Poche riedizioni, pochi
recuperi, tra i molti cui l'editoria attuale ci ha abituato, appaiono
altrettanto opportuni di quello che consente oggi un ritorno in
libreria di La figlia dell'insonnia (Crocetti ), ampia scelta
dei versi di Alejandra Pizarnik a cura di Claudio Cinti, con un testo
del poeta surrealista argentino Enrique Molina e il breve prologo che
Octavio Paz scrisse per una delle raccolte più importanti
dell'autrice, Albero di Diana. Già pubblicata nel 2004,
l'antologia era ormai introvabile, e il suo ritorno è in sintonia
con l'interesse crescente nei confronti di una figura quasi
leggendaria, attorno alla quale si è addensata un'enorme mole di
indagini critiche, interpretazioni e studi, ma che viene spesso
affrontata in modo superficiale e stereotipato, al punto che solo
oggi, a quarantrè anni dalla morte, la foresta di luoghi comuni
cresciutale intorno è stata in parte disboscata, grazie anche alla
pubblicazione dell'epistolario (alla prima edizione del 1998 se ne
sono aggiunte altre due via via più ricche) e dei monumentali Diari
in edizione definitiva (1100 le pagine del volume uscito nel 2013 per
mano di Ana Becciu, che dell'opera di Alejandra è la curatrice),
finalmente liberi dalle prudenti censure che nel 2001 avevano espunto
moltissime annotazioni considerate eccessivamente intime.
È accaduto troppo spesso
che l'affascinante personaggio di Alejandra Pizarnik si sia
sovrapposto, fino a nasconderle, alle nove raccolte di poesia e alle
straordinarie prose (scoperte davvero solo nel 2002, quando Ana
Becciu le ha riunite in volume) prodotte tra il 1955 e il 1971, anno
in cui la sua parabola creativa si chiuse con La contessa
sanguinaria (Playground 2005), una stupefacente nouvelle gotica,
e con l'ultima antologia, L'inferno musicale, più che mai
connotata dalla fusione tra prosa e poesia, spezzata in brevi
frammenti. A segnare il principio di questo «divoramento»
dell'opera da parte del dato biografico è stata ovviamente la fine
di Alejandra Pizarnik, che, dopo diversi ricoveri in cliniche
psichiatriche, grazie a una breve «licenza» concessa dai medici,
tornò nella sua casa di Buenos Aires, piena di bambole e fantocci
smembrati, di animaletti in legno e metallo, di mobili insolitamente
piccoli e di carte, carte dappertutto: ritratti di scrittori defunti,
labirintici disegnini, quaderni, fogli, libri. «Un cosmo magnetico
di oggetti» - così lo definì il suo amico Antonio Requeni -
all'interno del quale Alejandra venne trovata morta il 22 settembre
del 1972: cinquanta pastiglie di seconal avevano definitivamente
cancellato l'insonnia che la tormentava sin dall'adolescenza,
contribuendo a farne una creatura notturna, sempre più estranea alla
luce del giorno (per lei le quattro del mattino, scrisse qualcuno,
«erano l'ora della merenda»).
Anche se c'è chi vuole
credere a un'overdose involontaria, non sono in molti a dubitare che
Pizarnik abbia portato a termine un suicidio a lungo evocato,
suggellando così il proprio mito futuro e dando l'ultima pennellata
a quell'immagine «maledetta» che lei stessa aveva contribuito a
disegnare: lo ricorda Sylvia Molloy, che la conosceva bene e che la
racconta impegnata in una «autoraffigurazione permanentemente
bisognosa di testimoni», ma che allo stesso tempo ci ricorda come
tale autoraffigurazione avesse tra le sue componenti anche una
indubbia e maliziosa buffoneria, una sorprendente vocazione per il
dandysmo, un'inclinazione a trasformare ogni gesto in performance,
che implicava una sorta di riscrittura del corpo (quel corpo odiato
quando era una adolescen-ta bruttina, balbuziente e asmatica, e poi
«lavorato» fino a farlo diventare quello di una pallida,
stravagante bohémienne), sempre proiettato verso lo sguardo altrui.
