Supponiamo che le
cellule di una radice dei peli della mia barba
siano riproducibili in
vitro per millenni. Può l’immortalità della mia radice pilifera
farmi parlare di una mia «vita immortale»? Quest’idea di
«immortalità» ricorda la visione di quei popoli che mangiano gli
organi dei defunti per appropriarsi del loro valore che si
trasmetterebbe attraverso l’ingestione di un pezzetto della loro
carne, un po’ di coratella. Se alla base del libro non ci fosse
quest’assunzione di «animismo cellulare» – cioè l’idea che
l’immortalità delle cellule He La è di fatto una forma di
immortalità della signora Henrietta Lacks – raccontare le storie,
e le fisime, della sua famiglia allargata sarebbe del tutto non
pertinente. Sarebbe come raccontare le peripezie sentimentali del
portiere di casa Einstein per spiegare alcune caratteristiche della
teoria della relatività. A lunghezza di pagine, i parenti della
povera Henrietta continuano a immaginare «Henrietta» sottoposta a
esperimenti di laboratorio, ne soffrono, ci si arrovellano. Viene il
dubbio che a instilllare nei suoi personaggi queste ansie sia
l’autrice del libro.
Antirazzismo
sospetto
Questa visione della
cellula è conforme alla concezione maschilista del gene che la
grande filosofa della scienza Evelyn Fox Keller accomuna
all’homunculus di Lacan, al «piccolo uomo dentro l’uomo»,
al frammento infinitesimale che riproduce (e già contiene in
potenza) il tutto. Certo che se questa concezione implicasse anche
solo una briciola di verità, sarebbe una visione orripilante quella
di miliardi di esemplari di te stesso/a sottoposti a tutti i tipi
possibili di manipolazioni in migliaia di laboratori diversi (al
momento in cui il libro è stato scritto, erano usciti più di 60.000
articoli scientifici basati su ricerche condotte su cellule He La).
Ma appunto, che senso ha se non in un contesto animistico dove il
culto degli antenati è sostituito dal culto delle cellule antenate
(per di più tumorali)?
Questo animismo è
interessante perché può essere coniugato insieme al più rigoroso
scientismo, senza che l’uno arrechi disturbo all’altro. Infatti
Rebecca Skloot si guarda bene dal formulare apertamente l’animismo
cellulare, ma senza questa implicita assunzione il suo libro non
avrebbe né capo né coda. Senza di essa, perché mai dovrebbe
importarci qualcosa della razza di Henrietta o della razza dei malati
che hanno tratto sollievo e vantaggio dalle ricerche sulle
riproduzioni delle sue cellule tumorali? L’immortale vita di
Henrietta Lacks trasuda di tanto nobile antirazzismo da farti
sospettare che l’autrice un po’ razzista lo sia, se attribuisce
alla razza una tale rilevanza ontologica. Francamente, cosa
cambierebbe nella ricerca medica se invece cellule asportate da una
cinese o da una caucasica fossero servite a guarire pazienti neri?
Vi è poi un secondo
problema, oltre a quello dell’«animismo cellulare». Ed è il
«capitalismo genetico». È vero che diciamo «il mio corpo», come
diciamo che «il piede mi appartiene». Ma questo «appartenere» non
significa «essere proprietà di», significa «essere parte di». In
logica matematica questo legame è designato del simbolo di
appartenenza di un elemento all’insieme che lo contiene e che è
formato proprio dagli elementi che gli appartengono. Per esempio:
ogni italiano appartiene al popolo italiano, nel senso che ne fa
parte, e che a sua volta il popolo italiano è costituito dagli umani
che appartengono a quest’insieme, che per questa ragione sono detti
«italiani». Ma ciò non vuol dire che un italiano è proprietà del
popolo italiano, che potrebbe quindi venderlo o comprarlo: certo, è
vero che oggi alcuni poveracci sono spinti a vendere un proprio rene
od occhio per poter sopravvivere, ma è altrettanto aberrante quanto
i monarchi africani che «vendevano» i propri sudditi ai negrieri
bianchi.
