Rileggo il commento di Paolo Favilli pubblicato poco più di un mese fa, il primo maggio, con il titolo È tornato il signore della corruzione. Mi pare attualissimo. (S.L.L.)
Paolo Volponi, ne Le mosche del capitale, (1989) osserva un paesaggio italiano ancora «bello e pingue, ma svagato e stracco come se aspettasse una passata di peste e una notte da Medioevo». Il romanzo è ambientato nel 1980 ed è, nella sua lucidità, un premonizione ragionata della barbarie che stava arrivando. I suicidi «per cause economiche», episodi estremi, si manifestano come indicatori, spie dei modi di declinazione della barbarie nei tempi dell'inversione del progetto democratico.
Il progetto democratico, infatti, è del tutto compenetrato dalle logiche di uno svolgimento intrinsecamente opposto a quello della barbarie: un percorso in cui si declinano le forme storicamente possibili dell'uguaglianza, scandite dall'ampliamento progressivo della sfera dei diritti.
La dinamica regressiva dell'ultimo trentennio, le sue cause strutturali, non sono purtroppo elemento essenziale del discorso politico. Non è un caso. Da tempo ormai la politica ha scelto l'irrilevanza. Questo non è un problema per le parti politiche organiche alle classi dominanti. Il pilota automatico (si fa per dire, la scelta politica è implicita) che gestisce economia e società è garanzia di funzionamento adeguato per logiche e interessi cui tali parti politiche sono organiche. Per le parti la cui funzione storica era stata quella dell'emancipazione dei subalterni, si è trattato, invece, della catastrofe. Catastrofe di quella funzione storica, non certo dei destini personali dei molti che, di quella parte, provengono dal ceto politico dirigente. Anzi mai come negli anni dell'inversione del progetto democratico i loro destini sono stati contrassegnati da onori e privilegi.
Si è avverata la profezia di Leonardo Sciascia che ne Il contesto fa dire ad un leader del partito di governo sollecitato ad «aprire» nei confronti del partito di Enrico Berlinguer: «Questo paese non è ancora arrivato a disprezzare il partito del signor Amar quanto disprezza il mio. Nel nostro paese il crisma del potere è il disprezzo». Ora disprezzo e potere si sono alfine pienamente coniugati. Ecco allora che dell'orrore in cui siamo immersi possiamo dare conto solo prendendo le distanze dal luogo della narrazione dei giochi incrociati tra i poteri, per immergersi nel luogo della narrazione delle punte estreme dell'orrore quotidiano, della banalità dell'orrore. D'altra parte sappiamo bene, ormai, come in genere sia proprio l'analisi dei «margini» a darci conoscenza sulla verità del «centro».
La microstoria del triplo suicidio «per povertà», avvenuto recentemente a Civitanova Marche, non è altro che la riduzione di scala di problemi di ben più ampia dimensione. Vanno affrontati con analisi politiche e socio-economiche a quello stesso livello. Una microstoria innervata del senso profondo della storia generale che stiamo vivendo.
Romeo Dionisi e Maria Sopranzi, i due coniugi che si sono impiccati in un garage di Civitanova, avevano interiorizzato la lezione sulla dignità dell'uomo che ha caratterizzato la storia dell'emancipazione dei subalterni, e non hanno retto alla vergogna del suo attuale naufragio.
La vergogna è paralizzante, distrugge le risorse interiori proprio perché è la condizione prodotta dalla perduta dignità. Romeo Dionisi e Maria Sopranzi si trovavano a giudicare degradante una situazione economico-sociale degradata. L'identità va in pezzi. Se gli esiti suicidali rimangono marginali, tuttavia il processo descritto riguarda ormai milioni di persone. La povertà diventa miseria proprio perché la povertà è indotta da un ulteriore ciclo di modernizzazione. Il ciclo dell'invenzione della scarsità, della scarsità socialmente costruita.
La modernizzazione della povertà, la sua riduzione a miseria, è uno dei parametri fondamentali su cui si articola l'analisi del capitalismo nell'età contemporanea. Nei cosiddetti «trenta gloriosi» (fine anni Quaranta, fine anni Settanta), si era avviata un'inversione di tendenza, un ciclo opposto: quello del percorso democratico; poi uno nuovo di modernizzazione. La banalizzazione del moderno, ma insieme la sua riduzione a senso comune dominante, la si può cogliere bene nell'affermazione lapidaria di una delle firme del “Corriere della Sera” relativamente al merito maggiore della Thatcher: «Ha costretto l'Inghilterra a diventare moderna» (Severgnini, 22/04/'13). La tragedia sociale dei subalterni come indice di modernità.
Alla banalizzazione della modernità si accompagna, in particolare nel caso italiano, la banalizzazione del nesso tra questione politica, questione morale e questione criminale. Il braccio destro (o sinistro) di Berlusconi è stato condannato in via definitiva per corruzione in atti giudiziari. La corruzione è avvenuta con l'utilizzazione di fondi riconducibili al suo datore di lavoro ed a vantaggio dello stesso. Il suo braccio sinistro (o destro) è stato condannato in primo e secondo grado (cioè nel giudizio di sostanza) per concorso in associazione mafiosa. In particolare nel suo ruolo di interfaccia (protettiva o meno) tra tale associazione e il solito datore di lavoro. È necessario ricordare che la lunga fase politica in cui siamo ancora immersi è cominciata proprio con il tridente d'attacco Berlusconi, Previti, Dell'Utri, cioè la triade fattuale di ciò che è stato provato: intreccio di questione politica, questione morale, questione criminale.
Il corpo a cui appartengono il braccio sinistro ed il destro, dopo una breve parentesi, è ritornato ad essere uno dei signori della politica italiana. Si tratta di un fenomeno obbiettivamente mostruoso («che suscita stupore e meraviglia, straordinario» ), ma ancora più mostruoso il fatto che non sia avvertito come tale da chi ancora, qualche volta, evoca Enrico Berlinguer, sia pure in riferimenti del tutto retorici.
Tale mostruosità ha a che vedere con i lineamenti lunghi di una tipicità italiana. Lineamenti che si manifestano in maniera carsica, ma che tendono sempre a ritornare in superficie nei momenti in cui le risposte alle crisi emergono dalla decomposizione di climi caratterizzati da forte tensione etico-politica. Per dirla con il fulminante incipit tolstoiano di Anna Karenina: «Le famiglie felici si rassomigliano tutte. Ogni famiglia infelice, invece, lo è a modo suo». E nella famiglia Italia la crisi fa emergere componenti di lungo periodo che si coniugano agevolmente con la tradizione, anch'essa di lungo periodo, della politica come luogo privilegiato della coltivazione raffinata della pianta cinismo. Il fatto che lo scioglimento del nodo rappresentato dalla suddetta triade, vero e proprio paradigma della politica alta, sia stato sterilizzato, tolto dal campo della politica, dimostra come quella pianta sia divenuta rigogliosa.
«Intese non sono orrore...», ha tuonato Napolitano divenuto il presidente di una Repubblica con una nuova costituzione materiale. L'affermazione è un'ovvietà. Le intese figlie di un cinismo tanto profondo e radicato sono invece proprio l'orrore. Un indicatore preciso di barbarie politica. Solo la presa di coscienza degli aspetti fondamentali di questa barbarie, delle loro radici profonde, della necessità di una discriminante netta, sia etico-politica che analitica, nei confronti del vasto fronte della banalizzazione cinica, può costituire il punto di riferimento unitario di una sinistra divisa e dispersa.
"il manifesto", 1 maggio 2013
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