A giugno 2011, in margine a un convegno romano su Melville e l’antica Roma, uno studioso Usa mette in relazione il mito di Roma nell’Ottocento nordamericano con le polemiche attuali sull’eccezionalismo, l’ideologia del primato americano che ha assunto nelle politiche imperialistiche il ruolo di cemento che un tempo aveva l’anticomunismo. Un saggio breve e utile. (S.L.L.)
Washingthon Il memorial Jefferson costruito a imitazione del Pantheon di Roma |
Nella attuale politica degli Stati Uniti il cosiddetto eccezionalismo è diventato una cartina al tornasole del patriottismo, della fede religiosa e della visione politica. La controversia è stata innescata da una risposta del presidente Obama a una domanda che gli è stata posta da un giornalista francese a Strasburgo nel 2009.
Quando gli è stato chiesto se credesse nell’eccezionalismo americano, Obama ha dato una risposta più nello stile di Tocqueville che in quello di Reagan: «Credo nell’eccezionalismo americano – ha detto – proprio come, sospetto, gli inglesi credono nell’eccezionalismo britannico e i greci credono
nell’eccezionalismo greco».
Eresia! Naturalmente l’avversario (sconfitto) di Obama alle elezioni del 2008 lo ha immediatamente attaccato come antipatriottico: John McCain ha infatti ribattuto al presidente che «sfortunatamente, alcuni politici hanno o dimenticato o scelto di ignorare i nostri gloriosi fondamenti».
Perduranti ipocrisie
Lo scorso aprile il rappresentante repubblicano Paul Ryan del Wisconsin (non di Roma, Wisconsin, oserei dire) ha ribadito l’importanza dell’eccezionalismo, vale a dire di un credo quintessenzialmente americano, applicabile a tutte le persone, in ogni luogo, e radicato «nella verità che tutti gli esseri umani sono creati uguali». Secondo Ryan, l’America promuove un’idea, non la sua storia o la sua cultura.
Ma ignorando la storia, Ryan molto opportunamente elide la schiavitù, l’ineguaglianza fra i sessi, la discriminazione razziale, e il lungo elenco dei trattati non rispettati con i nativi americani, tutte cose che hanno negato l’uguaglianza a una maggioranza di americani per oltre centocinquant’anni.
Come amo ricordare ai miei studenti, dei primi diciotto presidenti americani, ben dodici possedevano schiavi (siamo dunque ben lontani da quella che si potrebbe definire una «uguaglianza inclusiva») e Thomas Jefferson, l’uomo che per primo scrisse che «tutti gli uomini sono creati uguali» non si preoccupò neppure di liberare i propri schiavi alla sua morte.
L’ipocrisia denunciata da Winthrop (John Winthrop, governatore della Compagnia della baia del Massachusetts tra il 1629 e il 1648, ndr) appare come una delle caratteristiche più tipiche della politica americana dei suoi esordi, e continua nel dibattito contemporaneo sull’immigrazione, i diritti di voto, la tassazione e l’avventurismo militare.
Nell’attuale clima di reazione conservatrice, i politici saltano sul carro dell’eccezionalismo americano proprio come avevano l’abitudine di sfruttare l’anticomunismo o i sussidi all’etanolo.
Melville, naturalmente capiva questo dilemma. Ma soprattutto capiva la competizione tra natura e cultura nello spirito dell’umanità, così memorabilmente sintetizzata nel capitolo 21 di Billy Budd quando il capitano Vere, rivolto alla corte marziale, afferma di avere giurato fedeltà non alla Natura ma al Re.
La natura, Melville la conosceva di prima mano fin dagli anni in cui aveva navigato su quegli oceani che il capitano Vere definisce «inviolata natura primigenia». E quanto alla civiltà, soprattutto la civiltà romana, lo scrittore non smise mai di approfondirne la conoscenza sulla base delle sue osservazioni e delle sue letture, tanto che nel 1877 giunse alla conclusione che il massimo punto di civiltà era stato registrato fra il II e il III secolo della Roma imperiale, un’opinione desunta da Declino e caduta dell’impero romano di Edward Gibbon.
In una lettera al cognato John C. Hoadley, Melville incluse una prima stesura della sua poesia L’età degli Antonini (il titolo è preso in prestito appunto da Gibbon), lodando quel periodo pacifico per il suo stoicismo, il suo ordine sociale e le sue leggi.
