16.8.13

Lo strano caso del signor Domenica (di Alfredo Giuliani)

Perché il romanzo poliziesco, o «romanzo d'indagine», come qualcuno preferisce chiamarlo, genere ritenuto inferiore e relegato nella paraletteratura di massa o Trivialliteratur, più volte prossimo allo sfinimento e sempre disposto a rifiorire, suscita l'interesse dei critici e dei letterati più fini?
Lionel Bellenger (Saper leggere, Editori Riuniti) ci fa sapere che in Francia la metà dei libri ietti appartiene a questo genere; e forse le proporzioni non saranno troppo dissimili in Italia. Uno potrebbe dire bruscamente: viviamo in un mondo criminale e dunque non c'è da stupirsi che vigoreggi una letteratura sul crimine, tanto più che essa è redditizia.
Sì, l'uomo è criminale e i racconti si sono sempre occupati di delitti. Ma il romanzo poliziesco è una cosa a sé. All'inizio del secolo l'amabile Chesterton, l'inventore di Padre Brown, vedeva nel romanzo poliziesco la prima e unica forma di letteratura popolare che esprimesse «in qualche modo» la poesia della vita moderna e che riconoscesse in ogni particolare, in ogni mattone, un geroglifico di storie umane. Andando a caccia della malvagità l'investigatore, come il principe di un racconto di fate, poteva imbattersi nella virtù (eccitante avventura, nei rosei paradossi di Chesterton).
Dopo settant’anni di fortune il romanzo poliziesco appare ancora nella sua qualità di macchina mitologica: un modello per evocare e addomesticare la lotta contro la violenza. Così Ralph Harper (Il mondo del thriller, Guida) legge nella narrativa poliziesca le peripezie della «giustizia poetica». L'eroe indaga movendosi nell'assurdo e nella disgregazione, e tale movimento ci appaga, «spazza via i vincoli della nostra coscienza» gettandoci in situazioni-limite alla ricerca di una identità fittizia e profondamente sognata (sospettiamo per inciso che le anime moralistiche e tortuosamente rigide siano poco attratte dal poliziesco).
Anche Boileau e Narcejac (Il romanzo poliziesco, Garzanti) accennano alla radice «per così dire metafisica» di questo modello narrativo: l'uomo razionale ricercando la verità si comporta come il detective. Del resto Giuliano Gramigna ha elegantemente notato (La menzogna del romanzo, Garzanti) che il modo di procedere della narrazione poliziesca — disseminazione di tracce alle quali si cerca di attribuire un senso — è la metafora di ogni racconto.
Insomma, uno potrebbe sbrigarsela dicendo che i romanzi polizieschi sono le favole per adulti di questo secolo disastrato, e che da brave favole rispondono a una tipica musa: la paura. E poi sarebbe facile osservare quanto siano frequenti nella tradizione moderna i romanzi «criminali» o «d'indagine»: dai Fratelli Karamazov a Berlin Alexanderplatz e al Pasticciaccio. Un classico come Il processo non è altro che un'inchiesta compiuta dall'accusato di non si sa quale colpa per conoscere i motivi della sua condanna.

