Non sono stati in molti a
ricordare l'altro ieri i venti anni dalla morte di Franco Fortini.
Tra le commemorazioni reperibili in rete spicca questa, di un critico
di valore, Massimo Onofri, che si svolge sul filo di una
contraddizione: “Fortini non si spiega senza la rivoluzione /
Fortini ha molto da dirci anche dopo il crollo dell'utopia
rivoluzionaria”. Articolo bello, con molti spunti da approfondire.
(S.L.L.)
Anni 50 del Novecento. Franco Fortini all'Olivetti |
Parlando, nel 1978, d’un
libro come Questioni di frontiera, Cesare Garboli scriveva:
«Se c’è un luogo dove non vorrei entrare neppure per tutto l’oro
del mondo, questo è la mente di Franco Fortini». E aggiungeva, in
un articolo che ora si può leggere in Falbalas (1990): «Le
sorprese del suo ingegno non amano la luce. Avvengono nel buio,
all’ombra. Essere inaccessibile come l’ombra, inabitabile come
l’oscurità e la tortuosità, ecco ciò che Fortini desidera». Una
mente irta e inospitale, se non inaccessibile, che coltiva
consapevolmente la tortuosità: L’ospite ingrato (1966, che
poi diventerà, nel 1985, Primo e Secondo) s’intitola,
appunto, quel notevole zibaldone ove trovano asilo anche alcuni suoi
memorabili epigrammi. Eppure, proprio in quegli anni, erano in tanti
che, quella mente, si provavano ad abitarla, convinti di farlo, se
non con comodità, almeno con profitto.
Cultura e politica.
A vent’anni dalla morte di Franco Lattes – l’ebreo che
aveva mutato il cognome in Fortini e s’era fatto valdese – si può
dirlo con una certa sicurezza: non era possibile, per chi si muoveva
da protagonista nel dibattito del secondo Novecento, soprattutto
quando ci si richiamava al nesso tra cultura e politica, schivare un
confronto con lui, non importa se per respingerne il comunismo
totalizzante e messianico, vissuto nei modi d’una ortodossia che
era solo del sentimento, o per restare suggestionati, invece, dalla
sua eresia militante, in pendolarismo tra Brecht e Adorno.
Tra Sereni e
Pasolini. Non parlo dei poeti: l’amico Vittorio Sereni o il
distonico Attilio Bertolucci, che di Fortini spesso, per lettera,
discutevano. Ma degli intellettuali: i cruciali rapporti con Giacomo
Noventa e Pier Paolo Pasolini, del resto, sono noti, e quelli con
Pasolini testimoniati da un libro imprescindibile come Attraverso
Pasolini (1993). E non vorrei dimenticare Paolo Volponi, Giovanni
Giudici e Andrea Zanzotto. Ma, in discendenza, penso, a destra, agli
scambi con l’altro olivettiano, Geno Pampaloni, e, a sinistra,
all’egemonia che esercitò sul gruppo di “Quaderni piacentini”:
Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi, Goffredo Fofi, Giovanni
Raboni, Giovanni Jervis, tutti nel comitato di direzione, con Cases
che s’affacciava tra i collaboratori. Né vorrei tacere
dell’influenza che ebbe sul massimo dei nostri critici formali,
Pier Vincenzo Mengaldo. Speciale resta il caso di un altro
piacentino, Alfonso Berardinelli, che a Fortini, nel 1973, dedicò
una monografia d’adesione che ebbe molto successo, ma che da
Fortini prestò s’allontanò, in direzione d’un empirismo
libertario e individualista, che, se mi si consente il neologismo,
all’oscurismo ideologico di Fortini preferì presto la
comunicatività laica di George Orwell e di Nicola Chiaromonte.
Presente alienato.
E’ stato proprio Berardinelli a dirlo meglio di tutti: senza
rivoluzione, Fortini non si spiega. E questo non vale solo per il
saggista e il critico, ma anche per il poeta e persino per il
traduttore. Essere fedeli alla rivoluzione significava anche
giustificare la volontà di non essere capiti nel presente alienato
per essere compresi nel futuro liberato, quasi che il nocciolo
razionale dei suo discorsi potesse finalmente essere estratto dal suo
guscio mistico e estraniato: come gli venne da rispondere a Goffredo
Parise il quale, nella incomprensibilità linguistica di Fortini
vedeva invece l’antidemocratica arroganza del Potere, il perenne
latinorum di don Abbondio.
Extrema ratio.
Sicché la domanda resta ineludibile: implosa l’idea stessa di
rivoluzione, cosa potrebbe restare oggi di Fortini? Sarei tentato di
dire che l’utopia comunista fu il suo piranesiano carcere
d’invenzione. Ci fu forse qualcuno che, meglio del Piranesi
carcerario, seppe contemplare e ritrarre le rovine del suo presente,
avvertirne il che di atroce e feroce? Possiamo metterla anche così:
il futuro della rivoluzione, sempre procrastinabile, e fissato nel
suo eterno non-essere, consiste esattamente in quella luce, algida e
inesorabile, che ci permette di vedere più lucidamente il presente
per quel che è, gelido e livido, irredimibile e tristo. Dentro una
condizione perfettamente espressa dalla climatica ostile, diciamo
così, di certi suoi titoli agonistici: Dieci inverni (1947-1957).
Contributi ad un discorso socialista (1957); Poesia e errore
(1959); Questo muro (1973); Paesaggio con serpente
(1984); Insistenze (1985); Extrema ratio. Note per un buon
uso delle rovine (1990); Composita solvantur (1994).
Movimento
dialettico. Insomma: se il futuro s’accampa utopicamente
come totalità, quella di un’umanità finalmente integrale, non più
scissa, il nostro oggi lacerato e contraddittorio, infelice e
irredento, potrà essere compreso sino in fondo solo se interpretato
dialetticamente. Ogni dettaglio andrà così sempre messo a sistema,
qui e ora, con vigile pazienza e tenacia, dentro un ostinato allarme
di coscienza, senza sconti per nessuno, a cominciare da se stessi:
perché è nella Storia che troverà la sua verità. Fortini non ha
dubbi: «Svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare
di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione. Il
critico allora è esattamente il diverso dallo specialista». Ecco
perché, se il presente è questo inferno di dolore e sopraffazione,
la letteratura, che lo riunifica in sé, si paleserà,
contemporaneamente, come verifica quotidiana e come anelito di
salvazione.
Crollata l’utopia, gli
assilli di Fortini ci possono ancora essere di aiuto? Credo di sì:
perché della sua critica a una coscienza falsa, acquietata e serva
dello status quo, abbiamo ancora bisogno. Almeno come
imperativo etico.
La Nuova Sardegna, 28
novembre 2014