Nella rete leggo per caso di un tal Porchietto, assessore in Piemonte per il popolo di Berlusconi, che avrebbe richiesto al governo un fondo per i “manager over50” rimasti disoccupati. La riflessione che segue, del professore Beccaria, dalla sua rubrica su “Tuttolibri”, mi pare quanto mai opportuna. (S.L.L.)
Porchietto |
Che la parola straniera sia spesso usata perché fa più moderno, lo notava cent’anni fa il Panzini nel suo Dizionario moderno, per esempio alla voce francese chef. Rispetto a capocuoco - scriveva - «la parola francese ha presso di noi senso di eccellenza rispetto al consimile vocabolo nostro», «come tutti i monosillabi stranieri di aspro suono, sembra esercitare una specie di incanto su le nostre orecchie in confronto delle piane, equilibrate, armoniche, compiute parole di nostra lingua».
Del francese ha preso il posto oggi l’inglese. Ogni manager o persona in carriera usa anglismi a gogò perché altrimenti potrebbe essere tacciato di scarsa professionalità. E anglismi snobistici ed inutili si usano spesso coi sottoposti, fanno più professional. Nei convegni diciamo badge in luogo di «distintivo», o «targhetta di riconoscimento» perché fa più moderno.
L’eccesso conduce anche a commettere errori: penso all’insistente pronuncia anglicizzata /’steig’/ del francese stage, il periodo di tirocinio o di perfezionamento professionale presso un’Università o un’azienda.
Ma ora ci sono casi di attentati ben più gravi, quando penso all’adozione dell’inglese nell’insegnamento universitario. Si sostiene che soltanto così si preparano gruppi di allievi alla comunicazione internazionale. Ciò capita per ora soltanto per materie economico-finanziarie, ed anche in qualche Politecnico. Ci si sente parte di un’unica grande realtà globale che annulla le singole identità linguistiche.
Ebbene, vorrei che si meditasse sulle parole di Francesco Sabatini quando osserva: «Siamo certi che i docenti abbiano sempre la perfetta competenza linguistica per far lezione in inglese? La didattica non è automatica ripetizione di un sapere già codificato e verbalizzato in discorsi depositati nella nostra mente: è un momento, per il docente, di migliore esplicazione a se stesso e quindi di approfondito riesame delle conoscenze possedute, un’attività che esige spesso il ricorso improvviso alle risorse più fresche e creative del linguaggio, quelle alimentate soprattutto dalla pratica di una lingua liberamente usata in ogni circostanza della vita».
“La Stampa” 16 febbraio 2008
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