Per arrivare a trattare
ogni singolo individuo nel modo migliore, occorre alzare lo sguardo e
considerarne milioni. Ogni essere umano infatti è unico e
irripetibile, frutto della somma dei suoi geni e dell’ambiente che,
fin dal grembo materno, influenza e regola la loro attività. Oggi
riusciamo a conoscere molti di questi elementi. Quel che ancora non
sappiamo fare, a parte rare eccezioni, è unire i puntini, capire
cioè quali geni predispongono e quali proteggono dalle diverse
malattie, quali possono essere presi di mira per trovare nuove cure,
e così via.
«Per associare ciascuna
di queste caratteristiche individuali con la presenza di una
malattia, la sua evoluzione, la risposta a un trattamento o a un
intervento di prevenzione, occorre raccogliere ed elaborare un’enorme
mole di dati su un gran numero di persone: solo così possiamo
pensare che il legame sia significativo e non casuale», spiega Pier
Giuseppe Pelicci, a capo della ricerca presso l’Istituto europeo di
oncologia di Milano.
Possiamo in alcuni casi
prevedere dall’analisi dei loro geni quali pazienti risponderanno
meglio a un medicinale o rischiano di più un effetto indesiderato:
ma test di questo tipo esistono solo per circa 150 farmaci, contro le
migliaia disponibili sul mercato. Se sapremo caratterizzare meglio i
pazienti da inserire nei grandi studi clinici, potremo riconoscere su
quali sottogruppi un farmaco funziona e su quali no, con quali
effetti indesiderati. Potremo anche trovare mutazioni più frequenti
in persone affette da particolari malattie, ma anche scoprire che
accanto a queste ce ne sono altre che neutralizzano l’effetto delle
prime, guidando lo sviluppo di nuovi farmaci. Si potrà
tranquillizzare chi, per esempio, è portatore di un marcatore
genetico che predispone all’Alzheimer, ma ne ha anche un altro che
lo protegge. O ancora, scovare i tratti genetici tipici di chi
resiste all’infezione da Hiv o non si ammala di cancro pur essendo
un forte fumatore, oppure in famiglia eredita salute e longevità,
per rubarne il segreto ed estenderlo a tutti. La posta in gioco
quindi è alta, e ai piani alti lo si comincia a capire.
I grandi investimenti
pubblici sulla medicina di precisione sono cominciati qualche anno
fa, quando il governo britannico di David Cameron diede il via a un
progetto finalizzato a raccogliere e analizzare 100 mila genomi, da
mettere in relazione ai dati clinici raccolti dal Sistema sanitario
nazionale. Poi, l’anno scorso, il grande annuncio di Barack Obama,
nel solenne contesto del discorso sullo Stato dell’Unione: lo
stanziamento di 215 milioni di dollari (di cui 70 dedicati
specificamente alla ricerca sul cancro) per raccogliere informazioni
genetiche da un milione di volontari, da correlare alle loro
condizioni di salute, ai loro stili di vita, e così via, per
favorire lo sviluppo di una nuova medicina che tenga sempre più
conto delle differenze individuali. E infine, in questi giorni, la
notizia diffusa dalla rivista scientifica Nature, secondo cui la Cina
si prepara a investire sulla medicina di precisione addirittura 9,2
miliardi di dollari, in un programma della durata di 15 anni, che
coinvolgerà centinaia di centri di ricerca, per raccogliere dati su
milioni e milioni di persone. La popolazione è una risorsa che
certamente non manca nel Paese più popoloso del mondo, e che
consentirà di far emergere un numero di casi significativi anche per
condizioni patologiche o mutazioni genetiche mediamente rare nella
popolazione generale.
«Finalmente la genomica
è entrata nell’agenda dei governi», commenta Pelicci, che è
anche docente di patologia generale e patologia clinica
all’Università degli Studi di Milano. «La politica comincia a
capire l’impatto che un nuovo approccio potrebbe avere sulla salute
delle persone: solo il suo coinvolgimento può da un lato garantire
gli investimenti necessari per la ricerca, dall’altro governare la
spinosa questione della sostenibilità economica delle nuove cure».
Non è un caso che tutte
queste iniziative si mettano in moto proprio adesso. Le cose sono
cambiate molto da quella che, all’inizio degli anni 2000, sulla
scia del Progetto genoma, sembrava una grande impresa: la mappatura
da parte di deCode Genetics, azienda con base a Reykjavik, del Dna
dei 270 mila abitanti dell’Islanda, una popolazione omogenea,
perché rimasta isolata per secoli. Oggi la lettura di un genoma, che
a cavallo del nuovo millennio richiese una dozzina di anni e 2
miliardi di dollari, si può effettuare in pochi giorni, con costi 10
milioni di volte inferiori. Altre tecnologie consentono di analizzare
con grande rapidità e semplicità molti altri tipi di marcatori nel
sangue. Si è scoperto come il microbioma, cioè la flora batterica
con cui convive ogni organismo umano, può modificarsi e influire
sulla salute. I dati clinici di milioni di persone sono raccolti
nelle cartelle cliniche elettroniche, dove sono disponibili per anni.
