Fondamentale è il ruolo
giocato dal motivo del “riso” nel Nome della rosa. Jorge
diventa un serial killer per impedire che venga conosciuto il libro
di Aristotele sulla commedia, di cui Eco, sublime manipolatore (e
fantamanipolatore) dei linguaggi altrui, non esita a inventare e
proporci l'incipit. Ma perché Jorge odia il riso, ritenendolo il
nemico numero uno della religione in cui fanaticamente crede? Il riso
è pericoloso perché mette in discussione ogni valore e ordine
esistente. Le eresie si possono combattere ed estirpare, non il riso,
che induce a ridere dell'autorità, togliendo a essa ogni sacralità,
e rivelando quello che potremmo definire pirandellianamente il “re
nudo”. Cristo, sostiene Jorge a conferma della sua tesi, non ha mai
riso. Guglielmo da Baskerville gli oppone che il ridere è proprio
della natura umana e che gli animali non ridono. Contro il fanatismo
del vecchio cieco (una cecità non profetica, ma intellettuale e
morale) Guglielmo ritiene che la funzione del riso sia quella di “far
ridere la verità”, tanto da risultare un prezioso alleato della
conoscenza.
Tutto questo viene non
solo detto, ma anche citato. E proprio la citazione consente di
ricavare dal testo i suoi significati profondi, andando oltre la
lettera delle parole, per attingere a quel livello allegorico che
Eco, grande esperto della filosofia medievale, ben conosceva (basti
leggere il capitolo sulla “pansemiosi metafisica” in Arte e
bellezza nell'estetica medievale, Bompiani 1979). Prendiamo
questa battuta ironica di Jorge da Burgos: “E così la parola di
Dio si manifesta attraverso l'asino che suona la lira, l'allocco che
ara con lo scudo, i buoi che si attaccano da soli all'aratro, i fiumi
che risalgono le correnti, il mare che si incendia, il lupo che si fa
eremita!”. Non è facile (Eco è stato anche un grande
dissimulatore) ma neppure impossibile che qualcuno ricordi i titoli
dei capitoli di un famoso libro di Giuseppe Cocchiara, Il mondo
alla rovescia (Feltrinelli, 1963). Eco non fa altro che
riprenderli, per metterli in bocca al suo personaggio.
Il gioco non è
ovviamente gratuito, ma rientra nell'ambito della grande tematica
carnevalesca che percorre il romanzo, costituendone il sotterraneo
filo conduttore. Ma parlare di letteratura carnevalesca, o
carnevalizzata, significa chiamare in causa il grande teorico russo
Michail Bachtin, che ha visto nel carnevale l'equivalente del genere
romanzesco. Potremmo quindi parlare, più in generale, di una
macrocitazione bachtiniana, che conferisce al Nome della rosa
tutta la complessità dei suoi significati ideologici, legati allo
“scoronamento” e al ribaltamento dei ruoli, alla contestazione e
all'irrisione della mentalità e delle mode ufficiali.
Non solo di significati
però, bensì anche di significanti si tratta. Il famoso sogno di
Adso, mentre in chiesa si canta il Magnificat, è uno
straordinario esempio di scrittura carnevalesca che, se da un lato si
richiama esplicitamente alla Coena Cypriani, dall'altro si
caratterizza non solo come citazione ma come emulazione del
plurilinguismo di Rabelais. In queste pagine si susseguono parole in
libertà, iperboli, inversioni, chiasmi, antitesi, ossimori,
anfibologie, in un vertiginoso procedimento di accumulazione caotica
che rompe ogni argine (forse, oltre a Rabelais, Eco aveva in mente
anche il prediletto Joyce, quello del monologo di Molly).
I riferimenti al Nome
della rosa ci sono serviti per caratterizzare alcuni procedimenti
tipici anche della scrittura umoristica e satirica di Eco, che
rappresenta, rispetto alla scrittura saggistica e narrativa, l'ambito
criticamente meno esplorato, anche se particolarmente brillante e
vivace, di una straordinaria attività critico-teorica e creativa.
Qui il riso non funziona come citazione, ma si serve talora di altre
citazioni, per sprigionare le sue capacità insieme divertenti e
demistificanti, mescolando, all'insegna della parodia e del pastiche,
l'elemento comico e l'elemento serio. È noto che, nel suo onnivoro
“ecumenismo”, Eco ha saputo intelligentemente unire gli opposti
di natura ludica e scientifica, l'alto e il basso, sdoganando
prodotti culturali prima ritenuti indegni di attenzione. Si è
occupato di fumetti e di romanzi d'appendice (nel Cimitero di
Praga si può riconoscere il Bresciani del famigerato Ebreo di
Verona); presso Bompiani ha diretto la collana filosofica “Idee
nuove”, già stata di Banfi e di Paci, ma ha anche dato vita alla
collana “Amletica leggera”, dove nel 1972 usciva il Come
farsi una cultura mostruosa di Paolo Villaggio, rivisto e
introdotto dal suo editor.
