"È stata la
bellezza del mondo a salvarmi"
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Sommersi come siamo dai
luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a distinguere una
carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della vecchiaia
sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l'avere il
sopravvento sull'immagine ben più mesta di una decadenza che provoca
dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile
neo. La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia
con le ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di
un bel palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di
passato importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita.
Da qualche parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una
battaglia, ma un massacro.
La guardo con la
tenerezza con cui si amano le cose fragili che si perdono. La guardo
pensando che sia una figura importante della nostra storia comune.
Legata al partito comunista, fu radiata nel 1969 e insieme, tra gli
altri, a Pintor, Parlato, Magri, Natoli e Castellina, contribuì a
fondare “Il manifesto”. Mi guarda un po' rassegnata e un po'
incuriosita. Qualche mese fa ha perso il compagno K. S. Karol. "Per
una donna come me, che ha avuto la fortuna di vivere anni
interessanti, l'amore è stato un'esperienza particolare. Non avevo
modelli. Non mi ero consegnata alle aspirazioni delle zie e della
mamma. Non volevo essere come loro. Con Karol siamo stati assieme a
lungo. Io a Roma e lui a Parigi. Poi ci siamo riuniti. Quando ha
perso la vista mi sono trasferita definitivamente a Parigi. Siamo
diventati come due vecchi coniugi con il loro alfabeto privato ",
dice.
Quando vi siete
conosciuti esattamente?
"Nel 1964. Venne a
una riunione del partito comunista italiano come giornalista del
Nouvel Observateur . Quell'anno morì Togliatti. Lasciò un
memorandum che Luigi Longo mi consegnò e che a mia volta diedi al
giornale Le Monde, suscitando la collera del partito comunista
francese".
Collera perché?
"Era un partito
chiuso, ortodosso, ligio ai rituali sovietici. Louis Aragon si
lamentò con me del fatto che dovuto dare a lui quello scritto. Lui
si sarebbe fatto carico di una bella discussione in seno al partito.
Per poi non concludere nulla. Era tipico".
Cosa?
"Vedere questi
personaggi autorevoli, certo, ma alla fine capaci di pensare solo ai
propri interessi".
Ma non era comunista?
"Era prima di tutto
insopportabile. Rivestito della fatua certezza di essere "Louis
Aragon"! Ne conservo un ricordo fastidioso. La casa stupenda in
rue Varenne. I ritratti di Matisse e Picasso che lo omaggiavano come
un principe rinascimentale. Che dire? Provavo sgomento. E fastidio".
Lei come è diventata
comunista?
"Scegliendo di
esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio
professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui,
giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi
osservò, incuriosito. E allarmato. Era il 1943. Poi mi suggerì una
lista di libri da leggere. Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin.
Divenni comunista all'insaputa dei miei, soprattutto di mio padre.
Quando lo scoprì si rivolse a me con durezza. Gli dissi che l'avrei
rifatto cento volte. Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò
con stupore. Replicò freddamente: fino a quando non sarai
indipendente dimentica il comunismo ".
E lei?
"Mi laureai in
fretta. Poi cominciai a lavorare da Hoepli. Nella casa editrice, non
lontano da San Babila, svolgevo lavoro redazionale, la sera
frequentavo il partito".
Tra gli anni Quaranta
e i Cinquanta era forte il richiamo allo stalinismo. Lei come lo
visse?
"Oggi parliamo di
stalinismo. Allora non c'era questo riferimento. Il partito aveva una
struttura verticale. E non è che si faceva quello che si voleva. Ma
ero abbastanza libera. Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho fatto
la gavetta nel partito. Fino a quando nel 1956 entrai nella
segreteria. Mi fu affidato il compito di rimettere in piedi la casa
della cultura".
Lei è stata tra gli
artefici di quella egemonia culturale oggi rimproverata ai comunisti.
"Quale egemonia?
Nelle università non ci facevano entrare".
Ma avevate le case
editrici, il cinema, il teatro.
"Avevamo soprattutto
dei rapporti personali".
Ma anche una linea da
osservare.
