Le riflessioni di
Rossanda intorno a Togliatti che seguono partono dal libro, secondo me eccellente
e da rileggere, di Luciano Canfora, uscito in quell'Ottantanove, nel
quale tutti sembravano andare addosso a Togliatti, persino in quel
partito che egli aveva rifondato e forgiato. Non mi pare il meglio
che Rossanda abbia scritto sulla materia, ma ne posto cimunque un
ampio stralcio. (S.L.L.)
Una lettura refrigerante
il volumetto di Luciano Canfora su Togliatti e i dilemmi della
politica, Bari, Laterza 1989. Per lo stile elegante, il sorriso
con il quale lo storico vede i Della Loggia, i De Felice - perfino
certe facilità di Paolo Spriano — insomma i «posteri» ansiosi di
scaricare Togliatti con lo stesso aplomb con cui erano stati cantori
del partito nuovo, la stessa assenza di problematicità, la stessa
sconfinata fiducia nella smemoratezza altrui.
Tuttavia il libro — che
i presi a bersaglio si sono ben guardati dal confutare — va oltre
la denuncia del filisteismo, per affrontare con penna leggera una
questione pesante di storiografia: quali che siano le passioni che
nutrono il ricercatore, fare storia non è stendere una requistoria.
Il monito vale anche per la maggior parte dei lavori sulla
Rivoluzione francese degli ultimi anni. Ma restiamo a Togliatti: fare
la sua storia significa ricostituire il contesto effettivo in cui
operò, e in esso il valore esatto delle scelte e persino il
significato delle parole, nelle quali si situa il personaggio. Questo
non esime dal giudizio morale, lo fonda.
I dilemmi della politica
ci sono, e possono essere laceranti; certo non si possono scambiare
con le approsimative proiezioni d’una polemica a breve respiro, che
scarta o seleziona quel che le fa comodo.
Sostiene Luciano Canfora,
rivisitando la cultura degli anni venti e trenta, anzitutto che
l’écrasez l’infame che oggi si getta sul comunista, sulla
III Internazionale e sull’Urss era lungi dall’essere corrente
anche fra i non comunisti. Ma non per mancanza di notizie o gravità
di illusioni, bensì perché l’Ottobre e l’Intemazionale non sono
riducibili alle scelte interne dello stalinismo, e neppure alla sua
natura.
Il 17 non si riduce
allo stalinismo
Come tutte le
rivoluzioni, il 1917 scatena speranze, dà voce a bisogni,
ristruttura l’idea di sé e delle società in tutto il mondo. E, in
secondo luogo, l’interesse per l’Urss risponde - si precisa nel
volumetto a proposito di Gramsci, ma vale per tutta la generazione
che ha vissuto la crisi del primo dopoguerra e poi della Repubblica
di Weimar - alla «delusione del suffragio universale», senza la
quale poco si intende degli anni trenta in tutti i loro aspetti.
Anzi, una delusione analoga si visse nel secondo dopoguerra, attorno
agli anni sessanta, quando si riaffrontò problematicamente la «crisi
delle democrazie»; che sia stata cancellata dalla memoria in questi
stupidissimi anni ottanta è un danno serio.
Si pensi solo alla
ricostruzione che Canfora fa della discussione sulla «maggioranza »
o sul consenso in Gramsci e l’ultima sua rivisitazione decente, che
fu quella della discussione Bobbio-Ingrao del 1976.
Le 'responsabilità'
di Togliatti
La seconda tesi di
Canfora riguarda la responsabilità di Togliatti nelle scelte
dell’Internazionale, e la pone come va posta: non soltanto cioè su
quel che Togliatti poteva fare o non fare a favore di questo o quella
vittima della repressione (o fece o non fece, con precisazioni
opportune, come quella sul’37), ma nel dilemma reale che gli si
pose: sottraendosi e aprendo il conflitto con Stalin non avrebbe
perduto soltanto la vita, non avremmo avuto «quel» partito
comunista della guerra e del dopoguerra. Socialisti o democristiani
possono anche dire (oggi si dice di tutto) che sarebbe stato meglio
non averlo? Lasciamo loro questa responsabilità.
Certo in quel tipo di
partito la paternità di Togliatti è insostituibile; quando si andrà
a vedere con animo schiarito dalla polemica, è mia convinzione che
nessun altro, né dei vecchi né dei giovani, avrebbe avuto la forza
di costruirlo tenendo chiaro in mente che non si poteva andare a un
nucleo d’acciaio e a parallelismi semiclandestini senza andare a un
partito con tutte le caratteristiche staliniane e nessuna delle
possibile salvaguardie. (La correzione piu rilevante a questo
proposito va fatta, a parer mio, su Secchia dopo la pubblicazione dei
«Diari» e delle carte a cura di Enzo Collotti, e in anni più
recenti della biografia di Miriam Mafai ).
