2.1.12

Parenti poveri (di Mary Mc Carty)

Mary Mc Carthy
Ogniqualvolta noi bambini andavamo ad abitare per un po’ di tempo dalla nonna, ci mettevano a dormire nella stanza per cucire, un locale rettangolare, destinato esclusivamente a usi pratici, squallido e male arredato, più dispensa che camera da letto, più soffitta che dispensa; quella che, insomma, nella gerarchia delle stanze, teneva il posto del parente povero. Taramente gli altri membri della famiglia ci entravano, raramente la cameriera ci passava la scopa. Era una stanza senza pretese: la vecchia macchina per cucire, qualche sedia scartata, una lampada senza paralume, rotoli di carta da pacchi, cataste di scatole di cartone (che un giorno o l’altro, non si sa mai, potevano servire), cartine di spilli e resti di materiale vario, insieme con le coperte da stiro, adibite al nostro uso, e le nude assi del pavimento, contribuivano a dare l’impressione di una temporalità intensa  e spietata. Certe copertine bianche e leggere, del tipo che si usa negli ospedali e negli istituti di beneficenza e, alle finestre, le persiane nude, senza tendine, ci ricordavano la nostra condizione di orfani e il carattere di provvisorietà del nostro soggiorno; niente in quella stanza ci incoraggiava a considerare quella come la nostra casa.
I bambini del povero Roy, come ci definiva la scoraggiata commiserazione di tutti, non potevano permettersi illusioni, secondo il punto di vista della famiglia. Nostro padre ci aveva messo fuori dei limiti del normale, morendo all’improvviso d’influenza e portandosi via la nostra giovane madre: una defezione, questa, che veniva sottolineata con un misto di orrore e di cordoglio, quasi la mamma fosse stata una giovane segretaria con la quale il papà si era licenziosamente involato nell’irresponsabile Eden dell’aldilà. La nostra reputazione era offuscata dalla nostra sciagura.

da Mary Mc Carthy, Ricordi di una educazione cattolica, Il Saggiatore, 1972  

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