Perché il romanzo poliziesco, o
«romanzo d'indagine», come qualcuno preferisce chiamarlo, genere ritenuto
inferiore e relegato nella paraletteratura di massa o Trivialliteratur, più volte prossimo allo sfinimento e sempre
disposto a rifiorire, suscita l'interesse dei critici e dei letterati più fini?
Lionel Bellenger (Saper leggere, Editori Riuniti) ci fa
sapere che in Francia la metà dei libri ietti appartiene a questo genere; e
forse le proporzioni non saranno troppo dissimili in Italia. Uno potrebbe dire
bruscamente: viviamo in un mondo criminale e dunque non c'è da stupirsi che
vigoreggi una letteratura sul crimine, tanto più che essa è redditizia.
Sì, l'uomo è criminale e i
racconti si sono sempre occupati di delitti. Ma il romanzo poliziesco è una
cosa a sé. All'inizio del secolo l'amabile Chesterton, l'inventore di Padre
Brown, vedeva nel romanzo poliziesco la prima e unica forma di letteratura
popolare che esprimesse «in qualche modo» la poesia della vita moderna e che
riconoscesse in ogni particolare, in ogni mattone, un geroglifico di storie
umane. Andando a caccia della malvagità l'investigatore, come il principe di un
racconto di fate, poteva imbattersi nella virtù (eccitante avventura, nei rosei
paradossi di Chesterton).
Dopo settant’anni di fortune il
romanzo poliziesco appare ancora nella sua qualità di macchina mitologica: un
modello per evocare e addomesticare la lotta contro la violenza. Così Ralph
Harper (Il mondo del thriller, Guida)
legge nella narrativa poliziesca le peripezie della «giustizia poetica». L'eroe
indaga movendosi nell'assurdo e nella disgregazione, e tale movimento ci
appaga, «spazza via i vincoli della nostra coscienza» gettandoci in
situazioni-limite alla ricerca di una identità fittizia e profondamente sognata
(sospettiamo per inciso che le anime moralistiche e tortuosamente rigide siano
poco attratte dal poliziesco).
Anche Boileau e Narcejac (Il romanzo poliziesco, Garzanti)
accennano alla radice «per così dire metafisica» di questo modello narrativo:
l'uomo razionale ricercando la verità si comporta come il detective. Del resto
Giuliano Gramigna ha elegantemente notato (La
menzogna del romanzo, Garzanti) che il modo di procedere della narrazione
poliziesca — disseminazione di tracce alle quali si cerca di attribuire un
senso — è la metafora di ogni racconto.
Insomma, uno potrebbe sbrigarsela
dicendo che i romanzi polizieschi sono le favole per adulti di questo secolo
disastrato, e che da brave favole rispondono a una tipica musa: la paura. E poi
sarebbe facile osservare quanto siano frequenti nella tradizione moderna i
romanzi «criminali» o «d'indagine»: dai Fratelli
Karamazov a Berlin Alexanderplatz
e al Pasticciaccio. Un classico come Il processo non è altro che un'inchiesta
compiuta dall'accusato di non si sa quale colpa per conoscere i motivi della
sua condanna.
Se il lettore è un complice
Ma sussistono ragioni per
apprezzare il genere poliziesco in quanto tale? E' vero che alla fine sia pure
del giallo più avvincente cadiamo senza rimedio in quella «depressione» di cui
parla sdegnato Edmund Wilson (giacché sentiamo di essere stati imbrogliati)?
Come dice un personaggio di Borges: «la soluzione del mistero è sempre
inferiore al mistero», che ci vuoi fare. Sarà per questo che il poliziesco
(enigma, indagine, soluzione: schema quasi obbligato) è un genere inferiore? Ma
chi pensa così non fa del razzismo letterario?