Elementi, questi, che divergono notevolmente dall'immagine consueta
di una Alejandra tragica, attratta dalla morte, assorta nel rimpianto
di una infanzia perduta, fragile, convinta di non poter essere amata:
una figura che corre il rischio di diventare - dice César Aira, suo
singolare biografo - «una specie di ninnolo decorativo sullo
scaffale della letteratura».
Ma che Alejandra Pizarnik
sia ben altro che un «ninnolo» e resti in buona parte un labirinto
pieno di sorprese ce lo dimostra la lettura incrociata della sua
opera da sempre visibile (la poesia, resa almeno in parte accessibile
grazie alla bella scelta di Cinti e alla sua raffinata traduzione, e
la prosa, immeritatamente sconosciuta ai lettori italiani, che con la
sua coloritura oscena, comica e a tratti violenta sembra anticipare
il neobarocco rioplatense di Perlongher, Lamborghini e Copi) e di
quella per molto tempo invisibile, ossia i diari e la corrispondenza
la cui natura letteraria è indiscutibile, non solo perché buona
parte della scrittura è dedicata all'accumulo e all'analisi di
citazioni tratte dalle infinite letture dell'autrice, quasi a creare
un enorme deposito di materiali cui attingere, ma anche perché si
tratta di testi destinati, forse in modo non inconsapevole, allo
sguardo altrui. Uno sguardo che prima o poi si sarebbe posato su
quella calligrafia minuta per raccogliere una ulteriore testimonianza
della estraneità di Alejandra, già proclamata dalla sua poesia:
estranea al paese dove era nata ma dove non aveva radici (i suoi
genitori, ebrei russi, vi arrivarono poco prima della sua nascita),
nella cui tradizione letteraria non si riconosceva - preferiva la
filiazione ideale dal surrealismo francese, che l'avrebbe influenzata
profondamente, oppure da Kafka e dai racconti chassidici -, e nelle
cui vicende politiche e sociali non si sentì coinvolta, restando
estranea alle correnti che negli anni '60 attraversarono la
letteratura latinoamericana, e proprio per questo rompendo - come
Silvina Ocampo, come Sara Gallardo – i condizionamenti di uno
sguardo maschile che chiudeva le donne letterate nel recinto
dell'emotività, del sentimento, delle vicende domestiche.
Straniera si sentiva,
addirittura, in seno a quel linguaggio che era la sua ossessione e
dentro il quale cercava rifugio e nascondiglio, cercando di governare
e comporre le parole nel modo più semplice, pulito e perfetto, in
versi sempre più brevi che, come in Estrazione della pietra della
follia, si travestono a volte da prosa, formando piccoli blocchi
compatti. Straniera a sé stessa, infine, tanto che i suoi versi sono
in continuo dialogo con un «tu» che è in realtà un «io»
interpellato o ammonito, mai raggiunto, mai ricomposto, frantumato in
una originaria e simbolica pluralità di nomi: perché Alejandra si
chiamava in realtà Flora, detta Buma, detta Blimele, e neppure il
cognome era davvero il suo (all'arrivo della famiglia in Argentina,
infatti, era stato modificato da un errore di trascrizione).
Alla poesia, i Diari e le
lettere fanno da controcanto, svelando dolori, difficoltà, passioni
quasi ossessive (come quella, ultima, per l'anziana Silvina Ocampo),
e confermando il desiderio per il corpo femminile, il rapporto
difficile con la famiglia e con la madre, gli eccessi, le lunghissime
insonnie, le amicizie fedeli (Cortazar, Olga Orozco, la Molloy, lo
psicanalista Léon Ostrov), le molte maschere, prima fra tutte quella
di bambina orfana della propria infanzia, che Pizarnik
consapevolmente indossava.
Ma in primo luogo ci
mostrano un retrobottega letterario complesso e quanto mai
interessante, cui farebbe da perfetta epigrafe la risposta data da
Alejandra durante una intervista del 1972: «Anche se essere donna
non mi impedisce di scrivere, credo che valga la pena di partire da
una lucidità esasperata. Per cui affermo che essere nata donna è
una sfortuna, come lo è essere ebreo, essere negro, essere poeta,
essere argentino, ecc. È chiaro che la cosa importante è quel che
facciamo delle nostre sfortune».
Alias domenica – il
manifesto, 12 luglio 2015
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