10.4.11

Le care memorie e il tronfio napoletano. Risorgimento tra storia e metafora.

Sandro Portelli è americanista di vaglia, studioso di musica popolare americana e italiana, storico dell’oralità tra i più importanti. Ed è un compagno di quelli che non mollano. Tra le sue opere qui mi va di ricordare un vecchio saggio, pubblicato su “Segno critico”, sulla morte di Luigi Trastulli nel corso di una manifestazione comunista degli anni cinquanta, giocato tra riscontri documentali e memoria collettiva degli operai ternani. E anche quello sulle Fosse Ardeatine (L’ordine è stato eseguito) per il quale vinse il premio Viareggio. Qui propongo una riflessione sulla memoria del Risorgimento, un articolo del “manifesto” del 18 marzo 2011 a commento dello stupidissimo centenario e mezzo per cui si è battuto come un leone il tronfio napoletano. (S.L.L.)
Risorgimento tra storia e metafora
di Alessandro Portelli
Molti anni fa, in un’intervista in cui si parlava d’altro, una signora mi raccontò la seguente storia. Il giorno del suo matrimonio, mi disse, dopo essere andato a casa con la sposa, mio bisnonno uscì per andare a comprare da mangiare. Mentre era in strada, passò di lì Garibaldi con la sua truppa. Mio bisnonno si scordò della spesa e della sposa, si aggregò a loro, andò a liberare l’Italia e tornò a casa solo quattro anni dopo.
Il 17 marzo, in una trasmissione radiofonica sull’unità d’Italia, si parlava del rapporto fra storia e metafora, e a me è venuto in mente che tutta la narrazione di questi giorni si regge su una metafora: Risorgimento - qualcosa che torna a vivere. E allora ho pensato anche a quello che dice Toni Morrison: ogni cosa morta che torna a vivere duole. Non capiamo il significato stesso della parola “risorgimento” se non ci domandiamo dov’è che questa cosa, tornando a vivere, duole.
In questo ci può aiutare la memoria – non tanto quella consolidata di libri, celebrazioni e musei (che vanno benissimo) ma quella più sotterranea e inafferrabile che passa per le famiglie, per le narrazioni private e familiari. Un’altra signora, anche lei discendente di garibaldini: mio nonno si doveva fare prete, e venne via dal convento. Si dette alla macchia, stava nel bosco e per il bosco passò Garibaldi, e andò con Garibaldi”. In ogni “nascita di una nazione” c’è un momento di rottura e un momento di ricomposizione – è la dinamica americana di rivoluzione\costituzione, e forse anche la nostra, risorgimento\unità. In tutte le narrazioni familiari che ho ascoltato, andare con Garibaldi comincia con una rottura – con la famiglia (due fratelli ternani “si arruolarono con Garibaldi di nascosto dai genitori: lasciarono una lettera e andarono tutti con Garibaldi”), con la chiesa (la figlia di un partigiano ucciso alle Ardeatine raccontava di un nonno anche lui scappato dal seminario per andare con Garibaldi), con l’ordine costituito: il parroco che mi fece la prima comunione mi disse anni dopo che i garibaldini erano “gente un pochino esaltata, senza regolarità di cose”, seguaci di “un brigante fortunato”. Una pronipote mi spiegava che in famiglia sono molto fieri delle amicizie del bisnonno con Mazzini e Garibaldi, ma tendono a minimizzare il fatto che per queste amicizie fece anni di galera. Un antenato eroe va bene, un antenato galeotto un po’ meno; ma – ed è questa la dialettica della nascita delle nazioni – si è galeotti e briganti prima di essere eroi.
Ogni nascita di nazione è costituzione di un nuovo ordine ma anche traumatica rottura e violazione di un ordine precedente; e come spesso nei traumi, la coscienza si organizza per esorcizzarlo. Qui ci aiuta anche quella forma speciale di memoria che è la letteratura. Il vero racconto della rivoluzione americana è “Rip Van Winkle” di Washington Irving, in cui il protagonista si addormenta prima della rivoluzione e si sveglia vent’anni dopo, a cose fatte. Ma una storia del genere c’è anche nella letteratura italiana: si chiama “Mastro Domenico” (1871), dello scrittore toscano di Narciso Feliciano Pelosini, e racconta di un personaggio che si addormenta del Granducato di Toscana e si sveglia anni dopo nel Regno d’Italia. Da un ordine a un ordine, esorcizzando il trauma del doloroso e disordinato ri\sorgimento.
In tanti di questi racconti familiari Garibaldi “passa di lì”. E’ stato ascoltandoli che ho capito perché non c’è luogo dove non ci sia una lapide con scritto “qui ha dormito Garibaldi”: perché Garibaldi l’Italia se l’è fatta davvero tutta, da Quarto al Volturno, da Roma a Ravenna, dall’Aspromonte a Bezzecca. Quest’eroe brigante in viaggio che aggrega seguaci estemporanei è davvero un personaggio “on the road”, e pure coi capelli lunghi (ha scritto Omar Calabrese che la figura letteraria che più gli somiglia è Sandokan – un pirata, appunto, e un combattente antimperialista). Poi gli fanno il monumento, ma varrà pure la pena di ricordarci che “Garibaldi fu ferito”. E da chi.
Delle tre R maiuscole che scandiscono la nostra storia – Rinascimento, Risorgimento, Resistenza – solo la resistenza, non è una metafora (anche se hanno provato a negarla con un’altra metafora, quella della “morte della patria” l’8 settembre), perché i partigiani hanno resistito letteralmente. E infatti in questi giorni dovremmo tenere ben presente che quelli che a riempirsi la bocca di Patria sono stati proprio quelli che nel 1943 l’hanno spaccata in due, fra Brindisi e Salò. Per rimettere insieme l’Italia ci sono voluti i partigiani: li chiamavano banditi (“siamo i briganti della montagna”); ma tanti di loro si chiamarono “garibaldini”.

“il manifesto” 18 marzo 2011

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