Era stato, scrisse, «il culmine del destino e lo zenit del tempo», e si augurava che potesse un giorno tornare. Melville non pubblicò la poesia fino al 1891, quando ormai aveva cambiato gli ultimi due versi in modo da identificare esplicitamente il suo paese con Roma: «Ah, potessimo leggere nei segni dell’America / la nuova Età degli Antonini”.
Questo cambiamento, che fa seguito alle profonde meditazioni su Roma espresse da Melville in Clarel, fonde i due significati di «eccezionalismo» che competono fra loro nell’attuale dibattito accademico e politico.
Davvero una nazione ha un ruolo unico da portare a compimento sulla terra? E questo ruolo possiede una forza morale, presumibilmente incline al bene ma forse anche – come molti sostengono – al male? L’antica Roma – e l’America contemporanea – è stata una repubblica virtuosa o un impero repressivo? E, questione ancora più rilevante, l’America è un fenomeno nuovo o (come implica la dozzina o più di «Rome» che si sono succedute nei secoli) è semplicemente un’altra repubblica mancata, destinata a imperare, declinare e cadere?
È questa un’altra dimostrazione del ruolo di faro che Roma ha avuto a proposito del concetto di nazione per gli americani, i quali avevano seguito da vicino i successi e fallimenti del Risorgimento, ed erano passati attraverso speranze e delusioni per un’Italia unita, soprattutto dopo la conquista francese della seconda Repubblica romana nel 1849. Dopo che Garibaldi nel 1860 con la spedizione dei Mille portò la maggior parte dell’Italia sotto casa Savoia, gli americani si rallegrarono e lo elessero a loro eroe nazionale. Abraham Lincoln giunse al punto di chiedergli di mettersi al comando dell’esercito unionista, ma poiché il presidente non avrebbe immediatamente abolito la schiavitù, il generale declinò la proposta.
Dal sogno al mito
Quando il Risorgimento raggiunse il suo obiettivo finale nel 1870 e l’intera penisola fu unificata con Roma capitale, il popolarissimo periodico illustrato «Harper’s Weekly» (che Melville leggeva regolarmente) pubblicò in copertina una complessa illustrazione la cui iconografia inserisce l’eredità dell’antica Roma nell’America del XIX secolo. Proprio come l’America era stata divisa fra Nord e Sud e infine si era riunita, così l’Italia aveva saldato il suo Nord e il suo Sud in un solo paese per la prima volta dal Medio Evo. Un arco antico inquadra insieme il soldato piemontese settentrionale a sinistra e il garibaldino arrivato dal sud a destra in una visione di pace e di potere analoga al sogno di Melville degli Antonini.
Sistemando ogni soldato sopra il leader opposto, Garibaldi a sinistra e Vittorio Emanuele a destra, l’illustratore lascia intuire un’armonia fra le forze della rivoluzione e dell’ordine, fra repubblica e impero, che costituiscono un popolo unito. Gli emblemi di tutti i precedenti stati italiani indipendenti incorniciano l’illustrazione e implicitamente illustrano il motto nazionale americano «E pluribus unum», «Da molti uno».
La didascalia «L’Italia unita: come la fenice risorgerà dalle ceneri verso l’immortalità» proietta il sogno american-italiano di una nazione unificata in un mito, una trascendenza politica che emana dalle rovine dell’antica Roma visibili in lontananza,
L’idea di una nuova Roma, di una nuova Italia e di rinnovati Stati Uniti postbellici – una associazione che è al tempo stesso nazionalistica, transtorica e transnazionale – è al cuore dell’ammirazione per Roma dell’America ottocentesca. Sebbene né gli Stati Uniti né l’Italia avessero completamente realizzato i loro ideali di unità nazionale e di rinnovamento, ognuno dei due paesi condivideva una visione comune, in base alla quale l’ordine sarebbe succeduto al caos, la civiltà avrebbe prevalso sui capricci della natura e sarebbe nata una civitas sul modello eccezionale della Roma classica.
Ognuna delle città che negli Stati Uniti portano il nome di Roma si considera, ne sono convinto, in qualche modo speciale, sebbene il suo nome la identifichi con una capitale straniera. Come a dire, insomma, che l’eccezionalismo non è poi così eccezionale e quei critici che vi hanno visto un «eccezionale» potere esplicativo rischiano di perdere di vista le qualità stesse che rendono le nazioni distinte eppure interdipendenti.
“il manifesto” 22 giugno 2011
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