Avere e possedere
È vero che quando un
ragazzo muore per esempio in moto, ci vuole il permesso dei
famigliari per asportargli degli organi. Ma il permesso è necessario
per ragioni di ordine etico e religioso, non perché i suddetti
parenti possono mettersi a vendere gli organi o bandire un’asta sul
fegato, sul cuore e sui reni! Se questo è vero a livello di organi,
immaginiamo a quello cellulare. Perciò una cellula «apparteneva» a
Henrietta Lacks nel senso che «faceva parte» di essa e che
Henrietta era l’insieme costituito da tutte le sue cellule;ma
questo non implica che fosse una proprietà commerciale – e quindi
vendibile – della famiglia Lacks. Dire che i medici che hanno
asportato e riprodotto in coltura un frammento di tessuto da una
biopsia effettuata su una paziente afflitta da tumore terminale,
hanno «defraudato» i figli e i nipoti, o hanno «sfruttato»
Henrietta, anzi che i soliti bianchi hanno «sfruttato» la donna
nera, è un ragionamento del tutto subalterno alla mercantilizzazione
dell’universo e di ogni relazione umana e biologica. Discutere di
questo problema – seppur per prospettare una soluzione diversa –
significa sussumere tutte le possibili diverse relazioni di
appartenenza all’unica forma di relazione proprietaria. Ma
«appartenere», «essere parte di» possono avere, e per fortuna
hanno, significati molto diversi non riducibili allo scambio di
mercato e al rapporto proprietario.
Proprio come il verbo
«avere» (e persino il verbo «possedere») non significa solo
«essere proprietario»: per esempio, «avere grande intelligenza» o
«possedere una sensibilità delicata» non significa essere
proprietario di queste due doti, tantomeno di poterle smerciare. Solo
una concezione paranoica della realtà, dell’universo come mercato,
può farci intenerire (come succede a Rebecca Skloot) perché il
terzo cugino o il bisnipote di Henrietta non percepiscono le
royalties sulle repliche delle sue cellule tumorali (che per
altro, dopo tanti passaggi, hanno subito tante di quelle mutazioni
che sarebbe difficile ricollegarle con l’«originale»). Tanto è
vero che perfino una legislazione dei brevetti e della proprietà
integralista del mercato come quella vigente, riconosce che le
cellule asportate non sono proprietà dell’essere umano da cui sono
tratte. Anche qui: Rebecca Skloot si guarda bene dall’avallare il
«capitalismo genetico», ma tutta la sua commozione sulla famiglia
Lacks che non ha profittato del commercio di He La non ha senso
alcuno se non proprio in una prospettiva «proprietaria» delle
cellule.
Un coro di osanna
Mala faccenda più
curiosa è non l’animismo cellulare, né il razzismo di rimbalzo
all’antirazzismo, e neanche il capitalismo cellulare. No, è che
nelle centinaia di recensioni che osannano il libro, nessuno abbia
notato o messo in evidenza questi problemi. Anzi tutti si
sgiuggiolano sui problemi «etici e razziali nella ricerca medica»
che l’autrice esamina. Forse la recensione più disincantata è la
breve segnalazione del «New Yorker»: «Questo resoconto
straordinario ci mostra che professionisti del miracolo, credenti e
truffatori popolano non solo le chiese ma anche gli ospedali, e che
anche una scrittrice scientifica può trovarsi a recitare una parte
centrale nella mitologia di qualcun altro».
“il manifesto”, 5
novembre 2011
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Un gioco dell'oca contro le imposture dei preti (Lanfranco Binni)
Dall'ultimo numero de “Il
Ponte” la recensione di un libro-gioco, che ha l'aria di essere una
cosa seria. Mi capita spesso di dire che, se i preti cattolici
appaiono e talora sono davvero più tolleranti dei loro colleghi di
altre credenze, se l'hanno finita con le Inquisizioni e con i roghi
degli eretici, delle streghe e degli omosessuali, lo si deve
all’Illuminismo settecentesco e alle rivoluzioni che lo coronarono.
E dentro l'illuminismo un ruolo importante giocò l'irrisione delle
ridicole “fole” che i preti mettono a fondamento del loro potere:
il Voltaire dell'Affaire Calas e
del Trattato sulla tolleranza è
complementare a quello del poemetto su Giovanna d'Arco, la pulzella
santificata. Dalla recensione (e dalla serietà di autori e
prefatori) si direbbe che libro di cui Binni discorre può dare una
mano sia alla critica argomentata sia all'irrisione che la completa e
ne potenzia l'efficacia. (S.L.L.)
Le religioni non sono una
cosa seria. Se ne dovrebbero occupare soltanto l’antropologia e la
storia delle culture. Ma in un paese come il nostro, educato da
secoli alla morale cattolica dell’eteronomia e del servilismo, la
critica delle imposture religiose è necessaria. Provvede
efficacemente Oca pro nobis. Controsillabo giocoso e irriverente
di Carlo Cornaglia, Filippo D’Ambrogi, Walter Peruzzi, Maria
Turchetto, prefazione di Carlo Augusto Viano (Roma, Odradek, 2013),
un agile e divertente “gioco dell’oca” che permette di
razzolare liberamente e con giuliva leggerezza tra dogmi di fede,
nefandezze di storia temporale, «fole religiose» (il termine è
leopardiano).
