21.4.11

La locandiera di Gorizia (di Lorenzo Da Ponte)


Lorenzo Da Ponte
Tempra d’avventuriero e spirito libertino, Lorenzo Da Ponte fu non solo l’ottimo librettista dei tre grandi melodrammi italiani di Mozart ( Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte ) ma anche, e non è secondario, l’autore che, proprio per il Don Giovanni, seppure in un contesto frivolo e beffardo, fece cantare a piena voce «Viva la libertà» in un’epoca in cui il termine era guardato con un certo sospetto.
Nato da famiglia ebrea a Vittorio Veneto, che allora si chiamava Ceneda, come Emmanuel Conegliano, prese il cognome del vescovo che battezzò lui e tutta la sua famiglia quando aveva 14 anni: il padre, rimasto vedovo, aveva deciso di abbandonare la religione ebraica per potersi sposare con una giovane cristiana.
Di lì in poi le avventure non gli mancarono. Si ritrovò seminarista, prete, insegnante amatissimo, fuggiasco per la passione del gioco e per le donne, drammaturgo di corte a Vienna, impresario teatrale a Londra sommerso di debiti, libraio, di nuovo insegnante e molte altre cose a New York, dove morì nel 1838 dopo aver creato la prima cattedra americana di letteratura italiana in quel King’s College che ora è la Columbia University.
Pubblicò per la prima volta proprio negli Stati Uniti le sue Memorie, ove probabilmente aggiusta un po’ le cose per non sparlare troppo di sé, ma con le quali offre un quadro assai vivace della società settecentesca, oltre che della propria instabilità di ebreo errante, seppure convertito.
Dall’edizione nei Grandi Libri Garzanti (Milano 1976) ho trascritto questa curiosa paginetta ambientata in una città asburgica di confine, Gorz (Goriza in sloveno e Gorizia in italiano), che nella Seconda metà del Settecento era il centro più importante di quello che Da Ponte chiama “Friuli tedesco” e che ufficialmente era il Grafschaft Görz und Gradisca (la Contea di Gorizia e Gradisca) sotto l’amministrazione del sovrano di Vienna. (S.L.L.)



La locandiera di Gorizia
Gorizia è una gentile, antica e nobile città del Friuli tedesco, situata sulle rive del Lisonzo e distante poche miglia (credo dodici) dal Friuli veneto. Vi arrivai il primo di settembre dell'anno 1777, prima cioè d'esser giunto al ventinovesimo della vita. Non conoscendo io alcuno in quella città, non avendo meco portato lettere per alcuno, andai a dirittura alla prima locanda che trovai, portando un fardelletto sotto il braccio, che conteneva parte di un abito, poca biancheria, un Orazietto (che portai con me più di trenta anni, perdei poscia a Londra, e ritrovai qualche tempo fa a Filadelfia), un Dante con delle note fatte da me e un vecchio Petrarca.
Questo equipaggio non ispaventò la locandiera. Appena entrai nella locanda mi venne incontra, mi diede un'occhiatina espressiva, che mi disse quanto poi nacque tra noi e mi menò in una buona camera. Questa donna era molto bella, giovane, fresca, e parea sopra ogni creder vivace. Era vestita alla foggia tedesca: avea una cuffietta a trine d'oro sul capo; una collana di catenella finissima di Venezia le cingea almen trenta volte un collo rotondo e più candido d'alabastro, e, scendendo in crescenti giri, cadeva fin al bel seno, che vezzosamente in parte copriva; un giubbetto ben attillato le stringeva le tornite membra con lasciva eleganza; ed una calzettina di seta, che terminava in due scarpette color di rosa, mostravan al cupido sguardo la forma ammirabile di un piccolissimo piede.
Non erano ancora suonate le sei della sera; ma, come io non aveva preso tutto quel giorno che qualche bicchier di vino e un poco di pane, le chiesi da cena. Per mia disgrazia non parlava che tedesco o cragnolino (il dialetto sloveno della Carniola n.d.r.), ed io non capìa una parola di quello ch'ella diceva a me, né ella di quel ch'io a lei.
