16.1.18

Poeti. In morte di Antonio Porta (Donatella Bisutti)

Antonio Porta
Poco più di un mese fa, all'improvviso, è mancato, mentre si trovava a Roma per una trasmissione in tv, il poeta e scrittore Antonio Porta, di cui avevo recensito nel n. 12 di questa rivista il bel libro Il giardiniere contro il becchino. La sua morte lascia un vuoto che non sarà facilmente colmato. Lo spazio è poco, ma vorrei ricordare la profonda coerenza - non frequente - fra il suo vivere e il suo scrivere che, retrospettivamente, si specchiano con limpidezza l'uno nell'altro. Vorrei ricordare la sua generosità, che era l'altra faccia del suo coraggio, entrambi avevano una stessa cifra, rigorosa - quella del rischio di sé. Rischio di volere, di sapere, ogni volta, andare più in là, mai fermarsi sulla meta raggiunta. Rischio di sé, quindi, non avventato, ma profondamente morale, nell'unica accezione che la morale può avere: quella di sapere affrontare il limite e superarlo, e non, come spesso erroneamente si intende, quella di proseguire su un binario ben tracciato.
La sua vita, anche privata, non credo abbia mai smentito quanto, tenacemente, anche testardamente, Porta andava perseguendo sulla pagina attraverso il linguaggio. Il suo amore, non frivolo, a volte aggressivo, ma nel fondo severo, per la vita, gli dava la difficile forza della fiducia nel presente e nel futuro, della fiducia nell'uomo, benché non si velasse gli occhi davanti al dolore dell'umanità, anzi prendesse la violenza a tema non soltanto dei suoi testi poetici, ma anche dei suoi fitti interventi sulla cronaca nelle pagine dei giornali.
Uscendo felicemente dal solco di una nostra tradizione troppo accademica che stenta ad essere cancellata, Antonio Porta ha saputo con grande libertà essere concretamente poeta del nostro tempo, non chiuso nei recinti "letterari", ma aperto agli stimoli di un mondo senza frontiere, a un'attualità in cui voleva rintracciare una trama profonda, un disegno che sta agli "uomini di buona volontà" sviluppare. L'ultima volta che l'avevo visto, a un convegno di poeti cui partecipavamo, lesse una sua poesia ancora inedita in volume, che mi piacque molto, e glielo dissi. Ne fu contento e me ne diede il testo. È intitolata Il tempo della povertà e parla del significato della poesia. Contiene una - ora profetica - strofa intitolata "Congedo" («chi vi scrive sta seduto su una panchina / queste ultime righe»). Vorrei citarne almeno i versi finali: «In questa sera la poesia / ha forma di pesce guizzante / fuori dallo specchio». Il tempo della povertà è quello di ciò che è essenziale, ma anche irrinunciabile. Dallo specchio immobile, lo slancio, la ricerca inarrestabile della vita. A questa irrinunciabilità è giusto forse dare il nome di "amore". Penso sia questo ciò che, come uomo e come poeta, Antonio Porta ci lascia.


“Millelibri”, Editoriale Giorgio Mondadori, Numero 19, Giugno 1989

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