3.4.11

Il lavoro in ginocchio. Papi, vescovi e politicanti (da "micropolis on line")

Il ritorno del paternalismo.
I cronisti hanno raccontato che sabato 26 marzo il pastore tedesco Benedetto XVI si è incontrato con “il mondo del lavoro” della diocesi di Terni-Narni-Amelia. Hanno usato toni alati e commossi, dando spazio alle note di colore: la sala insufficiente a contenere tutti i fedeli, il maxi schermo allestito in Piazza San Pietro, la carovana dei bus e la trafila dei mezzi privati, i regali al papa (un casco da lavoro, bianco, e la maglia delle “fere” ternane con il numero 16 e la scritta Joseph). Non tutti si sono avventurati in indicazioni numeriche, ma gli  entusiasti del Pd danno per buona la stima più alta: ottomila.
Nei resoconti monsignor Paglia appare untuoso e tronfio come al solito (" Padre Santo, siamo venuti con gli operai e le loro famiglie per confidarle le nostre preoccupazioni”).  Le sue confidenze a Ratzinger sono vere e sacrosante: un giovane su tre che non trova lavoro, le industrie in sofferenza, la crisi del polo chimico ternano; ma non rinuncia a farsi bello comunicando che il consiglio superiore di sanità ha autorizzato ricerche sulle cellule staminali dell’ombelico a Terni, nell’Istituto che lui stesso dirige.
Ma Ratzinger  per unzione e untuosità non è secondo a nessuno e perciò nel suo discorso torna a proclamarsi “un umile lavoratore nella vigna del Signore” e affida tutti i lavoratori “alla protezione di San Giuseppe”, sottolineando il ruolo dell’operare materiale e fisico nel piano divino della redenzione e della salvezza. Parla con rammarico di infortuni mortali sul lavoro, ma anche lui, a quanto pare, occulta le responsabilità padronali usando l’odiosa formula “morti bianche”, invece della corretta espressione di un tempo “omicidi in camice bianco”, che conteneva un riferimento a chi sfrutta, organizza e dirige il lavoro nelle fabbriche e nei cantieri. Anche l’ipocrita del Vaticano, insomma, lascia intendere non solo l’assenza di sangue (che invece spesso c’è) ma soprattutto di colpevoli. Per chiudere “mette nelle mani di Dio le ansie e preoccupazioni” dei lavoratori, auspicando che, “nella logica della gratuità e della solidarietà”, sia assicurato un lavoro sicuro, dignitoso e stabile.
Questi patenti tentativi di strumentalizzazione del disagio operaio e popolare, il carattere oppiaceo di cotali preteschi sermoni, diretti a fiaccare la combattività del mondo operaio, a suggerire rassegnazione e subordinazione, a favorire la sconfitta, dovrebbero sollecitare moti d’indignazione a sinistra anche se i preti sono preti e fanno da secoli questo ignobile mestiere. E invece un certo Stefano Fassina, membro della segreteria Pd come Responsabile Economia e lavoro,  sul “Corrierino dell’Umbria”, in un articolo dal titolo Un patto per il lavoro, il 26 marzo stesso li approvava ancora prima di sentirli, toccando inauditi livelli di insulsaggine, vacuità, piaggeria, ottusità morale e politica.
Qui mi basta citare qualche passaggio: “Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in veritate,  ha illuminato attraverso la dottrina sociale della chiesa il passaggio di fase in corso. Si è misurato, in particolare, con il nesso lavoro-persona. Ha colto, meglio di tanti altri, le cause profonde della rottura dell’insostenibile equilibrio dell’ultimo trentennio. Ha indicato, ancora una volta, l’orizzonte del neo-umanesimo come bussola del cambiamento progressivo. Mons. Paglia si è  inserito nella scia della riflessione papale sul lavoro… ha proposto fertili riflessioni sulla dimensione etica dell’economia e sulle grandi sfide del lavoro e di uno sviluppo sostenibile… La riflessione della chiesa sul lavoro trova grande attenzione e larga sintonia nella cultura progressista, sia politica che sindacale, aperta a cogliere le discontinuità di fase. Anche per noi, il lavoro è pilastro indispensabile per la dignità della persona”. Naturalmente dell’ossequio di Fassina fa parte la critica al primato dell’economia: la persona è più importante – dice il piddino in ginocchio – “perdio!”.
Poi, naturalmente, Fassina fa  addirittura l’ottimista, dice che bisogna addirittura “cogliere le potenzialità della crisi”, ricorda la presenza a Terni di Bersani e l’impegno dei piddini umbri in Regione e nelle Amministrazioni locali, propone – senti un po’ la novità - . “un patto per la crescita ed il lavoro tra le forze politiche, economiche e sociali più responsabili”. Chissà se tra i contraenti di questo “patto” che dovrebbe aprire “una fase costituente” ci mette la Cgil! Certo è che delle sue iniziative per il lavoro in Umbria il piddino non si ricorda, neanche dell’imminente “treno del lavoro” (che poi si è svolto, con discreto successo, ieri, 2 aprile). Sono tra i primi ad essere convinto che quel che la Cgil umbra fa è molto poco rispetto alla virulenza della crisi, che essa non riesce a uscire del tutto da una logica consociativa; ma almeno continua a voler rappresentare i lavoratori, cerca di mobilitarli, di affermarne il ruolo autonomo di proposta e di lotta. E’ poco, ma meglio di niente ed è in linea con la storia migliore del movimento dei lavoratori. “Il riscatto del lavoro dei suoi figli opra sarà” orgogliosamente canta l’Inno dei lavoratori scritto da Filippo Turati: sarà la loro lotta a garantire dignità e diritti e non la benevolenza dei signori, dei padroni, dei preti, dei politicanti. Contro questa autonomia, di pensiero e di azione, torna ora massicciamente in campo il paternalismo di tutti quelli che vorrebbero proteggere il lavoro come i “protettori” fanno con le bagasce: vogliono il lavoro non solo sfruttato, ma sottomesso e inginocchiato. Vorrebbero che invece di contare sulla propria forza, unità, coscienza, gli operai e i lavoratori confessino ai preti il loro peccati, confidino ai vescovi e al papa le loro pene e si affidino ai padroni illuminati, ai politicanti democratici, al padreterno e a sangiuseppe. “A’ da passà a nuttata”.

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