Cominciai a farle de' cenni colle mani, colla bocca, co' denti, ch'ella prendeva, quanto mi parve, per complimenti amorosi. Io aveva un appetito che avrebbe divorato i sassi. Mentre m'affaticava così, per farle intendere che avrei voluto da mangiare, passò una servetta davanti alla porta della mia camera con un piatto di pollastri fritti, destinati per altri viaggiatori. Me le scagliai addosso colla prestezza d'un gatto, ne presi un quarto, e me lo trangugiai in un momento. Io lo trovai tanto delizioso, che credo d'aver inghiottito anche le ossa. Capì allora quel ch'io volea, e in poco tempo vidi portarmi una cena esquisita, resa più dolce e piacevole dalla continua compagnia della leggiadra ostessina. Non potendo parlare, cercavamo capirci colle occhiate e colle gesticolazioni. Quando venner le frutta, cavò dalla tasca un coltellino colla lama d'argento, levò la buccia a una pera, ne tagliò la metà per me e mangiò l'altra metà; poi mi offrì il coltellino ed io feci altrettanto. Bevve un bicchieretto di vino con me, e m'insegnò a dir Gesundheit; e da' movimenti del bicchiere intesi che volea dirmi ch'io beessi alla sua salute, com'ella beeva alla mia. Come io non aveva proferito bene questa parola, me la fece ripetere due o tre volte, e sempre empiendo e vuotando il bicchieretto di nuovo vino.
Non so se Bacco o qualche altra divinità cominciasse a scaldarle un pochetto il sangue. Dopo due buone ore di simile conversazione, una tinta vivissima le coloriva le guance e le brillavan negli occhi le fiamme della voluttà: ella era divenuta una vera bellezza. Sorgeva dalla sua sedia, si contorceva, mi guardava, sospirava, tornava a sedere; tutto questo però alla presenza di due vaghe servette, vestite alla sua foggia, che ci avevano servito tutto il tempo della cena e di quella conversazione.
Finalmente una di quelle partì, e dopo alcuni minuti la padrona fe' cenno all'altra d'andarsene, dicendole qualche cosa in tedesco, ch'io non capiva. In pochi istanti la servetta tornò: portolle un libro, e ripartì. Quando restammo soli, venne presso di me, e, cercando in quello alcune parole, vi mise dei pezzetti di carta e mi fe' cenno di leggere. Era quel libro un dizionario tedesco e italiano: a' lochi indicati lessi queste tre parole: «Ich liebe Sie»; e trovai che significavano «Io amo voi». Come la seconda parte di quello era il dizionario italiano, così cercai la congiunzione «e» e le feci rileggere le stesse parole «und ich liebe Sie». La scenetta allora divenne graziosissima: conversammo almeno un'ora e mezzo coll'aiuto del dizionario, e ci dicemmo scambievolmente diverse cose che parevano dover finire assai seriamente. Fortunatamente arrivarono alla porta diverse carrozze; la bella locandiera fu contra sua voglia obbligata partire, ed io alfine rimasi solo.
Mi posi allora a far delle riflessioni su questo bizzarro fatterello. «Come è possibile,» mi diceva io, «che in un paese dove regna Maria Teresa, principessa tanto famosa per la severità delle sue leggi, in un paese dove si fanno delle visite notturne, dove un forastiere bisogna che dica con tanta solennità, appena arrivato, di dove viene, dove va, che cosa fa, e dove è obbligato di dare in iscritto nome, cognome, patria, ecc. ecc. ecc.; in un paese, in fine, dove i preti, i frati e le spie del governo hanno sì grande influenza; com'è possibile,» dissi, «che nelle locande vi sia una tal libertà, che può passar in un attimo al più scandaloso libertinaggio? Contraddizioni in tutto, anche nei governi!»
