8.4.11

La Fiat se ne va (Loris Campetti)

Marchionne è tornato in Italia con un ruolo da primo attore. Prima all’assemblea degli azionisti FIAT, poi oggi con una sorta di proclama su “La Stampa”, il giornale storico della società degli Agnelli. In un caso e nell’altro con toni da padrone assoluto. “Puzza di padrone” - dice di lui la mia amica Laura Omero. Sul “marchionnismo” come ideologia, sui suoi rapporti con il “berlusconismo”, c’è tanto da ragionare e il suo articolo sul quotidiano torinese ne offre occasione. Su una cosa invece mi pare non ci siano dubbi: le promesse condizionate sul ruolo degli stabilimenti italiani, dei lavoratori italiani, dello stesso manegement italiano, in una multinazionale a centralità nordamericana sono prive di consistenza e di sostanza: la Fiat dall’Italia se ne va. Credo che lo abbia scritto e spiegato con chiarezza e brevità il marchigiano Loris Campetti su “il manifesto” del 31 marzo. Leggere (o rileggere) per credere. (S.L.L.)


La Fiat se ne va dall'Italia, è questo il succo dell'assemblea degli azionisti che si è svolta ieri a Torino, senza neanche pagare la luce. Anzi, si frega pure le lampadine: per chiudere in bellezza 112 anni di storia patria, la coppia Marchionne-Elkann ha comunicato che distribuirà agli azionisti per lo meno 100 (cento) milioni di dividendi nel 2011 con cui potranno festeggiare l'orizzonte a stelle e strisce. E' il corrispettivo degli stipendi annuali di 8-9 mila tute blu in cassa integrazione. Perché stupirsi, se è vero che Marchionne guadagna come 1.037 suoi operai?
Adesso il manager più famoso del mondo ha detto che se faranno come vuole lui, comprese 120 ore di straordinario e rinunceranno a far pipì, anche gli operai italiani, almeno quelli di cui l'azienda avrà bisogno, guadagneranno un po' di più. Del resto, le ore di straordinario di Marchionne non si contano, neanche gliele pagano. C'è qualcosa di immorale in questa storia, ma solo la Fiom pare scandalizzarsi. Dovrebbe pensarci il sindaco uscente di Torino Sergio Chiamparino, ogni volta che va a giocare a scopone con il suo amico, l'altro Sergio.
Producono poco le fabbriche italiane della Fiat, sono sottoutilizzate. Non va bene, gli operai devono saperlo e rinunciare a ogni certezza sul futuro, al massimo cassa integrazione per i più fortunati. Di integrativo neanche a parlarne, visto che non producono. Come se fosse colpa loro se gli impianti non sfornano automobili, e non di chi della Fiat è padrone e gestore. Senza incentivi pubblici e senza nuovi modelli, di cui se va bene si comincerà a parlare a fine anno a Pomigliano con la Panda e a fine del 2012 a Mirafiori per il suv Chrysler, le automobili della pregiata ditta torinese non si vendono in Italia né in Europa. Sarà per questo che Sergio Marchionne pretende dagli operai italiani e dai sindacati carta bianca su orari, salari, organizzazione del lavoro, velocità della catena di montaggio, straordinari? Sarà per questo che cancella con atti d'imperio il diritto a scioperare, ammalarsi, eleggere i propri rappresentanti, come se la dittatura in fabbrica potesse supplire alla mancanza di automobili da vendere?
Ieri a Torino si è conclusa la storia della Fiat che abbiamo conosciuto dal 1899. Ora di Fiat ce ne sono due, una che fa (o non fa) auto e un'altra che fa camion e trattori. In sostanza, la Fiat auto non c'è più, c'è la Chrysler, salvata dalle pensioni degli operai americani, che Marchionne continua a scalare. E gli stabilimenti italiani che supereranno la cura Marchionne somiglieranno sempre più alle machiladoras messicane, fabbriche cacciavite senza libertà. Del resto, che te ne fai dell'Italia? Nel cuore degli Agnelli, non solo di Marchionne, c'è sempre stata l'America. L'ha ricordato ieri il presidente John Elkann narrando agli azionisti che il suo trisnonno senatore - quello che inaugurò Mirafiori insieme a Benito Mussolini, ma questo John non l'ha detto - già nel 1906 sbarcò a Detroit per fare affari con i fabbricanti locali di automobili. In Italia, invece, viveva con le commesse militari del governo Giolitti e costruiva autoblindo per la prima guerra di Libia.

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