Oca pro nobis non
è soltanto un gioco di parole. Con stupore e sorpresa, un’oca
ingenua e volterrianamente candide saltella, di casella in
casella, dalla partenza al paradiso, per le 63 stazioni di
un’improbabile via crucis: in ogni stazione (“Schiavi,
obbedite ai vostri padroni”, “Chi dice donna dice danno”, “Non
c’è piacere senza peccato”, “Va’ a troie ma sfila con la
Cei”, “Il mortale flagello dei libri”…) è commentato
puntualmente il tema della pia sosta con sintetiche schede storiche e
irriverenti canzonette. Uno degli autori, Walter Peruzzi, ha attinto
al suo documentatissimo lavoro Il cattolicesimo reale, (Roma,
Odradek, 2008) “attraverso i testi della Bibbia, dei papi, dei
dottori della Chiesa, dei Concili”, opera di riferimento per atei
praticanti e antiteisti ostinati. Nelle sue schede di gioco Peruzzi
ci ricorda le posizioni storiche della chiesa cattolica a favore
della schiavitù, del colonialismo, del fascismo, della guerra,
contro la donna, contro la sessualità: strutture forti di dottrina
imposte con violenza e che hanno operato in profondità nel corso dei
secoli. Insistono sui temi le canzoni di Carlo Cornaglia (“Sarà un
giorno molto bello: / per accogliere l’appello / battagliero della
Cei / si farà il Family day”) di cui è possibile ascoltare
le esecuzioni musicali di Filippo D’Ambrogi collegandosi al sito ,
e i disegni di Maria Turchetto, studiosa di marxismo e direttrice
dell’«Ateo», bimestrale dell’Unione degli atei e degli
agnostici razionalisti.
Ne risulta un istruttivo
gioco multimediale, un irriverente controsillabo in cui la critica
della religione cattolica e della sua istituzione impiega i diversi
linguaggi (versi, musica e figure) con cui, come ricorda Viano nella
prefazione, «per secoli si è cercato di incantare le menti umane».
Nell’Italia di oggi,
incantata ancora una volta dalla presenza “umana” di un papa
“buono” a copertura di un’istituzione teocratica irriformabile,
l’anticlericalismo e la critica delle religioni hanno assunto,
anche a sinistra, un sapore arcaico, ottocentesco. Dopo secoli di
pensiero critico, dall’antichità classica all’illuminismo, al
socialismo, la religione è di nuovo un tabù, un dato di realtà da
non mettere in discussione se non sul suo stesso terreno. Ma si
tratta di una regressione culturale. «Perciò - conclude Viano - è
particolarmente apprezzabile la proposta costituita da Oca pro
nobis, che rappresenta una novità e rompe un tabù. Essa mette
in scena con disegni, prose, versi e musica idee e atteggiamenti
correnti della chiesa, prendendo di mira soprattutto tre cose: le
credenze arbitrarie della dottrina cattolica, la pretesa degli organi
ecclesiastici di sottrarsi alla solidarietà nazionale per conservare
privilegi economici e le regole sessuali, che i preti pretendono di
imporre a tutti attraverso leggi dello stato. Soprattutto dopo il
Concilio Vaticano II e il pontificato di Giovanni Paolo II la chiesa
è sembrata disposta a rivedere alcune delle proprie posizioni, a
riconoscere errori commessi e addirittura a chiedere perdono alle
vittime. Nessuno intende sottovalutare l’importanza culturale di
questi fenomeni, ma gli autori di Oca pro nobis hanno
appuntato l’attenzione su un altro aspetto, spesso trascurato.
Quasi sempre le correzioni apportate dagli organi ecclesiastici hanno
riguardato il passato e hanno presentato gli errori commessi come
applicazioni scorrette di principi rimasti inalterati. Non soltanto
temi fondamentali del cristianesimo non hanno subito revisioni, ma
correzioni e richieste di perdono si sono limitate al passato e non
sono mai state accompagnate da impegni a non ripetere più le
nefandezze commesse. Anzi, quando chiese perdono per ciò che secondo
lui cardinali sprovveduti avevano indotto a fare a Galileo, Giovanni
Paolo II si affrettò a dire che i biologi avrebbero dovuto
sottomettersi al giudizio dei papi, che di meccanica magari no, ma di
vita se ne intendono […]». E un papa è sempre infallibile.
27.4.14
Elezioni Comunali a Spoleto (Aurelio Fabiani – Casa Rossa)
Aurelio Fabiani, della
Casa Rossa di Spoleto, è un compagno “maoista” che conosco dai
tempi della prima Rifondazione e stimo per la coerenza e il coraggio,
anche se m'è accaduto non di rado di dissentire dalle scelte, che
giudicavo sterili e piuttosto settarie, sue o del suo gruppo. Qualche
giorno fa mi ha mandato per e-mail un testo sulle imminenti elezioni
comunali nella sua città, in cui a una crisi industriale devastante
si sono accompagnate politiche comunali che hanno prodotto guasti
urbanistici, ambientali e finanziari. Non conosco fino in fondo la
realtà di quel comune, ma molte delle valutazioni di Aurelio mi
paiono condivisibili ed estensibili ad altre realtà. (S.L.L.)