Il problema del valore
del ’17 e della «edificazione del socialismo» malgrado Stalin
(malgrado la concretezza storica delle sue forme, ma fu concreta
anche la dimensione e il senso della «rottura», nella generazione
rivoluzionaria) investiva la morale, fu problema etico di tutta la
vecchia guardia bolscevica e solo spiega il contegno ai processi, il
fatto che, dopo il Congresso del 1934, si sia lasciata liquidare per
singoli o gruppi. Essa mise, penso, sulla bilancia non solo la
propria innocenza e l’altrui manipolazione, ma la sopravvivenza
dell’Urss nella imminenza della guerra. Non so quanto si intenda
oggi questo ordine di dilemmi; certo nessuno capirà la storia del
comunismo se non li capisce.
Certo Togliatti ne derivò
la certezza che quella strada non poteva essere battuta e vide nella
stessa divisione del mondo e nella «condanna» dell’Italia a stare
in occidente la possibilità d’un esperimento inedito: la crescita
di un grande partito comunista in condizioni di democrazia e
suffragio, separato dall’idea d’una avanguardia giacobina.
Un padre fondatore
della democrazia
In questo senso egli fu,
sostiene Canforecon ragione, davvero un padre fondatore della
democrazia. Canfora ricostruisce con attenzione la sostanziale scelta
di Togliatti per la democrazia e lo stato di diritto. (Andrebbe
esaminata anche la storia interna del partito, non priva di
contraddizioni interesanti; malgrado tutto, le sole tre espulsioni
dal Comitato centrale furono fatte dai suoi oggi tanto immemori
seguaci, cinque anni dopo la sua morte).
Quel di cui Canfora non
dà ragione, perchè gliene mancano gli elementi — e forse neppure
ci sono, dato il pragmatismo dell’uomo — è del momento in cui
Togliatti introiettò l’idea del partito comunista italiana come
grande social-democrazia. E se mai la introiettò. Essa infatti non è
strettamente consequenziale alla tematica gramsciana prima e
togliattiana per cui nelle società avanzate il potere non starebbe
sulla punta del fucile.
Una rivisitazione della
tematica, non così volgare come sembra, delle riforme di struttura e
della «rivoluzione italiana» quale si riaffacciò nei primi anni
'60 — c'è un interessante Comitato centrale sui giovani in cui
egli ripropone il problema della domanda e possibilità del
socialismo «ora» — aiuterebbe a capire dove e se fosse finita
nell’ultimo Togliatti la tesi di «leninismo e potere», ancora
ripresa al primo convegno di studi gramsciani.
La questione non è più
quella della «duplicità», ma della natura della proprietà e dello
Stato in un paese di capitalismo maturo.
E, se mai, fu un
rivoluzionario?
Ma non è questo il punto
in causa nella discussione del 1988. È se Togliatti fosse un
«democratico» o no, e dal lavoro di Canfora esce un leader e una
pratica del Pei che non ha da «render conto alla democrazia
italiana», se mai viceversa. Del resto, credo che Canfora se mai gli
chiederebbe conto, come già da altre parti è avvenuto, del tema
opposto: se l’opera sua lasciava aperta o no una strada per un
mutamento di sistema.
Fuori dalla polemica
spicciola, ogni tentativo storiografico ha visto questo ordine di
problemi, improvvisamente rovesciato l’anno scorso. Quel che nel
volume di Canfora è singolare è la la pregnanza dei punti presi in
esame con rigore e limpidezza del metodo: ne notiamo soltanto due,
uno del tutto persuasivo, uno meno.
Persuasiva è la storia
del patto russo-tedesco, anche per quanto riguarda, secondo le ultime
fonti, l’esitazione di Stalin. (Una sola inesattezza riguarda la
morte, e non il suicidio, di Paul Nizan il 23 maggio del 1940 nella
battaglia della regione di Audruick, dopo Dunquerque). Meno
conclusive le ricerche su Gramsci e il Partito comunista italiano,
dove si vedrà più chiaro solo quando saranno pubblicate le lettere
di Tatiana Schucht a Gramsci, oggi presso l’Istituto Gramsci, e, se
esiste, l'archivio di Piero Sraffa. Dico se esiste perché chi l’ha
conosciuto sa che egli non ne parlò mai con nessuno, salvo alcuni
dirigenti del Pci: per un massimo di riserbo e forse, come sospettai
talvolta, per una ormai molto grande distanza intellettuale dal suo
passaggio nell'Ordine Nuovo.
Questo quadro resta da
illuminare, specie dopo l’uscita dal carcere e il soggiorno in
clinica, e ne fanno fede le lettere — quelle sì veramente
terribili — nelle quali annuncia a Giulia che se ne tornerà a
Santo Lussurgiu. È chiaro che fin poco prima ha pensato di rientrare
a Mosca, e appunto solo Sraffa o Tatiana potrebbero forse dirci a
titolo postumo che cosa sapesse e pensasse di quel che in quegli
ultimi anni, dal 1934 al 1937, là avveniva. Ma sarebbe stato
amichevole e saggio farlo venire a Mosca nel 1936? È curioso come
nessuno, che io sappia, se lo chieda. […]
“il manifesto”, 13
marzo 1989
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