Il colonialismo
capitalista è il regno delle conseguenze non volute, il caso da
manuale per illustrare la natura sistemica della storia umana, per
esemplificare il concetto di retroazione (feedback). Infatti nel 1830
la Francia cominciò la sua vittoriosa penetrazione in Algeria e poi
in Africa nera e conquistò un impero. Ma il risultato di questa
conquista fu che oggi non vi è quasi più un francese in Africa (e
in Algeria), mentre in Francia ci sono milioni di africani e di
algerini. Similmente, nel 1857 la Gran Bretagna represse in India la
rivolta dei sepoys e dette inizio all'impero (raj)
inglese sul subcontinente. Ma oggi, 154 anni dopo, non c'è più un
inglese in India, mentre ci sono milioni di indiani in Inghilterra.
Questo «effetto non voluto» è comune a tutti i colonialismi d'era
capitalista (non a quelli precapitalisti, come il colonialismo
spagnolo nelle Americhe che mai generò un flusso di indios
nella penisola iberica). Così l'Olanda è piena di surinamesi e di
amboniani delle Molucche.
L'Italia costituisce
l'unica eccezione a questa regola: nella nostra penisola somali,
eritrei, etiopici e libici costituiscono una piccolissima minoranza
della popolazione immigrata. Nessuno di questi paesi rientra infatti
nella lista delle prime venti nazioni di origine delle immigrazioni
in Italia: le prime dieci sono nell'ordine Romania, Albania, Marocco,
Cina, Ucraina, Filippine, India, Polonia, Moldavia e Tunisia che
forniscono circa 3 milioni sui 5,5 milioni di stranieri presenti nel
nostro territorio (stima del 2011).
Già quest'anomalia
rispetto agli altri retaggi coloniali mostra quanto sia atipico il
nostro «impero» africano e mediterraneo. Una anomalia del
colonialismo italiano analizzata a fondo del volume L'Africa
d'Italia. Una storia coloniale e postcoloniale (Carocci, pp. 442,
euro 26,40) firmato e diretto da Gian Paolo Calchi Novati, con il
contributo di altri dieci studiosi e studiose italiani/e. Quest'opera
vuole essere una storia e insieme una metastoria, narrare la
colonizzazione italiana ed esaminare l'evolversi della storiografia
del colonialismo italiano fino al 1960, quando la Somalia si emancipò
dall'amministrazione fiduciaria italiana (tutto un capitolo è tra
l'altro dedicato all'immagine letteraria delle colonie).
L'anomalia della
colonizzazione italiana sta innanzitutto nel fatto che essa non fu
pienamente capitalista, poiché l'Italia l'intraprese (negli anni '80
del XIX secolo in Eritrea) quando la nostra era un'economia nazionale
prevalentemente agricola, l'industrializzazione era ancora agli
albori e quando l'emigrazione dal nostro paese era massiccia (nei
soli Stati uniti migrarono 650.000 italiani nel decennio 1891-1900;
più di due milioni tra il 1901 e il 1910; e 890.000 nei soli quattro
anni 1911-1914). E infatti il nostro fu l'unico esercito coloniale
che subì tante disastrose sconfitte in Africa: Dogali (1887),
Macalle e Amba Alagi (1895), Adua (1896).
La seconda anomalia fu la
straordinaria brevità dell'avventura coloniale italiana. In Etiopia
l'impero durò addirittura soli cinque anni (dal 1936 al 1941)! Ma
anche nel territorio in cui siamo rimasti più a lungo, cioè
l'Eritrea (la «colonia primogenita»), l'arco temporale fu appena
superiore al mezzo secolo. In compenso L'Africa d'Italia ci
ricorda che il Ministero dell'Africa italiana sopravvisse per altri
otto anni alla seconda guerra mondiale e fu chiuso solo nel 1953.
E solo molto più tardi
l'Italia ha cominciato a fare i conti con il suo passato coloniale e
le sue nefandezze (e non fino in fondo): ancora nel 1998 il testo
dell'accordo Italia-Libia non riusciva a usare il termine «deportati
libici» ma ricorreva a circonlocuzioni come «allontanati
coercitivamente dalla Libia in periodo coloniale».