Il Municipio di Spoleto |
A Spoleto non ci
sono né liste comuniste né liste operaie, quindi ci asteniamo.
La corsa al camuffamento
continua, è sufficiente dare una scorsa ai nomignoli scelti da chi
ha deciso di partecipare alla competizione per un posto nel Consiglio
Comunale per comprendere come nascondere la propria identità sia
diventato un tratto caratterizzante il fare “politica” oggi.
Il nome Spoleto campeggia
ovunque. Spoleto? Sì, Vince, a Sinistra, ma anche a Destra, Prima!
no anche dopo, in questo mondo, no! in tutte e Due i mondi. Oggi? no
anche domani. Una sola delusione, non c’è la lista Spoleto per
Don Matteo. Una volta si volava più in alto: “Proletari di tutti i
paesi unitevi”, o più "alti" ancora “un posto un
voto, in nome di Dio padre onnipotente”, o più larghi ma solo per
ariani “Alleanza nazionale”.
Quante liste sono ? E’
un conto difficile da fare, appena piove (d'altronde è primavera) ne
spunta una nuova, la scommessa si potrebbe fare sul fatto se ci
saranno più liste che posti in Consiglio o viceversa. Neanche un
posticino per lista? forse no. Peccato!
Immagino i dibattiti in
Consiglio: la buca? ha detto della buca? chiede il consigliere
distratto mentre guarda sul tablet la formazione della propria
squadra del cuore. No! Il lampione! parla del lampione! ah ho capito,
la buca.
Ci sono è vero i
partitoni nazionali, la stella azzurra della risorta, liftata,
mummificata, Forza Italia, quindi la stella grigia degli eredi
dell’asinello che hanno portato alla politica la gioventù che si è
fatta le ossa nei quiz televisivi, con i loro cespugli multi
colorati, di scudo crociato, di verde rosa ambientale. E anche i
pentastellati che i cespugli ce l’hanno dentro casa, dal profondo
nero al rosso tinto.
Chi è di Destra, chi è
di Sinistra ? Questa si che è una domanda! un dilemma che richiede
una riflessione infinita e inutile. A me sembrano tutti uguali, sono
tutti di Centrodestrasinistra, tutti vogliono rappresentare tutto e
tutti. Quelli meglio intenzionati hanno una confusione da fare
spavento, i male intenzionati spaventano per quello che possono fare.
Basta scorrere le liste
per vedere come anche gli uomini oltre i simboli sono stati presi,
pur di esserci, da una frenesia di ricollocamento orizzontale che un
po’ mi fa ridere. Spontanea alla mente mi sorge l’immagine del
vigile urbano in mezzo a un traffico della M… Tutti gli girano
intorno caoticamente, c’è chi viene da destra e va verso sinistra,
chi si sposta da sinistra verso destra, chi è in mezzo prende la
rotatoria verso sinistra ma sul punto di uscire cambia idea e
continua fino all’uscita opposta e viceversa. Delle formiche (i
cespugli) salite sul tettuccio del mezzo che hanno scelto,
pateticamente e con moto lentissimo si muovono nella direzione
opposta a quella della macchina che procede a tutta velocità.
Neanche il comandante dei vigili sarebbe in grado di dirigere questo
traffico di trasformisti di tutte le ore.
Avremmo voluto sostenere
una lista fatta da venti operai della Pozzi, che avesse portato in
Consiglio, uno o più di loro, che avrebbero potuto dire: ora tocca a
noi e stiamo qui per fare casino fino a che il lavoro sarà certo e i
diritti garantiti. Sarebbe stato un fatto importante perché i
lavoratori non devono delegare la loro rappresentanza a chi fa della
loro condizione solo un mezzo per mediare con padroni e
deregolamentatori dei diritti degli operai, perché la loro
mediazione non serve a garantire il lavoro agli operai ma il loro
ruolo di mediatore (più o meno come succede con i sindacati
confederali+Ugl).
Ci abbiamo anche provato
a dare vita a questa lista, con operai della Pozzi, di Baiano, della
Cementir, ma non è andata, non per volontà degli operai ma di chi
ha preferito fare il gruppettaro elettoralista del XXI secolo.
Non ci sono liste
comuniste e noi siamo comunisti, non ci sono liste operaie e per noi
che siamo comunisti la contraddizione fondamentale è e rimane quella
tra capitale e lavoro, quindi non andremo a votare.