Le risposte potrebbero sembrare
semplici e invece non lo sono. Se lo fossero, faremmo torto a tutti i sottili
teorici, scrittori e critici, antologizzati da Renzo Cremante e Loris Rambelli
intorno a La trama del delitto
(Pratiche Editrice, pagg. 294, lire 10.000). E' una bella compagnia, dove
notiamo Richard Austin Freeman, Bertolt Brecht, Dorothy Sayers, Roger Caillois,
il poeta Auden, Helmut Heissenbuttel, Savinio e Gadda, René Ballet, Todorov,
Maxime Chastaing, Giorgio Melchiori e parecchi altri. La scelta è competente e
sofisticata, fatta più per sollevare problemi che per offrire spiegazioni, e si
ha l'impressione che i curatori abbiano tramato deliberatamente un concerto di opinioni
dissonanti per farci meglio apprezzare consonanze inattese e diverse
riverberazioni della stessa idea.
Sembra esserci una complice
intesa tra lettore e libro giallo: il lettore entrerà nel gioco gratificante
del crimine e dell'indagine, libero di identificarsi con l'investigatore, col
narratore della storia o se proprio vuole con l'assassino. E libro gli promette
di rispettare certe regole e di variare uno schema pressoché fisso; dentro il
racconto esplicito devono celarsi le tracce di ciò che non è narrato e il
lettore dev'essere posto in grado di riconoscerle; la conclusione deve sorprendere
il lettore ma convincerlo che è la sola giusta.
La funzione di Maigret
Secondo Auden si leggono i libri
polizieschi per nostalgia di innocenza, e dunque per trarne una soddisfazione
magica. Questa opinione è strettamente psicologica e direi troppo cattolica;
inoltre presuppone che il poliziesco sia in ogni caso un genere evasivo e tutt'al
più un'opera di intelligenza, mai e poi mai un'opera d'arte. Ma molti segni
contrastano con le vedute di Auden.
Roger Caillois fa alcune
considerazioni molto acute, che si possono connettere con quelle un po' più
fumose di Heissenbuttel a proposito della tormentata funzione di Maigret nei
romanzi di Simenon: il romanzo poliziesco è costretto a sfidare se stesso in
quanto il suo schema contraddice la natura del romanzesco. Quest'ultimo è
alleato delle tenebre, dell'irregolarità e della licenza. Si schiera dalla
parte della passione, dell'eccesso, dell'intelletto trasgressore.
Ora, al contrario, il romanzo
poliziesco deve assumere quale eroe il rappresentante dell'ordine e della
mediocrità. D'altra parte, se l'autore del romanzo poliziesco diminuisce le
distanze tra il suo eroe e il colpevole, trasforma costui in una vittima. Così
il poliziesco s'irretisce in un equivoco mostrandosi insieme astratto e
sensazionale. Equivocità radicale che Caillois trova espressa nella «più
strana» delle opere poliziesche, L'uomo
che fu Giovedì di Chesterton.
Caillois ne fa un riassunto
perfetto e vale la pena di ripeterlo. «Un detective arriva a introdursi nel
comitato centrale dell'Associazione Anarchica Universale. I sette membri di
tale organo superiore del terrorismo e della distruzione, delegati ognuno da un
paese diverso, si conoscono tra loro unicamente con i nomi dei giorni della
settimana, e a poco a poco si rivelano poliziotti incaricati di svolgere
un'indagine su quel covo nocivo, ad eccezione, tuttavia, del capo supremo,
Domenica. Quando si tratta di fornire i connotati di Domenica, ognuno lo
descrive differentemente ma, cosa curiosa, secondo la propria indole e paragonandolo
all'universo. Riconoscono allora di aver a che fare con Dio». Fomentatore del
disordine e sovrano dell'ordine coincidono.
Si dovrà convenire con René
Ballet che la letteratura poliziesca si presenta in realtà «come una parodia di
rapporti equivoci» tra i membri di una società. Anche Rambelli parla della
«intrinseca ironia» del romanzo poliziesco; ed è qui probabilmente, oltre che
nella strettoia delle sue regole, il segreto popolare e raffinato della sua
longevità. Allo stesso modo della tragedia classica, il romanzo poliziesco
tramonterà soltanto col venir meno della sua funzione sociale nell'età del
sospetto.
“la Repubblica”, 1980
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