29.1.18

Teatro. Paolo Poli si racconta (Cecilia Ermini)

Vispa Teresa infaticabile del teatro italiano, Paolo Poli svolazza dietro le quinte dell'Elfo Puccini di Milano con bambinesca noncuranza dei suoi 84 anni, mostrando bauli colmi di parrucche impomatate, sottane da gran dama, copricapi piumati «opera della straordinaria costumista Santuzza Calì» mentre, poco più in là, volteggiano le intercambiabili scenografie «compendio pittorico novecentesco» del compianto Emanuele Luzzati, scomparso nel 2007 ma ancora presente come compagno di scena (indispensabile il recente libro di Marina Romiti Paolo Poli e Lele Luzzati. Il Novecento è il secolo nostro edito da Maschietto Editore che ripercorre, nello splendido dialogo fra l'autrice e Poli, un sodalizio artistico durate oltre cinquant'anni).
Il piccolo mondo antico pascoliano è racchiuso qui, pronto per partire alla volta di Roma dove, al teatro Eliseo, Poli sta presentando il suo ultimo spettacolo: Aquiloni, pastiche di piroette, canzoncine fasciste e poesie di Giovanni Pascoli rivedute e un filo scorrette. Aboliti i colori patetici della produzione poetica «La cavallina storna? Che orrore! Per carità...Con Laura Betti si faceva la parodia alla radio, che nitriti!», Poli e i suoi quattro irresistibili, bravissimi boys (Fabrizio Casagrande, Daniele Corsetti, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco) sgambettano leziosi per circa due ore, mescolando variopinti siparietti canori della Belle Époque, travestimenti ornitologici degni di Papageno e le note di Guantanamera, come novelli Josè Carioca, a poetici recitativi in giacca e papillon capaci di restituire un Pascoli rimatore (finalmente) lontano dagli stereotipi scolastici delle sudate rime imparate a memoria.
Nell'ingannevole sobrietà spartana del suo camerino milanese, il fanciullino di Firenze è un impetuoso fiume in piena di aneddoti e di madeleine, a cominciare dalle memorie intrise di ricordi tosco-emiliani fino alle rimembranze cinematografiche davanti alla macchina da presa, colpevole, ma non a suo dire, di averlo sfruttato poco e male.

Che cosa l'affascina maggiormente della poetica pascoliana?
È il primo poeta che ho conosciuto da bambino, quando a scuola ci facevano leggere e imparare a memoria i noiosi Poemi Conviviali perché sai, all'epoca sembravano più culturali - il povero Pasolini fece addirittura la tesi di laurea. Con la vecchiaia ho riscoperto il Pascoli delle sperimentazioni, della poesia cosmica, delle onomatopee, il poeta capace di dar voce agli animali - il chiu dell'assiuolo - il suo plurilinguismo: era nato a San Mauro di Romagna ma molto presto s'impadronì del dialetto della Lucchesia, scrivendo «i diti» invece delle dita. Senza dimenticare il Pascoli proto futurista, straordinario inventore di onomatopee, molto prima dell'elogio dei bombardamenti di Tommaso Marinetti con il suo Zang Tumb Tumb e del cloffete, cloppete,
clocchete, la fontana malata del mio amato Palazzeschi. Interessante anche il suo personalissimo culto agreste, anticipatore delle esaltazione mussoliniane. Così nel mio spettacolo ho preso un po' di Myricae, qualche cosa dei Canti di Castelvecchio e un po' dei Poemetti ma non ho preso in considerazione la sua storia personale anche perché la disgrazia del Pascoli è stata che gli è sopravvissuta la sorella Mariù, una sciocchina sentimentale che scrisse una biografia del fratello piena di malcelata gelosia e morbosi aneddoti, dormivano in stanze diverse ma avevano le testate dei lettini appoggiate al muro che li divideva, copiando le atmosfere di Marcel Proust che è un narratore senza dubbio più dotato della Mariù Pascoli.

