Ricorre quest'anno il
cinquantesimo anniversario dalla morte di Andrej Belyj (al secolo, Boris
Bugaev), uno dei massimi protagonisti della stagione del simbolismo in Russia
all' inizio di questo secolo. A lungo attratto dalle fumisterie esoteriche del
"sole" antroposofico, Belyj venne colpito nell'estate del ' 33 da un
colpo di sole, in Crimea, e ne morì per i postumi - poco meno che
cinquantaquattrenne - nel gennaio 1934.
"Belyj è un cadavere, e non
risusciterà in nessuno Spirito, quale che sia": così, con molto astio e
una certa dose di storica miopia, ne scriveva Lev Trozkij una decina d' anni
prima della morte "fisica", nel 1923. Quante cose sono cambiate da
quel 1923, e ancor più dal 1934: oggi la critica sovietica lo tiene per
"persona multilateralmente dotata", e benché "idealista
convinto", per artista "magistralmente capace nell'arte del
ritratto" (dalla prefazione di A. Mjasnikov alla riedizione sovietica del
suo capolavoro, Pietroburgo (Mosca - 1978). Nell' operazione complessiva della
"risurrezione" di Belyj - cioè, fuor di metafora, della moderna
rivisitazione della sua eredità culturale e letteraria - si colloca anche il
Simposio internazionale che si svolge oggi all' Istituto Universitario di
Bergamo, piccolo ma vivace centro italiano di studi slavistici diretto da Nina
Kaucisvili. Quattro anni fa, in occasione del centenario dalla nascita,
scrivevo su queste pagine che la fama di Belyj è stata forse eccessiva, nei due
primi decenni del secolo; ma certo eccessivamente ridimensionata in seguito.
Anche in Italia, dove pure, oltre a Pietroburgo (Einaudi), sono stati
pubblicati negli ultimi due decenni altri due suoi romanzi, Il colombo d' argento (Rizzoli), e Kotik Letaev (F.M. Ricci), nonchè il
poema "rivoluzionario" Cristo è
risorto (Ceschina) e le Lettere
che lo scrittore scambiò tra il 1903 e il 1908 con Aleksandr Blok, il suo
"ostile amico" (edizioni e/o), l' opera di Belyj - di questo
"Omero dei nevrastenici", come ebbe a definirlo il critico Kornelij
Zelinskij - è ancora oggi appannaggio quasi esclusivo della ristretta cerchia
degli specialisti.
Ma tra i meandri d'un itinerario
concettuale che dalla teosofia di Vladimir Solovjòv doveva portarlo, tramite
Kant e Nietzsche, all'antroposofia di Rudolf Steiner; tra i moduli lambiccati e
artificiosi d'una scrittura che giustamente Angelo Maria Ripellino paragonava
allo schioppo di Truffaldino della hoffmanniana Principessa Brambilla ("il cui lampo si ferma in aria per
scintillare e poi, dissipandosi in fumo, si tramuta in una visione
mirabile"): insomma, tra il molto di datato e il molto di concettoso che
appesantiscono la sua eredità letteraria, c' è pure da riscoprire uno scrittore
di razza, un degno prosecutore della linea Gogol' -Dostoevskij nella letteratura
russa. C'è insomma molta carne al fuoco, per questo convegno.
Qui mi limiterò a lumeggiare una
pagina meno nota (ma non priva di significato) dell'itinerario culturale di
Belyj: il suo "viaggio in Italia".
Andrej Belyj trentenne, in
compagnia di Asja Turgeneva (nipote del celebre scrittore), sua nuova fiamma
dopo le drammatiche esperienze sentimentali con Nina Petrovskaja e Ljubov'
Mendeleeva-Blok, fu in Italia per circa un mese, nel dicembre del 1910, prima
tappa del viaggio che in seguito li avrebbe condotti in Tunisia, in Egitto e in
Palestina al Santo Sepolcro. Provenendo da Vienna, si fermarono dapprima a
Venezia; poi attraversarono in treno la penisola, sostando qualche giorno a
Napoli; quindi si fermarono per circa tre settimane in Sicilia - a Palermo e a
Monreale - per imbarcarsi infine, via Trapani, per Tunisi. Non è naturalmente
il lato biografico-turistico che può interessare in un viaggio come questo,
bensì quello intellettuale. In altri termini, quel che interessa è di capire di
quale "Italia" Belyj andasse in cerca. Benché le sue fonti, la sua
cultura, fossero essenzialmente tedesche (egli stesso scrive che gli "era
baluginata, probabilmente, un'Italia in trascrizione tedesca"), lo
scrittore rifiutava con convinzione tanto l' Italia turistica del Baedeker -
che cita in tono sarcastico -, quanto quella "rinascimentale" di
Burckhardt. Niente musei; Firenze è una stazione d' un viaggio notturno in
treno, di Roma - a lui, conterraneo e erede di Gogol - gli restano impressi
solo la stazione Termini (ovviamente, quella ottocentesca di allora) e l'
acquedotto antico, che fiancheggia la linea per il Sud. Anche Napoli non lo
ispira, benchè "già si avverta con chiarezza l' alito d' Africa": si
bea invece della Palermo bizantino-arabo-norman a, dove il segreto del mosaico
lo spinge alla ricerca del santo Graal. Insomma, secondo la convinzione (poi
espressa nel saggio Al valico) che
"l' Occidente non c' è in Occidente", Belyj insegue una sua Italia
bizantina, da Venezia a Palermo, che lo introduca al mistero mediorientale.
Ma qui sorge una questione
filologica di rilievo: il viaggio di Belyj in Italia si svolse, come s'è detto,
nel 1910; ma il libro Note di viaggio
apparve nel 1922, e venne elaborato a Mosca tra il 1918 e il 1920: dunque, dopo
l'esperienza antroposofica di Dornach, e dopo la stessa rottura con Asja.
Secondo l'ottica del libro, il viaggio in Italia rappresenta la prima tappa del
viaggio alla ricerca del sapere occulto, che doveva portarlo a Dornach. Solo
che allora - nel 1910 - questo non lo sapeva. Per sincerarsene, basta
riprendere in mano le corrispondenze che Belyj inviò all' epoca al quotidiano
Rec di Pietroburgo (ne è conservata copia alla Biblioteca Nazionale di Roma),
che sono sì intrise pur esse di suggestioni bizantine, ma senza nessuna
inclinazione "steineriana", e soprattutto sono venate d'una lieta
freschezza - si trattava pur sempre d' una sorta di viaggio di nozze - che il
libro composto dieci anni più tardi avrebbe perduto completamente, per far
diventare volutamente il "viaggio in Italia" solo il prologo al Diario d'un bislacco, il diario cioè
della sua esperienza antroposofica.
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