Mentre io stava immerso in questo pensiero, ecco l'ostessina tutta allegra, che torna in camera colle due ragazze medesime ch'avevano assistito alla cena. Portavano queste dei gelati e de' zuccherini, che per forza ho dovuto prendere con lei; intanto una delle ragazze cominciò a cantare piacevolmente una canzonetta tedesca che cominciava: «Ich liebe einen welschen Mann» (io amo un uomo italiano). Mentre costei cantava, mi ricordai di Calipso e di Leucotoe, e mi figurava in quella situazione di esser Telemaco. Terminata la canzonetta dalla ninfa tedesca, partì coll'altra servetta, ed io rimasi solo colla padrona novellamente. Intesi allora che io aveva bisogno d'un Mentore. Il cortese Morfeo fu il mio. Presi in mano il dizionario, e le feci veder la parola «sonno».
Fu discretissima. Suonò il campanello, entrò una delle sue serve e l'ostessina con bellissimo garbo partì. La serva scoperse il letto, mostrommi dov'era l'acqua per lavarmi e per bere, e si fermò con ridente volto presso di me. Io non intendeva questa cerimonia. Pensai che aspettasse la mancia; le offersi una moneta, ch'ella rifiutò con disdegno, ma, prendendomi con molta grazia la mano, v'impresse un bacio e lasciommi. Tutta questa commediola, che non durò meno di cinque ore, mi divertì estremamente. Ma non poteva cacciare dalla mia testa i preti, i frati, Maria Teresa e tutto il suo codice penale; cose tutte di cui io aveva udito parlare come della santissima inquisizione di Spagna. Finalmente m'addormentai. Levatomi la mattina più tardi del mio solito, trovai nella vicina camera una eccellente colazione e l'ostessa, che m'aspettava. Io aveva imparato ormai tutti i principali complimenti, per esempio «Buon giorno», «Come state?», «Avete dormito bene?» Ma nessun complimento a quella donna piaceva fuorché «Ich liebe Sie». Dopo la colazione fu obbligata di lasciarmi, ed io, tornato nella mia camera, trovai due o tre donne che m'aspettavano con delle cestelle piene di varie mercatanzie di ogni sorta, che vendevano per le taverne a' forestieri. In due ore ne vennero almeno venti. Anche questa usanza mi parve assai strana: in un paese, ove con tanto rigore si vigilava sul buon costume, sotto il pretesto di vendere aghi, spille, fazzoletti, collane, nastri e simili bagattelle, era molto facile assai cose vendere, che nelle cestelle non trovansi.
Passai dieci o dodici giorni nell'albergo di questa donna, ed, ora col dizionario, ora colla grammatica alla mano, facemmo quattro o cinque ore di conversazione ogni giorno, e quasi sempre sull'argomento medesimo, e che sempre finivano con un «Ich liebe Sie». A capo di questi giorni m'accorsi di aver fatto un vocabolarietto, quasi tutto composto di parole e di frasi d'amore, e questo mi servì poi moltissimo nel corso delle mie giovenili conquiste in quella città ed altrove. M'accorsi però anche d'un'altra cosuccia, a cui non ci aveva molto pensato prima: che la mia borsa, cioè, era quasi vuota; perché, sebbene io spendeva pochissimo in quella locanda, quel pochissimo aveva bastato a esaurire il più che pochissimo ch'io aveva portato meco in Gorizia. Quella buona femmina s'accorse del mio vicino imbarazzo, e, con una generosità poco comune a persone del suo mestiero, mi fece delle offerte che m'intenerirono; ma io non ho mai conosciuto il mestiero di decimar le borse alle donne, che però hanno molte volte decimato le mie: presi perciò la risoluzione di lasciare la sua locanda. Restammo però buoni amici, ed io ho conservato per lei de' sentimenti di sincera benevolenza e di stima fin ch'ella visse, il che fu pel solo spazio di sette mesi, al fine de' quali morì, all'età di ventidue anni, d'una febbre infiammatoria. Io diedi molte lagrime a quella bella ed amabile giovine, che meritava esser, più tosto che una locandiera, una principessa. Fu questa senza dubbio una della migliori donne ch'io ho conosciuto in ottant'anni di vita. Forse se non moriva… Ma la morte “fura i migliori e lascia stare i rei”.


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