Da un raffinato sito che
richiama Calibano e dà spazio a tutte le arti riprendo la prima
parte di un articolo d'argomento musicale. (S.L.L.)
Negli anni ’60 li
chiamavamo “complessi” ed erano formazioni strumentali che
ricalcavano l’assetto dei “Fab Four”: batteria, basso
elettrico, due chitarre elettriche, di cui una era lead, guida o
solista. Si formarono innumerevoli complessi ma molti dei loro
componenti trasmigravano da un gruppo all’altro, fondandone di
nuovi, sconfessando gli originali. La denominazione “complesso”
andò in disuso – troppo semplicistica e in fondo anonima – ma da
noi era difficile accettare quella di “band”, che configurava un
assetto dalla vocazione pluri-strumentale e con un repertorio molto
più articolato e identitario. Alle chitarre elettriche si aggiunsero
col tempo sassofoni e trombe, tastiere e sintetizzatori elettronici:
anche la batteria si ingrandì, divenne monumentale (si pensi alla
postazione super-accessoriata di Carl Palmer del “trio”
Emerson-Lake-Palmer).
La band si impose
non solo per il numero cospicuo degli strumentisti o per
l’eterogeneità timbrica del suono, ma anche e soprattutto per la
contaminazione dei repertori (dal country al rock, dal folk al pop) e
l’innovazione nell’orchestrazione, requisito indispensabile e
coessenziale per una formazione strumentale così ampia e
diversificata.
In Inghilterra gli eredi
o gli epigoni dei Beatles cominciarono ad ampliare formule, contenuti
o elementi della band (dagli Yardbirds ai Led Zeppelin, ai
Genesis), ma il vero boom si verificò negli Stati Uniti dopo le
esibizioni di Woodstock e i concerti “Live Aid”. Una band
composita doveva comprendere chitarre e ottoni, tastiere e
percussioni (come quella assortita nel film The Blues Brothers).
Sui palchi dei concerti
rock si presentavano dai dieci ai quindici strumentisti per creare e
diffondere una particolare sonorità (il cosiddetto sound),
affidata a nuove o rivisitate invenzioni cromatiche e realizzata con
l’avvento di inusitati strumenti elettronici (moog,
mellotron, theremin fino alla chitarra sintetizzatore
di Pat Metheny). Le band americane – piccole orchestre
“live” – furono di grande o media qualità negli anni ’80 e
’90 (Grateful Dead, Jefferson Airplane, Chicago, Beach Boys, Mamas
and Papas), che registravano non solo musica ma anche smembramenti e
distacchi, rinnovamenti e ritorni, per non parlare di crisi personali
(alcoolismo, droghe) e di morti premature.
Una band che si rinnovò
nel repertorio (da una fase adolescenziale e canzonettistica) e nei
suoi componenti (sostituiti, rifiutati, ripresi) fu quella dei Beach
Boys, fondata nel 1961 da Brian Wilson con i fratelli Dennis e Carl
(morti nel 1983 e nel 1998), il cugino Mike Love e il batterista Al
Jardine. E' del 1966 Good Vibrations… Il testo della “song”
è scontato ed elementare: parla come è facile immaginare delle
vibrazioni, delle eccitazioni provocate dai preliminari di un
contatto sessuale ma non sono né semplici né elementari la
composizione e l’esecuzione del riff che dà il titolo al brano.
Per rendere musicalmente attendibile l’idea delle vibrazioni la
band fece ricorso ad un non-strumento, il theremin, cioè un
apparecchio che dilatava il suono come in un oscillografo e che
ricreava credibilmente l’intensità e la mutevolezza della
vibrazione sonora, prossima a quella fisica. Una vibrazione corporea
veniva tradotta con una vibrazione sonora, modulando le note musicali
in uno spettro acustico di sorprendente impatto emozionale. Quello
che sembrò solo un effetto speciale da studio di registrazione (e
quindi un trucco da banco di missaggio) divenne negli anni seguenti
un modello da riproporre e intensificare, influenzando molte altre
band nella ricerca di sonorità sempre più sconvolgenti e talvolta
ridondanti (techno, house, metallic). […]
dal sito “La dimora del
tempo sospeso” - https://rebstein.wordpress.com
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