Gli artisti sanno la
straordinaria efficacia di un luogo comune, di una buffoneria
risentita infinite volte; quando queste cose arrivano a tempo,
riassumono una situazione, sono un mezzo d’espressione, danno un
calcio alla logica, al senso comune, all’opera stessa e formano la
vera e propria soluzione teatrale. L’attore che dispone di questi
mezzi, risolve da attore una situazione che nessun altro mezzo
letterario avrebbe potuto risolvere con tanta efficacia; dà
vigorosamente uno scappellotto alla storia e alla tragedia, piomba
sugli spettatori e li prende nel pugno, tradisce la loro attenzione e
li accaparra per qualche tempo; apre, nel dramma, lui stesso, quello
spazio vuoto; ed egli stesso lo colma con un’insuperabile bravura,
fino a quando non intervengono le risorse del letterato.
Un caso particolarissimo
e spesso interessante di quelle improvvisazioni con cui si riempie lo
spazio vuoto è quello che io chiamo «slittamento» (l’uscire
dalle dimensioni della finzione scenica passando per un momento in
quelle della realtà). Per esempio, si può parlare col suggeritore,
ammonire un rumoroso ritardatario: insomma, trarre profitto di tutto,
dal rumore del seggiolino della poltrona lasciato cadere
sbadatamente, all’immancabile pianto del bambino nelle
rappresentazioni diurne.
Naturalmente, bisogna
essere tempisti, e cogliere il momento sia di uscire, sia di
rientrare nello spazio scenico.
Lavorando su questo
terreno per molti anni, mi sono accorto che non esiste commedia
impossibile da recitare. Molti critici dicono, ed io lo riconosco
senza difficoltà che il mio repertorio è pieno di cose idiote che
non sarebbero degne di stare accanto alle cose intelligenti che vi si
trovano. Per me è lo stesso. Io considero la commedia come un buon
pretesto e null’altro. Ho recitato nella mia vita delle cose
stupidissime che avevano soltanto il torto di non essere a quel punto
di imbecillità che desideravo e che, alla fine, per ottenerlo,
dovetti inventare da me.
Nel periodo di musoneria
italiana in cui un buon attore non era considerato tale se non si
prestava alle parti lacrimose, io passai come un buffone distinto. Mi
venivano a sentire per esclamare: «Quanto è scemo!». Io, in quel
tempo, inventai il mio motto: «più stupidi di così si muore»;
creai due cose che amo soprattutto: I salamini e Fortunello,
e che consideravo il principio di quel modo di recitare che
perfezionai attraverso parecchi anni di lavoro.
Molti critici mi
proclamarono l’interprete della idiozia sublime, di quella idiozia
che è la sola fuga possibile da questo mondo troppo logico, dove
esistono troppe cose insolubili e troppe domande senza risposta; e
dove esiste un’arte che la sola logica non può avviare alle
soluzioni estreme.
Basterà che ricordi come divenne grido trionfale e addirittura una formula il primo verso dei «Salamini»: «Ho comprato i salamini e me ne vanto» e tutto il formulario delle risposte che risolvevano per me molti problemi: «Perché la terra gira? Perché sì. — Perché gli uomini sono fatti di carne e d’ossa anziché di acciaio? Perché sì». E via dicendo con domande quasi angosciose miste ad altre soltanto pettegole, sino alla conclusione illogica ma riassuntiva: «Ho comprato i salamini e me ne vanto».
Basterà che ricordi come divenne grido trionfale e addirittura una formula il primo verso dei «Salamini»: «Ho comprato i salamini e me ne vanto» e tutto il formulario delle risposte che risolvevano per me molti problemi: «Perché la terra gira? Perché sì. — Perché gli uomini sono fatti di carne e d’ossa anziché di acciaio? Perché sì». E via dicendo con domande quasi angosciose miste ad altre soltanto pettegole, sino alla conclusione illogica ma riassuntiva: «Ho comprato i salamini e me ne vanto».
da Modestia a parte, Ed. L'Unità, 1993
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