A proposito di ricordi, quali furono le sue prime infatuazioni artistiche?
Il cinematografo senza dubbio: del cinema ho vissuto un'epoca così bella, così ricca e irripetibile che adesso è difficile trovare qualcosa che incontri il mio gusto anche perché quando io ero giovane, nella seconda metà del secolo passato, c'erano i film di Rossellini, Visconti, Emmer. Erano tutti bravi perché venivano dal documentario, non a caso il primo film di Roberto La nave bianca racconta le gesta degli uomini della Marina Militare, e anche in Viaggio in Italia, con la meravigliosa Ingrid, c'èun lunghissimo e meraviglioso pezzo sulla mattanza dei tonni.

Che film guardava durante la sua infanzia?
Da bambino vedevo i film di Alessandro Blasetti con cui ho poi lavorato, molti anni dopo, nel 1979 per I racconti di fantascienza televisivi. Era una persona meravigliosa, un convinto fascista ma girava i film in russo, splendide fiabe come La corona di ferro. Non c'interessava la significanza, quello che volevamo era vedere il cattivone mongolo con le falci, Massimo Girotti mezzo nudo sugli alberi come Tarzan, Elisa Cegani, «amica» storica di Blasetti, che faceva la principessa malata nel letto ricoperta di mille veli. Blasetti poteva fare tutto, anche girare una scena all'Arena di Verona, che in realtà doveva sembrare il Colosseo, con le vergini cristiane a seno nudo perché Mussolini gli lasciava fare tutto quello che voleva e poi si vedevano che risultati!

E i primi incontri artistici?
Clara Calamai, prima ancora che diventasse famosa, perché era la figlia del capostazione di Prato. Mia madre era una maestra montessoriana e da Firenze tutti i giorni prendeva il treno per andare a Prato, portandomi a volte con sé. Ricordo questa stazioncina con l'aiuola di fiori che cambiava la data ogni giorno, opera del padre di Clara che abitava con la famiglia al piano di sopra. Una mattina alzai gli occhi, avevo sei o sette anni, e la vidi, quindicenne e bellissima e dopo una delusione d'amore andò a Roma, dove sul tram incontrò Gino Sensani, grandissimo costumista che la portò a Cinecittà.

Quali donne della mitologia hollywoodiana l'hanno più influenzata?
Greta Garbo fu la prima: era un'attrice capace di assorbire completamente i personaggi, come la mia amata Marlene Dietrich, sia che facesse la puttana come ne La signora delle camelie o una principessa ma anche quando interpretava Anna Karenina, un'altra porcellona. Era una donna sempre attenta a quello che faceva, basti ricordare che fu lei a portare Pirandello al cinema, una scoperta che ho fatto leggendo la corrispondenza fra Luigi Pirandello e Marta Abba, una grande attrice che nessuno ricorda più ma che ho avuto la fortuna di ammirare a teatro proprio in Come tu mi vuoi. Nel film la Garbo era semplicemente magnifica, con dei vestiti meravigliosi fatti da Adrian, quelli con una manica sì e una no, un orecchino sì e un no.

A proposito di abiti di scena, lei è accreditato come attore e costumista nell'esordio alla regia di Franco Zeffirelli «Camping».
Sì, facevo i costumi perché non c'erano soldi e anche una piccola comparsata nella scena dove Marisa Allasio entra in Chiesa. La mia parte era quella del prete e feci un piccolo tondo di cerotti da mettermi in testa per darmi un'aria di santità, anche se dovevo pronunciare solo una piccola battuta. Giravamo in un paesino di nome Poli, vicino a Roma e mi alzavo alle quattro del mattino in una tenda rimediata oppure nella saletta dietro l'osteria per preparare i vestiti di Marisa e delle comparse. Tutto il film era girato in esterni, in condizioni difficili però tutti lavoravamo, anche se malamente e a volte senza prendere la paga, figuriamoci i contributi. Ci davano dei foglietti con scritto «versamento in corso», «corso Garibaldi!» dicevo io sicché io e Laura Betti avevamo delle pensioni bruttissime, per questo sono costretto a lavorare ancora. Ma i film erano piccole cose, ho fatto un film mediocre come Le due orfanelle ma l'operatore era Anchise Brizzi, quello che l'anno prima aveva fatto Otello con Orson Welles e le tre Desdemone. Su suo consiglio andai in Marocco a visitare la fortezza spagnola dove avevano girato alcune scene e la cisterna dove Orson ambientò i sotterranei del castello e la scena del bagno turco. La povera Maria de Matteis, eccellente costumista, era disperata durante le riprese perché non c'erano i soldi per sdoganare gli abiti e così girarono tutti in mutande. Che bellezza!