Molto rimane rimosso. Per
esempio noi associamo le leggi razziali del 1938 solo agli ebrei, ma
in realtà esse furono formulate anche per segregare le colonie. «Nel
1937 un decreto vietò le unioni miste.. La dipendenza delle truppe
italiane dalle donne etiopiche era un fattore di disturbo
inaccettabile per le autorità fasciste, quasi che i conquistatori
fossero stati a loro volta conquistati dalla popolazione locale
attraverso il sesso debole... la cultura dominante ebbe sempre un
atteggiamento di rifiuto e di disprezzo per il cosiddetti
"insabbiati", i civili e i militari che sceglievano di
staccarsi materialmente e psicologicamente dalla madrepatria per
adottare i modi di vita africani».
Il fatto che gran parte
della nostra avventura coloniale sia avvenuta sotto il - e fortemente
voluta dal - fascismo costituisce una terza anomalia italiana. È
impressionante il mare di cazzate che si possono dire impunemente in
una certa epoca senza che nessuno lo noti (chissà quante delle
nostre certezze appariranno idiote tra pochi anni!). Ecco cosa
scriveva Benito Mussolini il primo gennaio 1919: «L'imperialismo è
la legge eterna e immutabile della vita». Ma proprio il fascismo ha
ostacolato i conti con il colonialismo italiano perché i vari
revisionismi s'influenzano l'un l'altro.
D'altra parte anche gli
autori di Africa d'Italia possono lasciarsi prendere la mano:
ecco come descrivono gli insediamenti agricoli fascisti in Libia: al
centro la piazza con il municipio, la chiesa, la casa del fascio, le
poste e le case coloniche a irradiarsi: «Lo stile architettonico era
purissimo, improntato a quella semplicità e funzionalità di disegno
che caratterizzavano il moderno razionalismo. L'effetto, il bianco
dei villaggi che si stagliava fra cielo e terra, era notevole, e dava
realmente il senso di una nuova civiltà in marcia».
A proposito di civiltà:
in questo momento in cui il capo del comitato di transizione libico
annuncia che governerà «in nome dell'Islam», è più che opportuna
la sottolineatura nel volume del cosiddetto «paradosso francese» e
cioè che la laica repubblica francese non ha mai esportato in Africa
la sua laicità (che «non è un prodotto d'esportazione», disse
Léon Gambetta) e che invece gli imperi razionalisti europei si siano
affidati ai culti e alle religioni come cinghia di trasmissione del
loro dominio. In particolare l'Italia fece molto affidamento
sull'Islam (in funzione anti-copta in Etiopia) o per soppiantare i
culti animisti, definiti «primitivi con manifestazioni di civiltà
assolutamente rudimentali» (Come disse Leone XIII a missionari in
partenza per il Kenya: «Fateli prima uomini quei poveri indigeni e
vi sarà più facile farne dei cristiani»). Insomma, come avviene
con gli immigrati nell'Occidente odierno, anche allora, nelle
colonie, il prestigio dell'Islam fu accresciuto dal ruolo
d'intermediario e interlocutore del potere coloniale che gli fu
riconosciuto.
Ma non mancano sprazzi
d'inattesa modernità. Così per promuovere il turismo in Libia,
l'Ente turistico alberghiero della Libia lanciò una «corsa
automobilistica abbinata alla Loterria di Tripoli, l'Avioraduno
sahariano, la Mille Miglia libica (sulla litoranea da Tripoli a
Tobruk), il raduno automobilistico del Nord Africa, il premio
letterario Bagutta-Tripoli e gli spettacoli classici nel teatro
romano di Sabratha». Insomma, avevano inventato la nostra
Parigi-Dakar.
Se un appunto si può
fare a questo volume che a ragione ambisce a darci un panorama
completo dello stato dell'arte sugli studi del colonialismo e
post-coplonialismo italiano, è che manca un capitolo sul dopo 1960,
cioè sugli effetti del colonialismo italiano «senza italiani»,
quel che resta della nostra avventura. Ma c'è sempre qualcosa che
manca in un libro, e in questo è davvero poco.
“il manifesto”, 17
settembre 2011
Nessun commento:
Posta un commento