Aurelio Fabiani -
Associazione Culturale CASA ROSSA
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politica
Casa Pintor (Luciana Castellina)
Per noi che con Luigi
Pintor abbiamo lavorato, e anzi vissuto, fianco a fianco per
tantissimi anni, questo libro che raccoglie le lettere della sua
mamma Dedè Dore Pintor ha evidentemente un sapore speciale (Da
casa Pintor. Una’eccezionale normalità borghese: lettere
familiari, 1908-1968. A cura di Monica Pacini, Viella). Perché
ci fa entrare nell’intimità della sua famiglia, nella sua storia,
un lungo tragitto fra Cagliari e Roma, attraverso il Novecento –
dagli inizi fino a poco dopo la nascita del «manifesto» – dandoci
conto di affetti, gioie, dolori, riflessioni sul presente e sul
passato, ipotesi sul futuro; restituendoci a tutto tondo la
personalità dei suoi famosi zii che per via dei cenni frammentari ma
affettuosi che ne tracciava Luigi nelle chiacchiere ci sono col tempo
diventati quasi familiari: lo zio Fortunato, il più anziano dei
Pintor, austero direttore della Biblioteca del Senato e collaboratore
di Gentile; la sorella Cicita, con cui ha sempre vissuto e nella cui
casa di Roma un giovane Giaime era venuto a vivere nel Trentacinque,
abbandonando Cagliari per frequentare un liceo della capitale; lo zio
Pietro, generale, morto nel Quaranta in uno strano incidente aereo
(come Balbo) alla vigilia di esser nominato capo di stato maggiore al
posto di Badoglio; lo zio Luigi, funzionario di alto rango e vice
governatore nientemeno che della Cirenaica nei primi anni Venti.
Critica ma non
dissidente
Dedè muore nel ’73, ma
i nuovi media l’hanno negli ultimi anni disamorata all’abitudine
della corrispondenza e infatti si chiede perplessa cosa ne sarà
della parola scritta. (E ancor più me lo chiedo io ora, proprio
riflettendo sul valore di questo libro: da quando c’è la
teleselezione nessuno più scrive a nessuno e i rapporti si
inaridiscono dentro frettolosi messaggi o si sperdono in parole
lasciate al vento. Sarà difficile ricostruire la memoria dei nostri
anni).
Ma le lettere di Dedè
Pintor hanno un interesse che va ben oltre quello che naturalmente
suscita in chi di Luigi è stato amico. Intanto sono piacevolissime,
non – o non solo – come ci si potrebbe aspettare, quelle dolorose
di una madre che ha avuto in sorte di sopravvivere per ben trent’anni
al figlio dilaniato da una mina sulla linea Gustav, nel Molise. I
suoi scritti sono una testimonianza ironica e spiritosa del suo
tempo, un’acuta osservazione dell’Italia fascista e postfascista,
vista con gli occhi della borghesia colta, né fascista né
antifascista, distaccata sebbene imparentata con l’establishment,
spesso critica ma non al punto di essere dissidente, come già altri,
per esempio i Lombardo Radice, con cui pure si frequentavano molto.
Normale, insomma:la politica, l’impegno, fino al sacrificio della
vita, sono cose che arrivano solo con la seconda generazione, quando
la storia afferra e la scelta si impone anche a chi, come a Giaime,
aveva pensato solo alla letteratura, o a Luigi, che avrebbe voluto
essere pianista e invece ha fatto il militante (ma il suo pianoforte,
però, l’ha sempre rimpianto).
Una donna molto
simpatica, Dedè – l’ho conosciuta già anziana e molto sorda,
nella casa di via Nizza, dove, dopo il trasferimento a Roma, erano
andati ad abitare i Pintor) – anche per il suo modo di vivere la
propria condizione di donna. Ne scrive con molta autoironia, per il
destino di madre e di sposa cui finisce per piegarsi, pur nella
consapevolezza dello spreco del proprio talento che questa induce e
cui si ribella scrivendo moltissimo, prima per riviste e manuali
didattici, poi lettere e lettere a parenti ed amici, vere cronache
del suo tempo. «Quando Giaime sarà diventato un grand’uomo –
scrive al cognato nel 1920, il primogenito vecchio di neppure un anno
– i biografi, per esaltarne meglio l’autodidattismo, diranno:
nato da un modesto impiegato, dilettante d’arte da strapazzo, e da
una madre dominata dall’innocente mania di maneggiar la penna a
dritta e a rovescio».
Da casa Pintor ha
comunque un interesse politico generale che va ben al di là della
testimonianza di un tempo. Tanto più se posto in relazione con il
libro di qualche anno fa scritto da Maria Cecilia Calabri: Il
costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, non a caso
assai spesso citato dalla curatrice Monica Pacini. Perché
l’integrazione delle lettere di madre e figlio consente di fare
ulteriore chiarezza su un tema che ha dato luogo recentemente a una
dura controversia su come interpretare un passaggio fondamentale
della storia italiana.
