Antonello da Messina, L'Annunciata, Museo Nazionale di Palermo |
Che Antonello da Messina
fosse un pittore veneziano, lo si è creduto a lungo, anche in
Sicilia, fino all’Ottocento. Che il suo quadro-simbolo, la
luminosissima Annunciata del museo di Palermo, fosse scambiato
per un’opera del pittore tedesco Albrecht Durer, o considerato la
copia di un’altra Annunciata, conservata a Venezia, è
successo fino al 1904. Che ci siano nelle pieghe di chissà quali
collezioni quadri di Antonello ancora da scoprire lo rivela la Pietà
acquistata dal Prado di Madrid nel 1966: un Cristo morto, ancora
palpitante, sorretto da un angelo di fronte a un paesaggio in cui si
riconosce la torre campanaria dell’antico duomo di Messina.
Basta perciò contare le
opere riscoperte dopo il Novecento, almeno sei, per capire che la
grandezza di Antonello («una grandezza che spaura», ha scritto nel
1953 lo storico dell’arte Roberto Longhi) appartiene tutta a questo
secolo. Prima, lungo cinque secoli, Antonello era un pittore appena
rinomato, famoso come ritrattista e soprattutto abile artigiano: «Fu
Antonello che rubò al pittore fiammingo Jan van Eyck il segreto
della pittura a olio per rivelarlo agli artisti italiani del
Rinascimento», dice, pressappoco, il pittore aretino Giorgio Vasari
(l’autore delle Vite, il primo libro di storia dell’arte
italiana) a metà del Cinquecento. A partire da questa data
l’immagine di Antonello scolora col passare dei secoli: gli
elementi sicuri della sua biografia sono scarsi e lacunosi, le opere
datate pochissime, quelle perdute sono molte, almeno quaranta. Il
caso Antonello perciò si presenta come un intricato dedalo di
ipotesi incontrollabili, tra cui affiora all’improvviso un dato
certo, una prova, un documento cui appigliarsi. Insomma, un caso da
risolvere abbinando agli strumenti della più raffinata critica
d’arte le tecniche più corrive dell’indagine poliziesca.
Partiamo dalla data di
morte: Antonello spirò, a 49 anni, fra il 14 e il 25 febbraio del
1479. E questo è un dato. L’altro è la mostra che si è appena
inaugurata al museo di Messina per commemorare (anche se a distanza
di quasi tre anni) il cinquecentenario della morte del pittore. Una
mostra semplice, ordinata senza inutile sfarzo da Fiorella Sricchia
Santoro e Alessandro Marabottini. A percorrerla tutta d’un fiato si
impiegano cinque minuti: le opere di Antonello esposte sono, infatti,
appena dieci. Dal Ritratto d’uomo, proprietà del museo
Mandralisca di Cefalù, all’Annunciazione di Siracusa, al Polittico
di San Gregorio commissionato ad Antonello nel 1473 dalla badessa
Fabria Cirino per il monastero di Messina.
Ma bastano dieci quadri
per capire la grandezza di Antonello? «Ci sono dovuti bastare»,
spiega Alessandro Marabottini, «perché il trasporto dei dipinti su
tavola è troppo pericoloso. Si danneggiano facilmente e, una volta
rovinati, sono persi per sempre». E dieci quadri infatti sono
bastati: gli altri capolavori di Antonello sono, però, presenti
attraverso delle gigantesche riproduzioni che trasformano la qualità
scientifica della mostra in un piacevolissimo percorso didattico,
abbondante nelle didascalie da leggersi come un racconto d’avventure.
Antonello da Messina, Annunciazione, Museo di Plazzo Bellomo, Siracusa |
Come si guarda
Antonello
Cosa c’è di così
speciale nei quadri di Antonello da Messina? Quali sono i «trucchi»
per carpirne le qualità? Facciamo un esempio: due quadri che al di
là dei dati di cronaca ci raccontano la storia dell’incontro di
Antonello con Piero della Francesca, il più scientifico dei pittori
italiani del Quattrocento. Cominciamo a guardare l'Annunciazione
di Siracusa. Si svolge in una stanza: a sinistra l’angelo, a
destra la Madonna inginocchiata su un leggio, al centro una colonna e
sullo sfondo due finestre che illuminano la scena. Ma basta
avvicinarsi e osservare il dettaglio per scoprire, dietro quelle
finestre, un paesaggio disegnato come fosse un piccolo quadro dentro
un quadro più grande.
Da dove viene, però,
quella luce mattinale che si diffonde per tutta la stanza? Dalla
colonna centrale che distribuisce la luce dando un senso alla
cubatura prospettica di tutto l’ambiente. Risultato: un capolavoro.
Ma non in astratto: guardandolo basta tenere a mente l’Annunciazione
di Piero della Francesca ad Arezzo per scoprire quanto Antonello ne
fosse influenzato.
San Gerolamo nel suo studio, National Gallery, Londra |
Il fiammingo
Dove aveva imparato a
dipingere Antonello da Messina? Fino al 1925 non se ne sapeva
granché: poi venne fuori un documento e il mistero fu svelato.
