2.4.14

Classici. Un reporter di nome Aristofane (Maria Grazia Gregori)

Ad Atene, alla prima delle Nuvole di Aristofane, Socrate c'era. Malgrado venisse sbertucciato e ritratto in un ridicolo pensatoio - una cesta appesa a mezz'aria fra cielo e terra dove si muovono le nuvole - , seguì lo spettacolo fino all'ultima battuta rimanendo sempre in piedi. Molti si sono interrogati sul senso di quel gesto. Perché lo fece? Voleva rendere esplicito il legame della commedia con gli spettatori, la continuità e la contiguità fra scena e platea? Voleva, al contrario, ribadire, in un modo così spiazzante, la sua totale estraneità nei confronti del filosofo irriso nella commedia? Era un segno di disprezzo verso il testo di Aristofane e gli Ateniesi che lo ripagarono di lì a non molto di eguale moneta condannandolo a bere la cicuta? Oppure, provocatoriamente, il gesto stava a significare che lui, il filosofo che andava alla ricerca del perché delle cose, assumeva su di sé anche quel risibile ciarlatano che faceva prevalere il Discorso Debole su quello Forte, che misurava il salto delle pulci e spingeva i figli a picchiare i padri?
Venezia, agosto 1975. Va in scena ai Cantieri navali della Giudecca la mitica Utopia tratta da cinque commedie di Aristofane (Cavalieri, Uccelli, Lisistrata, Le donne a Parlamento, Pluto con un prologo dalle Nuvole), ovvero come nascono , si alimentano, s'infrangono e si dissolvono i miraggi, i sogni, le chimere, le illusioni secondo Luca Ronconi. E dopo? Si ricomincia a sognare e a illudersi, pronti a entrare in un altro sogno, in un'altra passione, in un'altra agonia.
Siracusa, maggio 2002. Al Teatro Greco si presentano Le rane firmate da Luca Ronconi, che sono state precedute da una serie di «interventi» di censura del viceministro Miccichè e della ministra Prestigiacomo contro l'allestimento che contempla in scena alcune caricature-ritratti di Bossi, Fini e Berlusconi. Lo spettacolo, come i nostri lettori sanno, si fa senza le caricature suddette che il regista toglie non uscendo poi a ringraziare, ma qualcosa si è rotto nella contiguità fra scena e pubblico, le polemiche e le prese di distanza continuano a lungo.
Morale: il teatro ai tempi di Aristofane era una sorta di giornalismo anche politico, vero living newspaper di cui lui era uno straordinario, ultra tendenzioso, reporter. E oggi? Dove sembrano venir meno i valori della convivenza civile anche il gusto di irridere e di ridere di se stessi in pubblico perde d'importanza, anzi diventa quasi impossibile. Ha proprio ragione Dario Fo, un Nobel preso di mira dai soliti difensori della cultura patria per alcune anticipazioni sul suo nuovo spettacolo: a volte c'è da rimpiangere la Dc.
Dunque: in una società ultradegradata culturalmente è possibile la rappresentazione teatrale? E Aristofane può ancora dare una risposta? Il punto di vista è culturale, ma il culturale è sempre «politico» nel senso che il commediografo greco conosceva molto bene: riguarda cioè la vita della gente, lo spettro della guerra, le ingiustizie, la corruzione, la libertà. Fra i tre esempi, quello di duemilacinquecento anni fa, quello dell'altro ieri e quello di appena ieri è rintracciabile un filo rosso che li collega strettamente e che nasce dal ruolo del teatro nella società, ma anche da tutto il senso della parabola della commedia aristofanesca, che, per certi aspetti (i fatti, gli eventi storici), appare lontana da noi se la parola scritta non tiene conto della sua realizzazione scenica, di quell'equilibrio precario e meraviglioso che si istituisce fra l'invenzione del drammaturgo e gli eventi scenici. È il teatro, infatti, il trait d'union che realizza il compromesso fra le due forme antitetiche di comunicazione - l'oralità e la scrittura - in un copione che fissa non solo le parole del drammaturgo ma anche i materiali dell'interpretazione.
Da qui nasce la domanda di tutte le domande: come rappresentare, oggi, un testo classico, per esempio Aristofane? Si insegue il rigore filologico nel copione e nella rappresentazione (per quel che ne sappiamo) quasi a ricostruire quella che doveva essere la scelta e la volontà dell'autore? Oppure si rispetta il testo ma nelle scene si trasporta il tutto in un altro tempo, più vicino al nostro o comunque funzionale per capire la lettura, il senso che si deve dare alla messa in scena? O ancora: si lavora sul testo, con tagli e nuove traduzioni, e magari si sostituiscono i riferimenti indicati dall'autore con altri a noi più vicini? Certo il recupero ha un costo e non deve destare scandalo una certa infedeltà testuale che può permettere di arrivare alla riscoperta della vera polpa, la fantasia straordinaria, rintracciabile nelle commedie di questo autore se la si libera dalle allusioni troppo connotate e che solo i contemporanei potevano comprendere.