C’è chi ha infatti
sostenuto che chi non era antifascista puro e duro prima e lo è
diventato dopo, anzi, addirittura comunista, è stato un
voltagabbana. Di Giaime, che pure è morto perché ha sentito il
dovere di attraversare le linee per congiungersi alla Resistenza, pur
essendo in salvo nell’Italia già liberata dalle truppe alleate, è
stato persino detto che era un agente dell’intelligence
britannica.
Una generazione di
redenti
In ballo sono stati
tirati in tanti, praticamente tutti gli intellettuali italiani della
generazione maturata
negli anni ’30:
Vittorini, Quasimodo, Gatto, Penna, Brancati, Pratolini, Bilenchi,
Alicata, Ingrao, Galvano della Volpe, Zavattini, così come i
pittori, Guttuso e Mafai fra gli altri. E questo perché avevano
appartenuto al Guf, o partecipato ai Littoriali e perché scrivevano
sulla rivista di fronda promossa da Bottai, «Primato», tutti
«redenti» nel dopoguerra «grazie al passaggio sul fonte
battesimale del Pci». Ma chi mai avrebbe potuto trasmettere
antifascismo a quella generazione? Non poteva il vecchio
antifascismo, liberale ed élitario, di prima della marcia su Roma,
che non aveva sostanza capace di affascinare; non potevano essere gli
antifascisti della sinistra perché in esilio o in prigione. Dice
Laura Lombardo Radice Ingrao ricordando quei tempi in una
testimonianza raccolta da sua figlia Chiara in Solo una vita:
«I maestri di vita dovemmo cercarli altrove. Non nella generazione
precedente, dell’anteguerra, nobili ma sconfitti, messi
nell’angolo». Il «lungo viaggio» fuori dal fascismo, cominciò
con l’essere fascisti e capire che non si doveva esserlo –
testimonia Vittorini, e molti altri. Le vie furono più articolate e
complesse. Ma proprio per questo il processo fu assai più ricco.
Passa attraverso una stagione, quella degli anni Trenta, in cui
l’Italia è isolata, la stragrande maggioranza della popolazione
agnostica, persino affascinata dagli aspetti modernizzanti del
regime, ancora non scossa dall’orrore dei bombardamenti e della
guerra, quando, ma solo allora, comincia a formarsi una
consapevolezza che sbocca per molti nell’impegno della Resistenza.
La singolarità della
vicenda italiana sta nel fatto che, in gran parte grazie al coraggio
di Palmiro Togliatti, fu proprio questa generazione ad esser promossa
alla guida della sinistra, sacrificando, anche con amarezza, compagni
eroici che uscivano dalle prigioni o tornavano dall’esilio, e che
avevano però necessariamente perduto il contatto con la realtà
italiana. Il comunismo italiano è stato migliore di quello di altri
paesi anche per questo.
Le lettere di Dedè
Pintor ci consegnano in questo senso una testimonianza preziosa,
facendoci capire meglio le complessità, le sfumature, le
contraddizioni di un passaggio storico per nulla netto e schematico.
“il manifesto”, 5
novembre 2011
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Berlinguer: “Ne valeva la pena”. Intervista a Mixer (1983)
Si tratta della celebre
intervista televisiva rilasciata a Giovanni Minoli, conduttore di
"Mixer", l'11 giugno 1983. E' ricordata soprattutto per
alcune battute (quella sul “giocatore di poker” soprattutto), ma
ci sono – a mio giudizio – passaggi assai più importanti. (S.L.L.)
Onorevole Berlinguer,
in una battuta nota, l'onorevole Pajetta ha detto che lei, di nobile
famiglia sarda, si è iscritto fin da ragazzo alla direzione del Pci.
La considera una critica o un complimento?
«Un complimento, non del
tutto vero, perché all'inizio della mia milizia comunista ho fatto
il segretario di sezione».
Sempre parlando di
potere, in televisione lei recentemente ha ammesso, sia pure con
molta reticenza, che rifare il segretario del partito comunista, dopo
dieci anni, le fa ancora piacere. Ecco, ma perché tanta reticenza
nell'ammetterlo?
«Mi ha dato
soddisfazione l'ampiezza del consenso con la quale sono stato
designato».
Ma per lei cosa è il
potere?
«Il potere è uno
strumento insufficiente ma necessario per realizzare gli ideali in
cui credo io e in cui credono i miei compagni».
Ma a lei cosa piace
invece di più del potere?
«Mi piace la possibilità
di far avanzare la realizzazione di questi ideali».
E di meno?La cosa che
le dà più fastidio?
«Di meno, parlando non
soltanto a titolo personale ma parlando come segretario del partito
comunista, mi dispiace che il nostro potere sia ancora insufficiente,
insufficiente per la realizzazione dei nostri obiettivi».