Antonello, racconta Pietro Summonte in una lettera scritta nel 1524
al patrizio veneto Marco Antonio Micniel, andò a bottega a Napoli
dal maestro Colantonio. Napoli che, allora, non era né Bruges né
Avignone, dal punto di vista artistico poteva considerarsi una
provincia della cultura fiamminga, e la bottega di Colantonio il più
fedele avamposto delle Fiandre in Italia. Alfonso d’Aragona, che
aveva spostato la capitale del regno a Napoli, possedeva una raccolta
di pittura fiamminga. E Antonello rimase colpito da un dipinto del
fiammingo Jan van Eyck, venduto da un mercanto toscano proprio a re
Alfonso. Vasari, nelle Vite, favoleggia di un incontro fra il
fiammingo e il messinese: ma le cose non devono essere andate proprio
in quel modo. Così come è impossibile che Antonello potesse rubare
i segreti della pittura a olio: tutti i pittori di quel periodo
stavano lentamente scoprendo che l'olio era un collante meno
vischioso e più duttile dell’uovo usato per le tempere.
Ma fino a che punto
Antonello di Messina divenne un «fiammingo» di Napoli? C’è un
paragone classico nei manuali di storia dell’arte: il confronto fra
il San Gerolamo di Colantonio e il San Gerolamo nello
studio di Antonello della National Gallery di Londra. I due quadri
non sono esposti a Messina, ma due grandi fotocolor giustapposti
servono altrettanto bene allo scopo.
Si osservi: il San
Gerolamo di Colantonio è un fratone con tanto di aureola dipinto
in primo piano e contornato dai suoi libri, dalle penne, dalle
forbici, e il cappello cardinalizio ben in vista, oggetti che
descrivono l’ambiente in cui il santo lavora. Si passi ad Antonello
con un veloce colpo d’occhio: ci sono gli stessi oggetti, c’è lo
stesso santo ma ciò che colpisce è l’architettura in cui la scena
si svolge. In Antonello quegli oggetti servono non per descrivere ma
per creare lo spazio del quadro. Un quadro attraversato da raggi di
luce che percorrono tutte le linee prospettiche del quadro: «Al
punto», spiega Giulio Carlo Argan nel suo manuale di storia
dell'arte, «che la concentrazione della luce sul volto del santo è
ottenuta col riflesso dei piani inclinati delle pagine del libro
aperto» che San Gerolamo, rappresentato come uno studioso e non un
eremita, sta studiando.
Ritratto d'uomo, Museo Mandralisca, Cefalù |
A chi somiglia?
C’è un altro quadro a
Messina che vale la pena di leggere con la stessa attenzione: è il
Ritratto d’uomo del museo Mandralisca di Cefalù. Leonardo
Sciascia, nell’introduzione alla monografia pubblicata da Rizzoli
su Antonello, paradossalmente sostiene che si tratti del suo
ritratto. Ma potrebbe anche essere quello di un mafioso o dello
stesso Antonello.
I ritratti di Antonello,
infatti, sono di una natura tutta diversa dal resto della sua
pittura. Somigliano a quelli dei maestri fiamminghi come Van der
Weyden, Memling o Petrus Christus: ma ciò che in questi artisti
quasi trascende dall’umano per forza di virtuosismo, in Antonello,
per forza di una limpida intuizione dell’animo umano, ritorna alla
natura. Sono dei ritratti particolari e universali, come se il
pittore fosse riuscito a definire un’unità fra la natura e l’animo
umano attraverso la minuta descrizione dei dettagli: la barba un po’
cresciuta, le sopracciglia disordinate, le cicatrici sulle labbra.
Giochi di mani
Il giorno
dell’inaugurazione nelle sale del museo di Messina c’erano
duemila persone: nessuna ha rinunciato all’inevitabile sospiro di
ammirazione di fronte all'Annunciata, una Madonna
mediterranea, quasi pervasa da un continuo palpito di passione
insoddisfatta.
Sciascia, ragionando sul
manto azzurro dell’Annunciata, ricorda che è uguale al
manto delle ragazze siciliane scelte durante le processioni della
settimana santa per rappresentare la Madonna. «C’è in proposito»,
spiega Sciascia, «in ogni paese siciliano, una ricca tradizione: e
quasi sempre riferisce del Cristo che, padre della ragazza che fa la
Madonna o la Maddalena, vede dall'alto della croce l’apostolo
Giovanni stringersi un po’ troppo a confortare la dolente; e
dapprima ammonisce, poi si stacca dalla croce e scende bestemmiando
alle cosiddette vie di fatto».
Ma la fama
dell’Annunciata è soprattutto legata alle sue mani. La mano destra
in particolare. Basta osservare con attenzione: la mano, colpita
dalla luce che scende dall’alto, la riflette, attenuandola, sul
volto messo in ombra dal velo. Molta soddisfazione può
anche dare la mano del Salvator Mundi, un altro Antonello
della National Gallery di Londra, esposto a Messina solo nella sua
riproduzione fotografica. Osservando bene la mano destra si scopre
che Antonello prima l’aveva dipinta rivolta verso il petto; poi si
è pentito spingendola fuori elei quadro come per impedire che il
volto di Cristo sembrasse spiaccicato sulla tavola.
