17.1.18

'Sugar', il sorriso nei pugni

Ray 'Sugar' Robinson
I vecchi dicevano che Ray Sugar Robinson era il campione più grande che mai avessero veduto. Allora, alla “Gazzetta dello Sport”, la rubrica della boxe era scritta da Rosario Busacca, che si avvaleva della collaborazione apprezzabile e apprezzata di Giovanni, suo fratello, procuratore famoso, che, studente universitario, aveva praticato il pugilato. I Busacca avevano osservato i grandi dell'epoca e dell'epoca immediatamente precedente la Seconda guerra mondiale. Li avevano soppesati e, a volte (da parte di Giovanni) anche assistiti. Il Palazzo dello Sport di Piazza 6 Febbraio, il cortile del Castello Sforzesco, la pelouse del Vigorelli prima e dopo la sfacelo del bombardamento (quando una pioggia di bombe incendiarie fece della pista una gigantesca fiammata e sembrò che l'erba del prato rientrasse nelle radici) erano il loro regno.
Gli anziani, è risaputo, tendono a giudicare il torero morto sempre il migliore. Negli anni 30, gli avvenimenti che avevano fatto epoca, a Milano, si rifacevano ad un match Bosisio-Thil, ad un Al Brown-Bernasconi (con il nostro Pasqualino che scuote sconsolatamente la testa come si fa con una sveglia che non va più: e con Al Brown, uno scheletro elegantissimo e imprendibile che lo tempesta con i guantoni). Al cubano Montanez che, dopo aver inseguito invano Carlo Orlandi, un'ombra che gli riempie il volto di pugni irridenti, lo gela con un diretto che è un colpo di fucile. (Portarono Orlandi in clinica, diceva Busacca, coprendosi il viso con le mani, sulla motocicletta di Toscani. Perdeva materia cerebrale!). E poi la dinamite di Spoldi, che esplode sulla mascella degli avversari (il tedesco Blaho distrutto al 20 secondo di combattimento, giusto il tempo di togliersi l' accappatoio di seta bianco e nero). Le mani di Spoldi che si fratturano praticamente alla vigilia della sua partenza per l' America, che è l'antivigilia della Seconda guerra. E Saverio Turiello che torna, in quei giorni, in Italia, nella sua Milano, per conquistare il titolo europeo battendo il recuperato Orlandi e il giovane belga Wouters. Infine e quella notte, al Vigorelli, c'ero anch' io il nuovo idolo francese, Marcel Cerdan, che avanza e soffoca Saverio Turiello, il quale fa ricorso a tutte le astuzie del mestiere magistrali schivate al livello del tappeto per evitare una punizione durissima.
Scoppia la Seconda guerra mondiale. Finalmente la pace. La ripresa, la cosiddetta rinascita. Oltreoceano svetta, il nome di Ray Sugar Robinson. Sugar, diventa, prestissimo, la leggenda, il mito. Era una storia di boxe americana: ma fresca, vicina. Le cronache Usa ci rimandavano la sua figura. Un fisico splendido, le massime classiche della boxe non insegnate ma innate. Ricordo l'annotazione di un giornalista sportivo specializzato newyorkese: fate conto di un ragazzino, che improvvisamente, digiuno di scuola, senza aver scorso un solo testo di matematica o geometria, vi costruisce, sulla sabbia, e risolve sotto gli occhi, il teorema di Pitagora. Sta già scritto: ma lui non lo sa. Inventa. È Pitagora. Il ragazzino (si fa per dire) della boxe è Zucchero. Tutto ciò che Robinson fa sul ring è utile, essenziale, senza una sbavatura, perciò bello. Tutto ciò che compie fuori dalle dodici corde fa pensare ad una elaborata cerimonia, ad un esorcismo. I capelli non sono crespi ma lucidi e lisci. Ha moglie e prole. Non è una mangusta né un bisonte, non è il toro del Bronx, è il nero Robinson. Ottimismo: statura: muscoli. L'America. Afferra l' dea del campione e subito la realizza.
Non ci sarà la mafia, dietro, osavo chiedere a Rosario Busacca. La mafia c'è dappertutto, mi rispondeva Busacca. Nel pugilato c'è sempre stata. Il grande campione, però, l'assorbe. La grande boxe ha fatto e fa giustizia da sé. Un giorno del 50, mi pare, Ray Sugar Robinson è sbarcato, da un aereo in Europa. Gli incontri in Francia e in Belgio: forse un match in Italia, che si svolgerà a Torino (sollecitato, correva voce, dal giovane Gianni Agnelli). Da un transatlantico vecchiotto, bianco come un iceberg, l'Augustus. Le gru depositano, intanto, una Cadillac, di un improbabile color lilla. La Cadillac raggiunse Robinson. La tournée prevedeva allenamenti in pubblico, in notturna. Che so, Robinson illuminato a giorno che salta alla corda, sul quadrato: che boxa con l'ombra, che fa punching ball. L'esercizio vale al botteghino una riunione, con tanto di biglietto. I due pugili che incontra non riescono a spiccicare un cazzotto. Sugar ha spesso l'aria di chi dice vedi potrei però mi astengo. Rosario Busacca lo va a vedere. Mi attendo che ci dica che, nel passato, c' è stato di meglio. Il famoso... torero morto di cui sopra. Armstrong il primo Louis, e altre stelle, il cui nome The Ring riporta. Rosario Busacca è troppo esperto per non afferrare il tono, il sapore di quei match. L'avere, mi racconta, implica il non dare o l'avere già dato. Robinson, qui, ha dato il minimo. Ma è bastato un niente per afferrare la sua classe. Il suo minimo è altissimo. Decide di farla finita e punge. Ha tirato un sol pugno. Un suono tremendo: un pugno che sfascia un' anguria. L'avversario non fa nulla. Non puoi colpire, del resto, ciò che non puoi vedere. Robinson è, per Busacca, il migliore.
Come costumava in quei giorni tutti i grandi campioni di passaggio in Italia facevano una visita in “Gazzetta”, in quel palazzotto di via Galilei, che è stato recentemente raso al suolo, onusto di storia dello sport. Dopo l'intervista a Busacca, Ray Sugar Robinson, sorseggiava un thé freddo. Un divo americano che tratta la gente con demagogica deferenza. Gli chiesero notizie di un arbitro che lo aveva provocato, provocando a sua volta il furore del pubblico. L'ultima esibizione, insomma, non era stata gloriosa. Una pattuglia di poliziotti aveva faticato a sospingere Ray Sugar Robinson al riparo, proprio sotto il ring. Robinson ascoltò: smise di sorridere. Un collega vostro, disse secco, mi ha insultato riferendo al mio procuratore che di fronte all'avversario sono riuscito solamente a ballare, non a boxare. Il problema più grave che ho dovuto risolvere, nell'occasione, è stato preliminare: la scelta dei pantaloncini: bianchi con la striscia rossa o rossi con la striscia bianca? Quanto all'arbitro, a quello ho risposto di persona. Voleva insegnare il regolamento a un campione del mondo. Umoristico.


“la Repubblica”, 14 aprile 1989  

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