21.4.11

Junger e le droghe (di Bruno Ventavoli)

Hashish. Lsd. Peyote. Marijuana. Per tutto quelllo che Jünger s'è fatto nella sua vita centenaria, con la Legge Fini, si beccherebbe almeno un ergastolo. E sarebbe davvero un destino bislacco che la destra di governo spedisse in galera l'autore più amato della destra europea.
Naturalmente Ernst Jünger il guerriero, il titano sdegnoso verso la modernità, l'anarca che visse di solitudine e onore, non fu certo apologeta dello sballo incondizionato. E quando vedeva la degenerazione sociale degli stupefacenti in America, con ragazzetti schiavi della delinquenza, col suo innato amore prussiano per l'ordine, auspicava che lo stato intervenisse. Ma pensava che il problema sulle droghe fosse troppo complesso, troppo legato agli abissi della spiritualità umana, per risolverlo con il semplice proibizionismo. E dopo le interviste di questi giorni con Hoffmann, il chimico svizzero «inventore» dell'Lsd, giova leggere Avvicinamenti, che Guanda ripropone in Italia (praticamente inedito, perché uscì nell'82, da una piccola casa editrice, Multhipla), cronaca affascinante, dionisiaca, filosofica, delle esperienze che Jünger fece con droghe di ogni genere. E giova parecchio rileggerlo, o scoprirlo, per capire che la cultura di destra radicale e autentica è agli antipodi di una certa destra buffonesca, sghignazzante, orgogliosa di denari, tv e bellezze mignottesche, che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
Il libro nacque in omaggio a Eliade. Parla di «droghe e ebbrezze» dal punto di vista chimico, botanico, etnografico, ma anche da quello personale. E divaga nella letteratura, nella filosofia, nel mito, con Poe e De Quincey, Dostoevskij e Alberto Magno, con il Walhalla e l’estasi degli Apostoli, e gli adepti di Hasan Sabbah che diventavano assassini fumando hashish. Lo svevo Jünger (1895-1988) si forgiò l'onore sui campi di battaglia, come un eroe di foschi miti nordici. Nelle tempeste d'acciaio della prima guerra mondiale fu ferito 14 volte, rimase nell'esercito dopo il crollo del Reich, odiò la repubblica di Weimar e il caos rivoluzionario, servì nella legione straniera, fiancheggiò il nazionalsocialismo dei primordi. Sul finire degli anni 20, frequentava Goebbels, Brecht, Ernst Niekisch, ideologo dell'alleanza tra germanesimo e anima russa. Ma quando i nazisti presero il potere, pur affascinato dal nuovo ordine che la Germania ricostruiva, storse il naso verso la vittoria di un certo spirito plebeo (illuminante sul Führer è il saggio Cane e gatto, in appendice a Avvicinamenti), e rifiutò gli onori che il Partito gli offriva. Uscì dall'associazione dei reduci dei fucilieri quando furono espulsi gli ebrei. E rischiò anche di essere condannato a morte per il romanzo Sulle scogliere di marmo, dove prospettava l'idea del tirannicidio, perché intervenne direttamente Hitler a salvargli la vita. E quando la Germania scese nuovamente in guerra servì con lealtà nella Wehrmacht, fino in fondo, sopravvivendo anche al dolore per la perdita del figlio sul fronte russo. Dopo la disfatta, non fu voltagabbana, continuò a combattere, in solitudine, studiando di tutto, dagli orologi a polvere agli insetti, esplorando le forze dell'eros, dell'arte, della spiritualità, rintanato in quei territori selvaggi che la modernità volgare e capitalista cerca di eludere e addomesticare.
E' in questa carriera coerente di «anarca» che si iscrive l'esperienza delle droghe. Non fuga di un debole dalla realtà, ma strumento per viaggi iniziatici come gli antichi sciamani, come i mistici che cercavano la luce di Dio, come i sapienti che si tuffavano negli abissi sconosciuti dell'essere, oltre i confini del tempo e della materia. Jünger comincia a provare le droghe da giovane, quando il Reich si dissolve. Prova l'etere e il cloroformio mentre indossa la divisa militare. I superiori sanno che è un ottimo soldato, leale e coraggioso. Ma diffidano di lui, perché ama troppo la letteratura. Dopo una serata a discutere di Rimbaud, si stordisce di stupefacenti. Sprofonda in mondi sconosciuti. E si risveglia nauseato, in mezzo al proprio vomito, e poi si unisce ai commilitoni che fanno esercizi ginnici con la coscienza in subbuglio. Tramite un amico giocatore d'azzardo usa la cocaina, molto di moda negli anni trenta, e non resta deluso dalla gelida lucidità che regala, anche se prova disgusto per i tossici dallo sguardo spento che affollano i caffè. L’oppio lo avvicina a bagliori di una sicurezza senza tempo, e lo lascia prostrato nel fisico. Comica, quasi grottesca è l'esperienza con un estratto di cannabis. Jünger lo assume in un albergo di Halle, in viaggio con la madre. Forse esagera con le dosi, perché compie un viaggio estremo che lo spaventa. Preso dal panico, corre per l'albergo in pigiama, urlando, finendo nelle camere dei clienti, scandalizzando una signora seduta sul bidè. La madre preoccupata convoca un medico che lo riporta in sé con una potente tazza di caffè e pensa che la causa di quella turbolenta nottata sia una carpa alla polacca avariata. Il dottore sorride, annuisce sornione, e Jünger, vergognoso rinuncia per anni ad altre sbronze tossiche. Torna alle droghe negli anni cinquanta. Dedicandosi a varie piante «messicane», immergendosi in labirinti temporali che lo riportano alle antiche civiltà americane, distrutte dall'occidente. Nel '51 si reca dall’amico Hoffmann: aspettano che la moglie del chimico svizzero vada a fare una passeggiata, e prendono alcune gocce di Lsd. E' un'esperienza affascinante. Ma solo un assaggio, perché la quantità è troppo modica. Decidono di riprovare con una dose maggiore. Devono rimandare più volte, per colpa di influenze, strade ghiacciate, incidenti vari. Finché ripetono l'esperienza con grande soddisfazione, in un mondo metafisico di colori ed estasi di leggerezza.
Le droghe, per Jünger, sono state compagne lungo l'intera vita ultracentenaria. Conosceva benissimo la loro pericolosità e sapeva che il loro abuso porta alla distruzione dell'individuo. Ne facevo uso per dilatare la conoscenza, come avviene con l'arte, la scienza, la filosofia, per avvicinarsi alle profondità dell'essere, oltre il tempo, oltre gli eroi, oltre gli dei, dove l'uomo può percepire la sintonia con le forze del cosmo. Certo - e gli era chiarissimo -, l'uso di quelle sostanze possenti non è da tutti. Occorre disciplina, saggezza, senso del sacrificio, perché ogni «viaggio» è una specie di furto prometeico, che richiede una restituzione. Bisogna essere titani per dominarle, e non annoiate comparse d'un sabato sera in discoteche di provincia. Ma insieme a Nietzsche, Spengler, Erodoto, lo aiutavano a comprendere l'«übermensch», la dimensione dell'«oltre uomo» venturo; a tenersi in disparte dal mondo di merci e di consumi, perché il grande anarca si mantenne guerriero solingo, mai sarebbe andato a difendere la destra in salotti mediatici, tra esperti di calcio e ragazze dai seni gonfi.

da "La Stampa" - 17 gennaio 2006  

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