Senta onorevole
Berlinguer, ma che differenza c'è tra l'austerità che predicava lei
e il rigore invocato oggi dalla Confindustria e dalla Democrazia
cristiana?
«Il punto fondamentale è
chi paga, prevalentemente, le spese della fuoriuscita dalla crisi e
del risollevamento economico e sociale del Paese. Da questo punto di
vista noi rifiutiamo che a pagare siano i soliti, siano gli operai,
siano le masse popolari; e riteniamo che, se sacrifici devono
esserci, e tutti in misura proporzionale vi debbono contribuire,
debbono servire a raggiungere determinati traguardi e non a far
tornare indietro il Paese».
Ecco, però, a
proposito di questo rigore, si dice che lei avrebbe in testa, per
dopo le elezioni, quel governo diverso, composto da tecnici e
personalità scelte fuori e dentro i partiti, una sorta di governo
del presidente, diciamo, al quale il Pci darebbe il suo sostegno. È
vero o no?
«Abbiamo indicato dei
criteri di formazione del governo diversi di quelli seguiti sinora,
in base ai quali il presidente del Consiglio dovrebbe scegliere
liberamente, e non attraverso le imposizioni e designazioni delle
segreterie dei partiti, i ministri, fra uomini di partito e al di
fuori del partito. Questo ritengo che sia un criterio valido per
qualsiasi governo, compreso un governo di alternativa democratica».
Quindi, non c'è
un'alternativa tra governo diverso e governo dell'alternativa?
«No, non mi pare.
Perché il problema che abbiamo posto, ripeto, di criteri non più
fondati sulla lottizzazione, sulla spartizione dei ministeri deve
riguardare qualsiasi governo, anche un governo che non sia di
alternativa democratica».
In complesso, lei come
giudica oggi la stampa italiana?
«Nella media, non
inferiore, per certi aspetti superiore, per esempio per quanto
riguarda la ricchezza dei notiziari politici, a quella di altri
Paesi. Il difetto più importante...».
Troppo...
« ...no, non direi,
perché mi pare che il popolo italiano conserva un interesse politico
maggiore di quello che vi è nella maggior parte degli altri Paesi
dello stesso occidente. Troppo, forse, nel senso che qualche volta
prevale il commento sull'informazione».
Ecco, ma qual è il
giornalista italiano che lei preferisce?
«Luigi Pintor, dal punto
di vista delle qualità giornalistiche».
L'unico?
«No, lei mi ha detto
quello che preferisco...».
E perché?
«Perché mi pare che
abbia veramente la stoffa del giornalista di alta qualità».
Senta, onorevole
Berlinguer, qual è l'ultimo romanzo che ha letto e che le è
piaciuto?
«La "Cronaca di una
morte annunciata" di Garçia Marquez».
Perché le è
piaciuto?
«Mi sembra una
combinazione felicissima di poesia e di crudo realismo».
E l'ultimo film che ha
visto e che le è piaciuto?
«L'ultimo è E.T.».
E perché le è
piaciuto?
«È un film pieno di
poesia, di fantasia e soprattutto è un film che mi pare faccia
appello ai sentimenti migliori dell'infanzia».
Alla televisione, lei
che programmi segue?
«I telegiornali, lo
sport, qualche film».
Senta, ma lei pensa
che l'arrivo delle televisioni private abbia migliorato o peggiorato,
complessivamente, la qualità dei programmi proposti al pubblico?
«Dal punto di vista
spettacolare, migliorato. Dal punto di vista culturale, non direi, o
comunque non ancora».
Parliamo
dell'evoluzione del suo modo di essere comunista. Nel '44 lei fu
arrestato a Sassari per la rivolta del pane, e rischiò la pena di
morte - leggo - "per insurrezione armata contro i poteri dello
Stato, per devastazione e saccheggi, per detenzione di armi,
associazione e propaganda sovversiva". Era colpevole o
innocente?
«Fui prosciolto in
istruttoria per non avere commesso il fatto».
Ecco, ma allora era
più giusto... voglio dire era più ingiusto quello Stato che,
comunque, dopo tre mesi, l'ha processato e l'ha assolto, per non aver
commesso il fatto, o lo Stato italiano di oggi che, più o meno per
le stesse imputazioni tiene per esempio quelli del 7 aprile e tanti
altri, come Negri e altri, da tanti anni in prigione senza
giudicarli?
«Penso anch'io che sia
un'assurdità questa detenzione così lunga».
Senta, Franco Piperno,
l'ex leader di Potere operaio, qui a Mixer ha detto che l'elemento
scatenante del terrorismo fu la politica del compromesso storico,
nella versione diciamo tradizionale, perché impediva all'opposizione
di avere il suo spazio. Lei cosa ne pensa?