Spiega Luca Ronconi: «Quello che conta è l'energia originaria e non la realtà attuale. L'unica attualità sta nel nostro occhio di lettori, non nell'origine». Il cabaret, la rivista all'italiana, il teatro dei clowns, la danza più frenetica, la musica pop, tutto può rimandare ad Aristofane, rappresentato come un cabaret politico perfino al Berliner Ensemble, negli anni del profondo sonno della Ddr, da Benno Besson.
E c'è rispondenza fra i funambolismi di Aristofane e alcuni momenti dello spettacolo non solo italiano e non solo teatrale: quante volte abbiamo accompagnato, ridendo, le stralunate gesta con cui Charlot, erede inconsapevole dei personaggi aristofaneschi, ristabilisce la verità dell'innocenza di fronte alle insidie dei malintenzionati o al guasto delle circostanze? Lo fa, come nota Umberto Albini, grande grecista innamorato del teatro, anche Roberto Benigni che gioca con esuberanza sulla scomposizione e ricomposizione delle parole e dei nomi (il celebre «berlinguerre, Berlinguer» di Cioni Mario, per esempio), sull'incastrarsi vorticoso dei termini affini, sullo scambio di ruolo tra le varie parti del discorso, sulla trasformazione di nomi di persone in insulto, sulla decodificazione ingiuriosa. E Bergonzoni, abilissimo costruttore di nonsense che partono per la tangente per creare infinite sottospecie per gemmazione spontanea. E Daniele Luttazzi con le sue continue provocazioni corporali e politiche. Sappiamo però che le opere dalle quali tutto questo flusso satirico proviene appartengono a un altrove, a un'altra epoca, dunque. Prendiamo Utopia che, a quasi trent'anni dalla sua andata in scena, visualizza ancora in modo esemplare un percorso possibile. In Utopia Ronconi voleva fare dire ad Aristofane delle cose per oggi, fare nascere da lui delle situazioni significative. Non si preoccupava del fatto che Aristofane fosse reazionario, come di fatto era (sia pure in un'accezione ben diversa da quella che si dà oggi a questo termine) e lo assumeva non tanto come documento di un'epoca quanto come una lievitazione del desiderio che tenta di realizzarsi. Non c'era neppure un simbolo dell'Atene che fu (neppure nelle più recenti Rane, peraltro) ma una modernizzazione che non era attualizzazione del testo quanto delle immagini. Tutto era in movimento in questo spettacolo, tutti si muovevano a piedi, di corsa, su rotelle, su ruote, perfino l'aereo che rappresentava il dominio dell'aria degli uccelli. L'uomo in automobile era il protagonista: era il «popolo» dell'antica Atene che si era motorizzato e che al posto del Bengodi agricolo correva verso tutti i beni di consumo che ben conosciamo.
Da lì, da quell'Utopia del disincanto, si può ben dire che il modo di rappresentare Aristofane sia cambiato e non solo in Italia, anche se nel corso degli anni, c'è stato un ritorno di lavori tradizionali di buon livello sostenuti da traduzioni innovative e ficcanti. Senza quello spettacolo, però, senza i fiumi di parole spese contro o a favore di quello spettacolo, non avrebbero avuto diritto di cittadinanza sulla scena altre realtà urbane, altre emarginazioni come se l'Atene di Aristofane fosse in ogni luogo, in qualsiasi città dove abitasse il sogno, l'utopia appunto, di un mondo migliore da edificare e dove le commedie di Aristofane acquisivano, per così dire, una valenza generazionale. Per esempio nei notevoli Uccelli, anni '80, di Memè Perlini, fuga dei due protagonisti, Evelpide e Pistetero, da un'aula scolastica concentrazionaria, fra aspiranti parricidi e divinità vampiresche e la musica di un gruppo che allora andava per la maggiore, gli Area, un non-musical (a quello avevano già pensato, nei lontani anni Cinquanta, Garinei&Giovannini con Un trapezio per Lisistrata) dove il commento sonoro fra jazz e free jazz, fra bop e improvvisazione mescolati a ritmi orientali ed africani aveva la medesima incidenza della parola.
Poi ci sono state altre emarginazioni, il confronto con le culture di altri popoli come in All'inferno!, Aristofane adriatico-africano messo in scena per Ravenna Teatro da Marco Martinelli negli anni '90 con una compagnia formata da attori bianchi e attori senegalesi, pensato non solo come un assemblaggio di testi (Pluto, Le rane, I cavalieri), mescolati a miti e problemi del continente nero, ma proprio come un'Ade barbarica e postmoderna del tutto simile a un autogrill, in un mescolarsi di lingue e di culture. Un labirinto testuale frammentario e complesso, fra forti sonorità primitive, uno sproloquiare sulla nostalgia di un passato integro (e forse di Aristofane stesso) contro l'onnipotenza dell'etere e della realtà virtuale che, a risentirlo oggi, farebbe venire i brividi. E pensare che Hegel sosteneva che se non si è letto Aristofane non si può sapere quanto grande sia nell'uomo la capacità di allegria. Ma oggi?


L'Unità, 24 Ottobre 2003

Nessun commento:

statistiche