Un'altra nota curiosa della sua filmografia è la partecipazione a uno dei primissimi film di Roberto Faenza, H2S, girato nel 1969 ma subito sequestrato per poi ricomparire due anni dopo.
Era un film bizzarro, una sorta di imitazione dei film inglesi sulle scuole pubbliche dove i bambini a letto sognano la professoressa nuda, e io interpretavo una malefica centenaria. Faenza l'ho rivisto di recente perché quel diavolo di mio nipote Andrea, figlio di Lucia, ha composto delle colonne sonore per i suoi ultimi film.

Nel suo ultimo film invece, «Le braghe del padrone» di Flavio Mogherini, il suo ruolo era inizialmente destinato a Fred Astaire...
Era il 1978, mi ero strappato le corde vocali e non potevo fare le mie tournée teatrali. Così la mia amica Milena Vukotic mi chiamò all'ultimo momento perché Fred Astaire era da poco finito sulla sedia a rotelle. Insomma mi presero per ripiego anche perché costavo molto meno. Poi non ho più fatto film ma frequentavo comunque, insieme a Laura Betti, tutto il mondo del cinema romano, all'epoca ci si mescolava tutti e si lavorava anche in radio e in tv.

Tornando al teatro, fu difficile emergere nell'intricatissima scena teatrale italiana degli anni 50-60?
Non particolarmente, mi sono sempre difeso con la scelta del repertorio e non facevo concorrenza agli altri che mi lasciavano sopravvivere perché il mio interesse artistico era o per una cosina curiosa del '700 francese o per la «sotto-letteratura» come Carolina Invernizio. Nessuno poi faceva bene le canzonette come le facevo io: le mie prime apparizioni televisive furono infatti nell'operetta e negli sketch. Ne ricordo con piacere uno con Sandra Mondaini, già pronta a sposare Vìanello e infatti nel finale del nostro sketch diceva «Cattivo bambino, non voglio più giocare con te! Raimondinoooo». Che brava che era, carina, le ho voluto tanto bene però non potevo frequentarla dopo il matrimonio, lui aveva una famiglia molto signorile, borghesuccia ed in più lo trovavo insopportabile, invidioso, viveva nella perenne gelosia di Ugo Tognazzi.

Perché il cinema è stata una semplice meteora nella sua carriera?Non ha nessun rimpianto a proposito?
Il mio lavoro è dal vivo, in mezzo alle persone, non esiste gioia più grande per me. Osservo la gente all'inizio dei miei spettacoli e a volte noto qualche volto stanco o incupito per una faticosa giornata lavorativa ma a poco a poco nasce il sorriso e la gioia grazie a una mia battuta o a una mia canzone e non c'è denaro che mi ripaghi di una cosa così. Da giovane facevo il cinema come si facevano le marchette, per soldi, e ho fatto anche tantissimi fotoromanzi: una volta ero a casa di Zeffirelli e Franco non c'era, impegnato in America per delle regie di opera lirica, così presi tutte le sue giacche e i suoi completi perché mi facevano fare sempre il figlio dei ricchi insieme Laura Tavanti, la moglie di Paolo Ferrari. Rimpianti? Nessuno, il cinema è bello farlo se sei un regista poiché l'attore non conta: in Torna a casa Lassie era più bravo il cane di Liz Taylor, persino il cavallo di Gran premio era più espressivo della Taylor e di Mickey Rooney. Ho rifiutato un ruolo in 8 e mezzo del mio amico Federico Fellini e pure nel Pinocchio di Carmelo Bene: mi offrì la parte di Lucignolo ma avevo i miei impegni teatrali. Anni dopo ho fatto con Marco Messeri un Pinocchio per la Rai ma io ero la Fata Turchina e Benigni, se era più intelligente, pigliava me come Fata!


“alias – il manifesto”, 19 gennaio 2013

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