«Penso che l'analisi sia
sbagliata, ma confermi che uno dei bersagli del terrorismo era il
Pci».
E il compromesso storico
nel suo insieme...
«No, il Pci con tutta la
sua politica e tutta la sua strategia realmente innovativa
dell'assetto sociale e politico italiano».
E' morto Moro, però,
per il compromesso storico.
«È morto Moro, perché
Moro era l'interlocutore più valido e più intelligente del Pci».
Senta, nel '76, a
Giampaolo Pansa, il giornalista che la intervistava, lei disse di
sentirsi più sicuro sotto l'ombrello della Nato. Lo pensa ancora?
«Sì, ma nel senso che
precisai allora. Che, se l'Italia facesse parte del Patto di
Varsavia, e non della Nato, evidentemente non potremmo realizzare il
socialismo così come lo pensiamo noi. Ciò non vuol dire che qui,
sotto l'ombrello della Nato, nell'ambito del patto Atlanlico, ci si
voglia far realizzare il socialismo».
Onorevole Berlinguer,
ma qual è il suo peggior difetto?
«Forse una certa
spigolosità del carattere».
E la qualità a cui è
più affezionato?
«Quella di essere
rimasto fedele agli ideali della mia gioventù».
E la cosa che le dà
più fastidio sentir dire di lei?
«Che sarei triste,
perché non è vero».
Lei ha una famiglia di
origini nobiliari e tradizioni massoniche. Ecco, in che rapporto è
con queste tradizioni?
«Dell'origine nobiliare,
non mi importa niente».
E delle tradizioni
massoniche?
«Mio padre si iscrisse
alla massoneria, mi pare, nel 1925-26, nel momento in cui la
massoneria fu vietata dal fascismo».
Quindi, in funzione
antifascista. E lei è massone?
«No, per carità».
Ma, se lo fosse, si
meraviglierebbe a dirlo?
«Non lo sono. Quindi non
riesco a mettermi nello stato d'animo di chi lo è».
Senta, ma il «grande
maestro» della massoneria, Corona, a Nizza ha detto che non c'è
incompatibilità tra essere massone e essere comunisti. Vero?
«Secondo
me c'è incompatibilità, perché essere iscritti alla massoneria
significa addirittura giurare fedeltà ad una associazione i cui
interessi, i cui obiettivi possono entrare in conflitto, in contrasto
con quelli del partito comunista, cioè di un'altra associazione alla
quale si aderisce liberamente».
Onorevole Berlinguer,
per lei cos'è più importante nella vita: la politica o la vita
privata?
«La
politica, però non la politica in senso generico, perché io non ho
fatto la scelta della politica. Io ho fatto la scelta della lotta per
la realizzazione degli ideali comunisti».
Ecco, ma la famiglia
quanto conta nella sua vita, allora?
«Conta
molto».
Lei ha quattro figli.
A quanto del suo essere padre, e anche marito, ha rinunciato, per
fare politica?
«A
una parte, certamente. E me ne rammarico continuamente».
Non ha mai pensato che
non ne valeva la pena proprio per davvero?
«Non
valeva la pena di rinunciare? No, questo non l'ho mai pensato e spero
di non pensarlo mai».
Se un suo figlio le
dicesse: «Non sono comunista», lei come reagirebbe?
«Rispetterei
il suo giudizio e la sua opinione».
Ma i suoi figli sono
comunisti?
«Lo
chieda a loro».
Lei non lo sa?
«No,
io in genere non rispondo a domande che riguardano i miei familiari.
Chi vuol saperne qualche cosa, chieda a loro».
Ma lei si sente
tollerante, in casa, oppure autoritario? Cioè, ha un rapporto di che
tipo?
«Cerco
di essere comprensivo».
Onorevole Berlinguer,
qual è l'uomo politico italiano, vivente, che lei stima di più?
«Pertini».
Perché?
«Mi
pare che, a parte la sua... le sue doti personali, egli abbia
costituito e costituisce tuttora un punto di riferimento e di fiducia
fondamentale per le istituzioni democratiche».
E il suo avversario
politico più duro, ma più leale, incontrato nel corso della sua
vita politica, lunga oramai. Chi è? Italiano, naturalmente.
«Un
avversario leale è stato Zaccagnini».
Senta, lei come
definirebbe Craxi? Una definizione breve.
«Un
buon giocatore di poker».
De Mita?
«Persona
astuta, anche intelligente, ma un po' imbonitore».
Fanfani?
«Fanfani:
uomo di spirito, tanto che è riuscito a risorgere sempre dopo non
poche sconfitte».
Senta, ma lei ha degli
amici veri, che non siano comunisti ?
«Sì,
diversi».
In
Berlinguer. Parole e immagini, I libri dell'Altritalia, 1994
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