Antonello da Messina, Ritratto d'uomo, Galleria Borghese, Roma |
Vivere a Messina
Prima di visitare la
mostra può essere utile, per capire meglio i quadri esposti, leggere
un libro pubblicato in questi giorni dall’editore Sellerio di
Palermo: Antonello e la sua città, di Salvatore Tramontana,
un professore di storia medievale.
Tramontana si è preso la
briga di raccontarci, attraverso i più disparati documenti, come
viveva Antonello a Messina. «Male», dice Tramontana, «in un
ambiente culturale che non lo capiva e non lo apprezzava in pieno».
Antonello era figlio del «mazonus» Giovanni, maestro della pietra e
del marmo, nipote di Michele de Antonio, «patronus» di nave, marito
di Giovanna Cuminella e padre di quattro figli. Non che fosse povero:
aveva una casa, una schiava negra, viaggiava molto e gestiva una
fiorente bottega di artigiano pittore. La verità è che a Messina
pochi lo avevano nel giusto conto: forse solo Giuliano Maniuni che
per la chiesa di Santa Maria dell’Annunziata di Palazzolo Acreide,
il 23 agosto del 1474, ordinò ad Antonello la sua famosa
Annunciazione. Compenso: «quindici onze». Il «dominus»
Maniuni non solo non pretese il «fondo oro», come la badessa Fabria
Cirino, ma volle nel quadro lo sfondo di una architettura secondo le
nuove regole della pittura rinascimentale italiana.
Se Antonello ne fosse
gratificato non sappiamo: certo è, invece, che col guadagno non
aveva molto da scialare: a Messina infatti, allora, un vestito da
donna costava quanto una cavalla, più di due onze, e un professore
di grammatica prendeva almeno sei onze all'anno. Ma soprattutto
meraviglia la disparità di trattamento fra Antonello e due pittori
siciliani di cui ricordiamo poco più del nome: Guglielmo Pesaro per
pitturare di azzurro ultramarino e oro fino un crocefisso aveva preso
34 onze; ma aveva preso anche la somma favolosa di 110 onze per
allestire una icona per la chiesa di San Giacomo della Marina a
Palermo. Una cifra comunque inferiore alle 190 onze guadagnate dal
pittore Tommaso de Vigilia per un solo quadro. Ironia della storia:
per assicurare il trasporto del Ritratto d’uomo da Cefalù a
Messina, quasi un’ora di strada, c’è stata una valutazione di
cinque miliardi.
A Venezia, a
Venezia
Misconosciuto a Messina,
Antonello si rifaceva in altre città più generose con lui. Nel 1475
Antonello arriva così a Venezia, determinando una svolta nella
pittura veneziana e soprattutto nel suo grande patriarca, il pittore
Giovanni Bellini, anch’egli reduce da un incontro con Piero della
Francesca. A Venezia Antonello dipinge i suoi quadri più famosi e
più belli: la Crocefissione che ora si trova ad Anversa e
quella che si trova a Londra, il Condottiero del Louvre, il
Ritratto d’uomo della Galleria Borghese di Roma, la Pietà
di museo Correr a Venezia e la famosa Pala di San Cassiano.
Con questa pala (di cui non rimangono che tre frammenti ricomposti)
si inaugura lo schema della Sacra conversazione che Bellini
diffonderà poi nella pittura veneta.
Di che cosa si tratta?
Abbiamo visto (il Polittico di San Gregorio, per esempio) come
santi e Madonne fossero riuniti insieme ma divisi allo stesso tempo
dalle cornici dei trittici e dei polittici. Antonello riunisce invece
tutti i personaggi in uno spazio unitario: un’aula absidale di
chiesa quattrocentesca che accoglie la Madonna col bambino al centro,
dominanti sul trono, mentre in basso si raccolgono in meditazione e
conversazione alcuni santi simmetricamente disposti.
L’incontro con Bellini
a Venezia fu però anche uno scontro fra due diversi modi di
concepire la pittura: da una parte Antonello, astratto, razionale e
sintetico. Dall’altra Bellini, naturale, umano, analitico. Eppure
Antonello riesce a estrarre dai teoremi matematici e dalle forme
geometriche della sua pittura il respiro della natura, la malinconia
dell’uomo. È questo il contrasto che rende così affascinante
l’opera, simbolo e insegna della sua pittura: proprio
quell'Annunciata di Palermo, che da sola, nel suo equilibrio
di contrasti, spiega la soggezione orgogliosa con cui il figlio di
Antonello, il pittore Jacobello, ricordava il padre, dichiarandosi
figlio di «non humani pictoris», di un pittore non umano, dunque,
ma divino.
L'EUROPEO/16 NOVEMBRE
1981
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