Articolo di due anni fa,
ma la “tendenza” – mi dicono amici di Arcigay – è tuttora
vitale e in crescita anche in Italia. (S.L.L.)
Un'immagine dal documentario di Vice CHEMSEX (2015) |
«Di questi tempi arrivi
a Londra alla ricerca della tua vita gay, e trovi Grindr. Nel giro di
quattro conversazioni scopri cosa sono le chems. Entro otto arrivi
allo slamming, l’iniezione». Inizia così il trailer di Chemsex,
il documentario prodotto da Vice e arrivato nelle sale londinesi il 4
dicembre a raccontare una subcultura che, pur parlando di una
minoranza ancora molto ridotta, nel Regno Unito inizia a preoccupare.
Il chemsex è l’utilizzo
di droghe durante i rapporti sessuali e riguarda soprattutto i men
who have sex with men (uomini che sono coinvolti in attività
sessuali con altri uomini indipendentemente dalla loro identità
sessuale, da qui in poi msm). Mefedrone, metanfetamina in cristalli,
Ghb, Gbl: le prime due, stimolanti, aumentano pressione sanguigna,
eccitazione sessuale ed euforia. Le seconde hanno un lieve effetto
anestetico e disinibiscono, così il chemsex si trasforma, nei casi
più estremi, in maratone di sesso che durano fino a 72 ore. Tre
giorni spesso trascorsi senza dormire o mangiare e avendo rapporti
sessuali con più partner, molti non protetti proprio per l’effetto
delle droghe, che rendono difficile dire di no.
Perdere il controllo
esclude anche la possibilità di ricorrere alla Ppe, la profilassi
post-esposizione al virus dell’Hiv. Prima si prende meglio è
(l’efficacia è dell’86% nelle prime quattro ore), ma per
riuscire a combattere l’infezione deve essere assunta entro massimo
48 ore dal rapporto a rischio.
I farmaci
antiretrovirali, cui si accede tramite pronto soccorso o attraverso i
reparti di malattie infettive, arrivano nel sangue e impediscono al
virus di annidarsi nelle cellule del fegato, nel midollo spinale, nel
cervello. È una corsa contro il tempo, anche perché non sempre il
personale sanitario è preparato sulla terapia. E 72 ore dopo un
rapporto a rischio è già troppo tardi.
Il British Medical
Journal non usa mezzi termini e ha definito il chemsex una priorità
di sanità pubblica: in Uk mancano servizi sanitari specialistici e
quelli esistenti sono pensati soprattutto per i consumatori di eroina
e crack. Ma sempre più persone cercano aiuto, anche psicologico, per
le chemsex drugs: il 64% di quelle che si sono rivolte ad Antidote
(l’unico servizio in Uk che offre supporto in materia alla comunità
Lgbt) ne ha fatto uso nel biennio 2013-2014, la maggior parte per
iniezione.
E da noi? La subcultura
si nasconde in piena vista: la dicitura chem, ovvero
disponibile al chemsex, si incontra da anni su app e siti web
destinati agli incontri.
Gli ultimi dati
strutturati che possono dirci qualcosa sono quelli di Emis (The
European Msm Internet Survey, 2010), che ha coinvolto oltre 18 mila
msm da 27 Paesi europei e limitrofi.
Non è il caso di
allarmarsi: ad aver fatto uso di party drugs nelle quattro
settimane precedenti il sondaggio, in Italia, era un msm ogni 26, il
3,8% degli intervistati, contro uno su otto (il 12,5%) in Inghilterra
e a fronte di una media europea del 4,7%. Ancora diversa la
situazione nei Paesi Bassi, dove si sale al 16,8%, uno su sei.
«È un fenomeno in
espansione anche qui e va affrontato come tale per non farsi cogliere
impreparati», commenta Michele Breveglieri, sociologo e responsabile
salute di Arcigay, che di Emis ha curato la sezione dedicata all’uso
di sostanze.
La questione va
considerata da molti punti di vista, a partire dall’allarmismo (lo
stesso documentario di Vice ha ricevuto critiche in questo senso)
che, per una minima percentuale di msm, rischia di colpire un’intera
comunità. «Il pericolo è che non ci siano risultati nella risposta
dei servizi, ma solo un altro stigma. L’uso di queste sostanze è
un fattore serio di esposizione all’Hiv ed è su questo che stiamo
concentrando le forze, per informare una comunità ancora impreparata
al fatto che è soggetta a una prevalenza di sieropositività. In
base alle ultime indagini si stima che circa il 10% degli msm
italiani sia sieropositivo», spiega Breveglieri.
L’associazione tra uso
di sostanze psicoattive e sesso non protetto emerge anche dai dati
Emis: il 9,3% degli msm che aveva avuto rapporti anali senza condom
nelle quattro settimane precedenti il sondaggio, aveva anche preso
party drugs.
Il fenomeno in Italia non
è una priorità sanitaria, ma l’editoriale del British Medical
Journal pone l’accento su un aspetto, quello dell’assistenza
psicologica, che ci vedrebbe totalmente impreparati.
«È importante capire se
c’è un’associazione tra questo comportamento e un disagio legato
alla solitudine o all’omofobia interiorizzata, il minority stress,
quella vulnerabilità che accompagna una persona per il solo fatto di
appartenere a una minoranza stigmatizzata», osserva Breveglieri,
«esistono già studi che l’hanno associato a comportamenti a
rischio, per esempio alla compulsività nei rapporti sessuali».
Se in Gran Bretagna la
situazione inizia a muoversi – la Novel Psychoactive Treatment Uk
Network ha stabilito delle linee guida per il personale sanitario che
si occupa di pazienti con problemi legati a party drugs – in
Italia non ci sono ancora servizi sanitari specificamente dedicati al
connubio sesso-droga.
«Nemmeno per le persone
sieropositive è previsto un sostegno terapeutico psicologico o di
counseling, se non quello portato avanti dalle associazioni.
Medicalizzando troppo la risposta sanitaria, si rischia di perdere
l’aspetto umano di una comunità che ha una forte identità, un suo
linguaggio, suoi codici comportamentali» conclude Breveglieri. «Noi
non vogliamo avere un approccio moralistico sulle modalità con cui
le persone si divertono o fanno sesso, ma aiutarli a farlo in modo
consapevole, dando risposte a chi esprime dei bisogni. Su questo
siamo soli, la sanità pubblica non ci sostiene».
Pagina 99, 5 dicembre
2015
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