Se il lettore è un complice
Ma sussistono ragioni per apprezzare il genere poliziesco in quanto tale? E' vero che alla fine sia pure del giallo più avvincente cadiamo senza rimedio in quella «depressione» di cui parla sdegnato Edmund Wilson (giacché sentiamo di essere stati imbrogliati)? Come dice un personaggio di Borges: «la soluzione del mistero è sempre inferiore al mistero», che ci vuoi fare. Sarà per questo che il poliziesco (enigma, indagine, soluzione: schema quasi obbligato) è un genere inferiore? Ma chi pensa così non fa del razzismo letterario?
Le risposte potrebbero sembrare semplici e invece non lo sono. Se lo fossero, faremmo torto a tutti i sottili teorici, scrittori e critici, antologizzati da Renzo Cremante e Loris Rambelli intorno a La trama del delitto (Pratiche Editrice, pagg. 294, lire 10.000). E' una bella compagnia, dove notiamo Richard Austin Freeman, Bertolt Brecht, Dorothy Sayers, Roger Caillois, il poeta Auden, Helmut Heissenbuttel, Savinio e Gadda, René Ballet, Todorov, Maxime Chastaing, Giorgio Melchiori e parecchi altri. La scelta è competente e sofisticata, fatta più per sollevare problemi che per offrire spiegazioni, e si ha l'impressione che i curatori abbiano tramato deliberatamente un concerto di opinioni dissonanti per farci meglio apprezzare consonanze inattese e diverse riverberazioni della stessa idea.
Sembra esserci una complice intesa tra lettore e libro giallo: il lettore entrerà nel gioco gratificante del crimine e dell'indagine, libero di identificarsi con l'investigatore, col narratore della storia o se proprio vuole con l'assassino. E libro gli promette di rispettare certe regole e di variare uno schema pressoché fisso; dentro il racconto esplicito devono celarsi le tracce di ciò che non è narrato e il lettore dev'essere posto in grado di riconoscerle; la conclusione deve sorprendere il lettore ma convincerlo che è la sola giusta.

La funzione di Maigret
Secondo Auden si leggono i libri polizieschi per nostalgia di innocenza, e dunque per trarne una soddisfazione magica. Questa opinione è strettamente psicologica e direi troppo cattolica; inoltre presuppone che il poliziesco sia in ogni caso un genere evasivo e tutt'al più un'opera di intelligenza, mai e poi mai un'opera d'arte. Ma molti segni contrastano con le vedute di Auden.
Roger Caillois fa alcune considerazioni molto acute, che si possono connettere con quelle un po' più fumose di Heissenbuttel a proposito della tormentata funzione di Maigret nei romanzi di Simenon: il romanzo poliziesco è costretto a sfidare se stesso in quanto il suo schema contraddice la natura del romanzesco. Quest'ultimo è alleato delle tenebre, dell'irregolarità e della licenza. Si schiera dalla parte della passione, dell'eccesso, dell'intelletto trasgressore.
Ora, al contrario, il romanzo poliziesco deve assumere quale eroe il rappresentante dell'ordine e della mediocrità. D'altra parte, se l'autore del romanzo poliziesco diminuisce le distanze tra il suo eroe e il colpevole, trasforma costui in una vittima. Così il poliziesco s'irretisce in un equivoco mostrandosi insieme astratto e sensazionale. Equivocità radicale che Caillois trova espressa nella «più strana» delle opere poliziesche, L'uomo che fu Giovedì di Chesterton.
Caillois ne fa un riassunto perfetto e vale la pena di ripeterlo. «Un detective arriva a introdursi nel comitato centrale dell'Associazione Anarchica Universale. I sette membri di tale organo superiore del terrorismo e della distruzione, delegati ognuno da un paese diverso, si conoscono tra loro unicamente con i nomi dei giorni della settimana, e a poco a poco si rivelano poliziotti incaricati di svolgere un'indagine su quel covo nocivo, ad eccezione, tuttavia, del capo supremo, Domenica. Quando si tratta di fornire i connotati di Domenica, ognuno lo descrive differentemente ma, cosa curiosa, secondo la propria indole e paragonandolo all'universo. Riconoscono allora di aver a che fare con Dio». Fomentatore del disordine e sovrano dell'ordine coincidono.
Si dovrà convenire con René Ballet che la letteratura poliziesca si presenta in realtà «come una parodia di rapporti equivoci» tra i membri di una società. Anche Rambelli parla della «intrinseca ironia» del romanzo poliziesco; ed è qui probabilmente, oltre che nella strettoia delle sue regole, il segreto popolare e raffinato della sua longevità. Allo stesso modo della tragedia classica, il romanzo poliziesco tramonterà soltanto col venir meno della sua funzione sociale nell'età del sospetto.


“la Repubblica”, 1980

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