Antonio Porta |
Poco più di un mese fa,
all'improvviso, è mancato, mentre si trovava a Roma per una
trasmissione in tv, il poeta e scrittore Antonio Porta, di cui avevo
recensito nel n. 12 di questa rivista il bel libro Il giardiniere
contro il becchino. La sua morte lascia un vuoto che non sarà
facilmente colmato. Lo spazio è poco, ma vorrei ricordare la
profonda coerenza - non frequente - fra il suo vivere e il suo
scrivere che, retrospettivamente, si specchiano con limpidezza l'uno
nell'altro. Vorrei ricordare la sua generosità, che era l'altra
faccia del suo coraggio, entrambi avevano una stessa cifra, rigorosa
- quella del rischio di sé. Rischio di volere, di sapere, ogni
volta, andare più in là, mai fermarsi sulla meta raggiunta. Rischio
di sé, quindi, non avventato, ma profondamente morale, nell'unica
accezione che la morale può avere: quella di sapere affrontare il
limite e superarlo, e non, come spesso erroneamente si intende,
quella di proseguire su un binario ben tracciato.
La sua vita, anche
privata, non credo abbia mai smentito quanto, tenacemente, anche
testardamente, Porta andava perseguendo sulla pagina attraverso il
linguaggio. Il suo amore, non frivolo, a volte aggressivo, ma nel
fondo severo, per la vita, gli dava la difficile forza della fiducia
nel presente e nel futuro, della fiducia nell'uomo, benché non si
velasse gli occhi davanti al dolore dell'umanità, anzi prendesse la
violenza a tema non soltanto dei suoi testi poetici, ma anche dei
suoi fitti interventi sulla cronaca nelle pagine dei giornali.
Uscendo felicemente dal
solco di una nostra tradizione troppo accademica che stenta ad essere
cancellata, Antonio Porta ha saputo con grande libertà essere
concretamente poeta del nostro tempo, non chiuso nei recinti
"letterari", ma aperto agli stimoli di un mondo senza
frontiere, a un'attualità in cui voleva rintracciare una trama
profonda, un disegno che sta agli "uomini di buona volontà"
sviluppare. L'ultima volta che l'avevo visto, a un convegno di poeti
cui partecipavamo, lesse una sua poesia ancora inedita in volume, che
mi piacque molto, e glielo dissi. Ne fu contento e me ne diede il
testo. È intitolata Il tempo della povertà e parla del
significato della poesia. Contiene una - ora profetica - strofa
intitolata "Congedo" («chi vi scrive sta seduto su una
panchina / queste ultime righe»). Vorrei citarne almeno i versi
finali: «In questa sera la poesia / ha forma di pesce guizzante /
fuori dallo specchio». Il tempo della povertà è quello di ciò che
è essenziale, ma anche irrinunciabile. Dallo specchio immobile, lo
slancio, la ricerca inarrestabile della vita. A questa
irrinunciabilità è giusto forse dare il nome di "amore".
Penso sia questo ciò che, come uomo e come poeta, Antonio Porta ci
lascia.
“Millelibri”,
Editoriale Giorgio Mondadori, Numero 19, Giugno 1989
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