"Togliatti era
mentalmente molto più libero di quanto non si sia poi detto. A me il
realismo sovietico faceva orrore. Cosa posso dirle? Non credo di
essere stata mai stalinista. Non ho mai calpestato il prossimo. A
volte ci sono stati rapporti complicati. Ma fanno parte della vita".
Con chi si è
complicata la vita?
"Con Anna Maria
Ortese, per esempio. L'aiutai a realizzare un viaggio in Unione
Sovietica. Tornando descrisse un paese povero e malandato. Non ne fui
contenta. Pensai che non avesse capito che il prezzo di una
rivoluzione a volte è alto. Glielo dissi. Avvertii la sua delusione.
Come un senso di infelicità che le mie parole le avevano provocato.
Poi, improvvisamente, ci abbracciammo scoppiando a piangere".
Pensava di essere nel
giusto?
"Pensavo che l'Urss
fosse un paese giusto. Solo nel 1956 scoprii che non era quello che
avevo immaginato ".
Quell'anno alcuni
restituirono la tessera.
"E altri restarono.
Anche se in posizione critica. La mia libertà non fu mai seriamente
minacciata né oppressa. Il che non significa che non ci fossero
scontri o critiche pesanti. Scrissi nel 1965 un articolo per
Rinascita su Togliatti. Lo paragonavo al protagonista de Le mani
sporche di Sartre. Quando il pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a
pezzi. Come ti sei permessa di scrivere una cosa così? Tra i giovani
era davvero il più intollerante".
Citava Sartre. Era
molto vicino ai comunisti italiani.
"Per un periodo lo
fu. In realtà era un movimentista. Con Simone De Beauvoir venivano
tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano all'Hotel Nazionale. Lo
vedevo regolarmente. Una sera ci si incontrò a cena anche con
Togliatti".
Dove?
"In una trattoria
romana. Era il 1963. Togliatti era incuriosito dalla fama di Sartre e
quest'ultimo guardava al capo dei comunisti italiani come a una
risorsa politica. Certamente più interessante dei comunisti
francesi. Però non si impressionarono l'un l'altro. La sola che
parlava di tutto, ma senza molta emotività, era Simone. Quanto a
Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo quando gli nominai
Michel Foucault. Reagì con durezza".
Foucault aveva sparato
a zero contro l'esistenzialismo. Si poteva capire la reazione di
Sartre.
"Avevano due visioni
opposte. E Sartre avvertiva che tanto Foucault quanto lo
strutturalismo gli stavano tagliando, come si dice, l'erba sotto i
piedi".
Ha conosciuto Foucault
personalmente?
"Benissimo: un uomo
di una dolcezza rara. Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine. E
certi pomeriggi veniva a prendere il tè nella casa non distante che
abitavamo con Karol sul Quai Voltaire. Era un'intelligenza di
primordine e uno scrittore meraviglioso. Quando scoprì di avere
l'Aids, mi commosse la sua difesa nei riguardi del giovane compagno".
Un altro destino
tragico fu quello di Louis Althusser.
"Ero a Parigi quando
uccise la moglie. La conoscevo bene. E ci si vedeva spesso. Un'amica
comune mi chiamò. Disse che Helene, la moglie, era morta di infarto
e lui ricoverato. Naturalmente le cose erano andate in tutt'altro
modo".
Le cronache dicono che
la strangolò. Non si è mai capita la ragione vera di quel gesto.
"Helene venne
qualche giorno prima da me. Era disperata. Disse che aveva capito a
quale stadio era giunta la malattia di Louis".
Quale malattia?
"Althusser soffriva
di una depressione orribile e violenta. E penso che per lui fosse
diventata qualcosa di insostenibile. Non credo che volesse uccidere
Helene. Penso piuttosto all'incidente. Alla confusione mentale,
generata dai farmaci".
Era stato uno dei
grandi innovatori del marxismo.
"Alcuni suoi libri
furono fondamentali. Non le ultime cose che uscirono dopo la sua
morte. Non si può pubblicare tutto".
A proposito di
depressione vorrei chiederle di Lucio Magri che qualche anno fa, era
il 2011, scelse di morire. Lei ebbe un ruolo in questa vicenda. Come
la ricorda oggi?