L'uso modale del “come”,
a inizio frase, scandisce i quarantacinque capitoletti del sommario
di Come viaggiare con un salmone (pp. 208, € 10, La nave di
Teseo, Milano 2016), che formalmente si presenta come un manuale di
istruzioni per l'uso; un uso, evidentemente, tutt'altro che pratico,
o praticamente fruibile, se solo si pensa alla sventurata conclusione
di un viaggio in compagnia del suddetto pesce. Un classico, tra i
pezzi inseriti, si può considerare Come mangiare in aereo,
gustosissima rappresentazione dell'ardua lotta ingaggiata dalle
forchette con i piselli, che alla fine “o s'infilano nel collo o
nella braghetta”. La godibilità dei testi è data dalla capacità
di ricavare, a partire anche dalle situazioni più normali, effetti
di deformazione e distorsione semantica, con una tecnica dello
straniamento che dà luogo a soluzioni caricaturali e grottesche,
paradossali. Anche per Eco, come scriveva un umorista dell'Ottocento,
“l'Arte può essere, anzi deve essere altresì paradossale”, dal
momento che “il paradosso è un'idea, che batte in breccia
un'opinione comune, un pregiudizio, un errore accettato”,
demistificando le visioni convenzionali della realtà. Queste
riguardano non solo le abitudini, gesti e manie della vita quotidiana
(Come comperare gadget, Come usare la cuccuma maledetta,
Come non usare il telefonino cellulare), ma coinvolgono i
vezzi e le mode intellettuali (Come fare le vacanze intelligenti,
Come scrivere un'introduzione), senza dimenticare i
riferimenti alla cultura di massa (inutile ricordare l'importanza di
Eco semiologo e massmediologo), gli spunti della fantapolitica (Come
evitare di cadere nei complotti) o il tortuoso sadismo dei
labirinti burocratici (Come sostituire una patente rubata).
Non a caso, in Come presentare un catalogo d'arte, reale
presentazione, dal sapore dada, di una mostra del pittore Antonio
Fomez, Eco parla delle “regole del citazionismo postmoderno”,
che, utilizzando la tecnica del rovesciamento e dello “scoronamento”,
costituisce la base della sua operazione contraffattoria e parodica
(nella quale non mancano, peraltro, elementi di riflessione
profonda).
Se nella scrittura
postmoderna si trovano congiunti l'alto e il basso, l'elemento serio
non cancella quello faceto, ma da questo può trarre alimento. È
quanto accade nelle Bustine di Minerva, che, pubblicate per
anni sull'“Espresso”, sono state in gran parte raccolte - quelle
che vanno dal 2000 al 2015 - in Pape Satàn Aleppe. Cronache di
una società liquida (pp. 480, € 20, La nave di Teseo, Milano
2016). C'è da dire subito che la genesi frammentaria della raccolta,
in qualche modo assimilabile alla tecnica del puzzle, non pregiudica
in alcun modo la sua organica unitarietà. Questa è dovuta non solo
alla divisione per così dire tematica attorno alla quale le
“bustine” vengono accorpate, ma alla filigrana stessa del legame
che le unisce; quella di un dialogo ravvicinato con il lettore,
realizzato attraverso un procedimento cordialmente divagante e
digressivo, assimilabile a quelle opere che, secondo il Pirandello
del saggio sull'Umorismo, sono “scomposte, interrotte,
intramezzate di continue digressioni”. In queste pagine Eco offre
l'immagine più compiuta di sé come critico dei costumi di una
realtà postmoderna alla ricerca di se stessa, della propria identità
e del propri valori. Siamo in presenza di un intellettuale impegnato,
che non offre soluzioni consolatorie ma, nel denunciare fenomeni come
quelli del bullismo o del razzismo, coglie la complessità e le
contraddizioni profonde di questa nostra - stando a Bauman - “società
liquida”, invitando il lettore a una sorta di “cooperazione
interpretativa” nella discussione sui grandi temi della
contemporaneità.
Con lo stile brillante
che gli appartiene, ammiccando con l'intelligenza dell'ironia e,
talora, del gioco di parole, Eco demistifica gli odierni miti della
massificazione e del consumismo: dal culto dei telefonini al bisogno
di apparire, che crea, nel regno della chiacchiera televisiva, i suoi
effimeri eroi di cartapesta. Il rapporto fra presente e passato lo
porta a sottolineare il ruolo della memoria, storica e individuale,
che, anche quando si guardi a essa con nostalgia, non si traduce mai
nel comodo rifugio del laudator temporis acti, ma tiene conto di una
continuità considerata, dialetticamente, nel divenire della storia,
che non deve essere dimenticata (il presente ingloba la tradizione di
un passato non di rado precorritore). Eco si fa così portatore di un
pensiero problematico, che, non rinunciando a difendere una precisa
posizione di parte, introduce forti elementi di riflessione e di
giudizio, rifiutando sia lo sterile pessimismo degli “apocalittici”
sia il connivente ottimismo degli “integrati” (l'utilità di
internet non esclude le manipolazioni da cui occorre difendersi,
assumendo un atteggiamento criticamente maturo e consapevole). Non
viene meno, in altri termini, quell'idea della ricerca intellettuale
che aveva avuto una sorta di proiezione archetipica, o di medievale
primogenitura, nello spirito laico e progressista di Guglielmo da
Baskerville.
“L'Indice”, Aprile
2016
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