Altre grandi banche dati raccolgono le caratteristiche dei campioni
biologici, ma anche di altri tipi di informazioni che possono essere
incrociate tra loro per fornire indicazioni utili. I dispositivi
mobili, i cosiddetti wearables, portati addosso dall’individuo,
forniscono dati continui e precisi sui suoi, personalissimi,
parametri vitali: applicazioni utilissime per personalizzare in tempo
reale la cura per esempio di diabetici cronici o ipertesi. I social
media facilitano l’incontro e gli scambi di informazioni, anche tra
ricercatori, medici e pazienti. L’informatica è infine in grado
oggi di raccogliere tutta questa enorme mole di dati ed elaborarli,
traendone informazioni che potranno cambiare l’approccio della
medicina nei prossimi decenni.
«È la ricerca sul
cancro, in particolare con la genomica, che ha fatto e fa da
apripista alla medicina di precisione», prosegue il ricercatore.
«Pensiamo all’imatinib, uno dei primi farmaci a bersaglio
molecolare introdotti in clinica all’inizio degli anni 2000: ha
completamente trasformato la prognosi dei malati di leucemia mieloide
cronica e di altre leucemie caratterizzate da un marcatore chiamato
cromosoma Philadelphia».
«Altre terapie,
purtroppo, per ora riescono a strappare in media solo poche
settimane, o nel migliore dei casi, mesi di vita», interviene
Roberto Labianca, direttore del Dipartimento interaziendale
oncologico della Provincia di Bergamo. «Per questo è importante
riuscire a riconoscere in anticipo i pazienti su cui avranno maggiori
probabilità di successo, in modo da ridurre effetti collaterali
inutili e controllare i costi, che altrimenti renderebbero queste
cure insostenibili per tutti».
Anche a questo servono i
cosiddetti basket studies: ricerche in cui il farmaco non viene più
assegnato in base all’organo in cui si è sviluppato un tumore, ma
mettendo insieme, nel “cestino”, appunto, pazienti con tumori di
diversa origine, accomunati solo dalle loro caratteristiche
molecolari.
«Un altro esempio di
medicina di precisione in oncologia è l’introduzione dei
cosiddetti vaccini anticancro, terapie immunologiche in cui cellule
del paziente vengono “addestrate” in laboratorio a rispondere in
maniera efficace e specifica al tumore che lo ha colpito», aggiunge
Labianca.
«Finora, tuttavia, le
terapie mirate sono state per lo più aggiunte alle cure tradizionali
quando queste fallivano o il caso specifico ne suggeriva
l’opportunità», conclude Pelicci. «Perché questo nuovo
approccio sia efficace ed economicamente sostenibile occorre invece
che la medicina di precisione sia integrata fin dall’inizio nel
percorso diagnostico e terapeutico previsto dal Sistema sanitario
nazionale, che lo deve saper governare nel modo migliore».
Dall’oncologia, la
medicina di precisione ha già raggiunto altri campi, per esempio
quello delle malattie rare su base ereditaria, dove il nuovo metodo
di correzione del Dna chiamato Crispr/Cas9 apre alla speranza di
poter correggere in futuro in maniera specifica ogni sorta di difetto
genetico. Intanto è già stato approvato il primo farmaco che agisce
sulle cause, e non sui sintomi, della fibrosi cistica, neutralizzando
l’effetto patologico di alcune mutazioni responsabili solo di una
piccola percentuale dei casi: se fosse stato provato indistintamente
su tutti i malati, si sarebbe rivelato assai poco efficace; in questo
gruppo ristretto, invece, funziona.
Contro Parkinson e
Alzheimer l’approccio di precisione fa sì che, invece di modulare
il dosaggio di una cura in relazione ai sintomi, si possano
impiantare nel cervello microchip o piccoli serbatoi capaci di
rilasciare stimoli elettrici o medicinali in risposta diretta ad
alterazioni del funzionamento nervoso.
Sono poi già stati
approvati dalla Food and Drug Administration statunitense due
anticorpi monoclonali (uno per ora in Europa), capaci di abbassare in
maniera importante i livelli di colesterolo nel sangue, anche in chi
resiste alle altre terapie. Lo sviluppo di queste terapie parte dallo
studio di alcune famiglie in cui il colesterolo tende a essere molto
basso e in cui ricorre la mutazione di un gene chiamato Pcsk9. Si è
così giunti a un trattamento che, con una o due sole iniezioni
sottocutanee al mese consente di tenere a bada il colesterolo, anche
nei casi più resistenti. Ma negli Stati Uniti il farmaco costa 14
mila dollari l’anno, per una terapia cronica da proseguire tutta la
vita. In Europa sono stati negoziati prezzi pari a meno della metà:
comunque troppo per trattare tutti i pazienti che ne avrebbero
bisogno. Prima di cominciare a riscuotere i vantaggi della medicina
di precisione, occorrerà superare lo scoglio dei suoi costi.
Pagina 99, 30 gennaio 2016
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