1.4.11

Come si deve fare un giornale rivoluzionario (di Petr Alekseevic Kropotkin)

"Alias", il supplemento culturale de "il manifesto", sabato scorso, per rievocare la Comune di Parigi e le novità politiche intellettuali da essa introdotte pubblicava dall'edizione Feltrinelli del 1969, un brano delle Memorie di un rivoluzionario di Kropotkin (1899), in cui il pensatore e agitatore anarchico russo rievoca  la sua esperienza di giornalista in Svizzera negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo. Mi pare una pagina da meditare, una lezione ancora attuale. (S.L.L.)
I giornali socialisti hanno spesso la tendenza a diventare nient’altro che una raccolta di lamentele sulle condizioni attuali. Si parla dell’oppressione dei lavoratori nelle miniere, nelle fabbriche, nei campi; si dipingono al vivo le miserie e le sofferenze degli operai durante gli scioperi; si insiste nel dire come non abbiano armi con cui lottare di fronte ai loro padroni; e questo seguirsi di disperate lotte di settimana in settimana, ha sul lettore un effetto molto deprimente.
Come rimedio chi scrive confida soprattutto nelle parole ardenti con le quali cerca di infondere nei suoi lettori slancio e speranza. Io pensavo invece che un giornale rivoluzionario deve dare il resoconto di tutti i segni che, dovunque, preannunciano l’avvento di un’era nuova, il nascere di nuove forme di vita sociale, la rivolta crescente contro le istituzioni antiquate. Questi sintomi devono essere analizzati, confrontati, studiandone i rapporti più profondi e raggruppati in modo da dimostrare all’animo dubbioso dei più come le idee più avanzate incontrino dovunque un favore invisibile e spesso inconscio, quando nella società si verifica un risveglio dei pensieri. Fare che si senta di partecipare al palpito del cuore umano in tutto il mondo, alla sua ribellione contro le ingiustizie secolari, ai suoi sforzi per elaborare nuove forme di vita, questo dovrebbe essere il compito essenziale di un giornale rivoluzionario. È la speranza e non lo sconforto che porta alla vittoria una rivoluzione.
Gli storici ci dicono spesso che questo o quel sistema filosofico ha prodotto un certo cambiamento nel pensiero umano, e in seguito nelle istituzioni,ma questa non è la storia. I maggiori filosofi studiando la loro società non hanno fatto che afferrare gli indizi dei futuri mutamenti, ne hanno capito i rapporti intimi e, aiutati dall’induzione e dall’intuizione, hanno predetto quel che sarebbe avvenuto. Anche i sociologi hanno tracciato degli schemi di organizzazione sociale partendo da alcuni principi e sviluppandoli nelle loro conseguenze logiche, così come da pochi assiomi in geometria si arriva a una conclusione; ma questo non è sociologia. Non si può fare una giusta previsione sullo sviluppo di una società se non si tengono d’occhio i più tenui indizi di una vita nuova, separando i fatti fortuiti da quelli organicamente essenziali e costruendo la generalizzazione su queste fondamenta.
Era questo il sistema di pensiero al quale cercavo di abituare i nostri lettori – servendomi di parole chiare e comprensibili, in modo da abituare i più umili a giudicare da sé la direzione in cui cammina la società e a correggere da sé il pensatore se costui arriva a conclusioni false. Quanto alla critica delle condizioni presenti, ne feci solo quando era necessario per mettere a nudo le radici dei mali e per mostrare che le ragioni prime di tutti i mali sociali sono un feticismo vivo e profondo per le sopravvivenze antiquate di fasi già superate dell’evoluzione sociale e una grande inerzia del pensiero e della volontà.

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