"Lucio non era
affatto un depresso. Era spaventosamente infelice. Aveva di fronte a
sé un fallimento politico e pensava di aver sbagliato tutto. O
meglio: di aver ragione, ma anche di aver perso. Dopo aver litigato
tante volte con lui, lo accompagnai a morire in Svizzera. Non mi
pento di quel gesto. E credo anzi che sia stata una delle scelte più
difficili, ma anche profondamente umane".
Tra le figure
importanti nella sua vita c'è stata anche quella di Luigi Pintor.
"Lui, ma anche Aldo
Natoli e Lucio Magri. Tre uomini fondamentali per me. Non si
sopportavano tra di loro. Cucii un filo esile che provò a tenerli
insieme".
Parlava di fallimento
politico. Come ha vissuto il suo?
"Con la stessa
intensa drammaticità di Lucio. Quello che mi ha salvato è stata la
grande curiosità per il mondo e per la cultura. Quando Karol era
bloccato dalla malattia, mi capitava di prendere un treno la mattina
e fermarmi per visitare certi posti meravigliosi della provincia e
della campagna e tornare la sera. Godevo della bellezza dei luoghi
che diversamente dall'Italia non sono stati rovinati".
Se non avesse fatto la
funzionaria comunista e la giornalista cosa avrebbe voluto fare?
"Ho una certa
invidia per le mie amiche - come Margarethe von Trotta - che
hanno fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano.
Il mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso,
quando si fa una cosa non se ne fa un'altra ".
Il suo esser comunista
avrebbe potuto convivere con qualche forma di fede?
"Non ho più un'idea
di Dio dall'età di 15 anni. Ma le religioni sono una grande cosa. Il
cristianesimo è una grande cosa. Paolo o Agostino sono pensatori
assoluti. Ho amato Dietrich Bonhoeffer. Straordinario il suo
magistero. E il suo sacrificio".
Si accetta più
facilmente la disciplina di un maestro o quella di un padre?
"I maestri li
scegli, o ti scelgono. I padri no".
Il rapporto con suo
padre come è stato?
"Era un uomo
all'antica. Parlava greco e latino. Si laureò a Vienna. C'era molta
apprensione economica in famiglia. La crisi del 1929 colpì anche noi
che eravamo parte dell'impero austro-ungarico. Il nostro rapporto,
bello, lo rovinai con parole inutili. Con mia madre, più giovane di
vent'anni, eravamo in sintonia. Sembravamo quasi sorelle. Si scappava
in bicicletta per le stradine di Pola".
Dove lei è nata?
"Sì, siamo gente di
confine. Gente istriana, un po' strana".
Si riconosce un lato
romantico?
"Se c'è si ha paura
di tirarlo fuori. Non c'è donna che non senta forte la passione. Dai
17 anni in poi ho spesso avvertito la necessità dell'innamoramento.
E poi ho avuto la fortuna di sposare due mariti, passabilmente
spiritosi, che non si sono mai sognati di dirmi cosa fare. Ho
condiviso parecchie cose con loro. Poi i casi della vita a volte
remano contro".
Come vive il presente,
questo presente?
"Come vuole che lo
viva? Metà del mio corpo non risponde. E allora ne scopri le
miserie. Provo a non essere insopportabile con chi mi sta vicino e
penso che in ogni caso fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio,
da questo punto di vista, è positivo. Mi dispiacerebbe morire per i
libri che non avrò letto e i luoghi che non avrò visitato. Ma le
confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita".
Ha mai pensato di
tornare in Italia?
"No. Qui in Francia
non mi dispiace non essere più nessuna. In Italia la cosa mi
infastidirebbe".
È l'orgoglio che glielo
impedisce?
"È una componente.
Ma poi che Paese siamo? Boh".
E le sue radici: Pola?
L'Istria?
"Cosa vuole che
siano le radici. Non ci penso. La vera identità uno la sceglie, il
resto è caso. Non vado più a Pola da una quantità di anni che non
riesco neppure a contarli. Ricordo il mare istriano. Alcuni isolotti
con i narcisi e i conigli selvaggi. Mi manca quel mare: nuotare e
perdermi nel sole del Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna
nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla
memoria. Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto di quel mondo.
Di mio padre e di mia madre. E penso di essere nonostante tutto una
parte di loro come loro sono una parte di me".
La Repubblica, 1 febbraio
2015
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