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4.9.19

Una barzelletta al giorno (Ascanio Celestini)

Einaudi qualche mese fa ha pubblicato un libro dell'attore Ascanio Celestini dal titolo Barzellette: allegro, ma non troppo. Anche perché l'attore non ha escluso le barzellette razziste o sessiste più scorrette e urticanti, convinto che sia un bene portare a galla lo schifo che abbiamo dentro, e alleggerirlo con una risata. Le barzellette sono organizzate in una sorta di diario e corredate da una sorta di contestualizzazione. Posto qui le tre che “Tuttolibri” ha pubblicato come incoraggiamento all'acquisto del volume. (S.L.L.)


13 luglio 2016
Casa Internazionale delle Donne. Alla fine di una serata comincio a raccontare barzellette. È uno spettacolo serio. Fa ridere, ma è serio.
Mi occupo di letteratura orale. Le barzellette rappresentano l’unico (o quasi) frammento di quella letteratura che non è ancora scritto o che è passato solo marginalmente attraverso la scrittura. Solo per scherzo. Per qualche raccolta di Bramieri o per un libricino attribuito a Totti. O poco più.
Non vorrei che gli spettatori, e soprattutto le spettatrici, pensassero che scelgo le barzellette censurando quelle contro le donne. Sono molte e sarebbe strano se non ne raccontassi nemmeno una.

Ci sta una nave da crociera che naufraga. Sull’isola deserta si trovano Nicole Kidman e un marinaio.
Dopo alcune ore di preoccupazione si accorgono che il posto è accogliente. Il mare è pieno di pesci, la frutta è in abbondanza, il clima è ottimo e trovano più d’una sorgente d’acqua potabile. Non gli manca nulla.
Passa qualche giorno e l’attrice di Hollywood si rivolge all’altro sopravvissuto: «Caro, io sono ancora una donna giovane e bella. Tu sei l’unico uomo su quest’isola. A me non dispiacerebbe fare l’amore, se vuoi».
L’uomo accetta volentieri la proposta e fanno l’amore per più di un mese. Poi il marinaio prende coraggio e le dice: «Nicole posso chiederti se mi concedi di chiamarti Mario?»
La diva pensa che sia una specie di gioco di ruolo e accetta.
Lui sorride e aggiunge: «Potresti fare la voce da uomo? Insomma, rivolgerti a me come fossimo due vecchi amici che chiacchierano al bar o, meglio ancora, nello spogliatoio della palestra?»
Nicole pensa che il gioco diventa più trasgressivo, ma non ha niente in contrario e gli dice con voce virile: «Allora, vecchio mio, come va la vita?»
E il marinaio: «Uno schianto, vecchio mio, è un mese che mi scopo Nicole Kidman!».

Dicembre 2017
Teatro Secci di Terni. Questo spazio è dedicato a Sergio che il 2 agosto del 1980 stava andando a Bolzano. Amava il teatro. Alla stazione di Bologna scoppia la bomba e la sua vita si interrompe lì insieme a quella di altre 84 persone di passaggio. Davanti ai trecento spettatori che riempiono la sala porto in scena il mio spettacolo Pueblo. Al termine del monologo ricordo l’appuntamento per l’incontro del giorno successivo in biblioteca. Un ragazzo mi fa: «Stai scrivendo un libro di barzellette? Domani te ne racconto una». E il giorno dopo mi aspetta in Piazza della Repubblica.
Da un paese lontano partono un prete e una suora. Hanno l’udienza dal papa. Ma è l’anno del Giubileo e il santo padre ha mille impegni. Finalmente si libera e li accoglie. È simpatico e intelligente, un intellettuale, ma anche un sant’uomo. Quando i due si liberano è tardi per prendere il treno, così cercano un albergo nel quale andare a dormire. Trovano solo una stanza libera. Una stanza col letto matrimoniale. Il prete fa: – Sorella, io resto al bar. Dorma lei in albergo. Ci vediamo domattina per tornare al nostro paese –. Ma la suora: – Padre! Siamo due persone adulte. E in più abbiamo la nostra fede! Possiamo dormire nello stesso letto senza avere pensieri impuri –. E si mettono a letto insieme.
Durante la notte la suora fa: – Padre, ho freddo. Potrebbe riscaldarmi?
Il prete si alza, va a prendere una coperta nell’armadio e gliela mette addosso.
La suora però ripete: –Padre, forse lei non mi ha capito bene. Ho freddo. Potrebbe scaldarmi?
E di nuovo il prete si alza e prende una seconda coperta per la suora. Ma lei insiste: – Padre, probabilmente non mi sono spiegata. Ho freddo! Ho bisogno di calore! Potrebbe comportarsi con me come un marito si comporta con la moglie?
E il prete: – Devo fare proprio come il marito si comporta con la moglie?
Certo, – dice la suora.
E il prete: – Allora non rompermi le palle! La coperta sta nell’armadio, prenditela da sola.

Fine agosto 2018
Dovrei mandare il libro di barzellette all’editore. Lo sento al telefono e mi concede altre due settimane. Bene. Affitto un monolocale a Ostia. Gli scrittori veri fanno così. Si isolano e si concentrano sull’opera. Dalla finestra si vede il mare. Sotto c’è il panificio di via delle Zattere, poi il bar a Piazza Scipione l’Africano che apre prestissimo. Di fronte all’ex colonia marina Vittorio Emanuele III c’è una rampa di legno che scende sulla spiaggia libera. Uno che beve mi indica il pontile dei pescatori tagliato a metà da una mareggiata. Qualcuno ci ha messo una Venere.
Ci mettiamo a parlare e gli dico che sto scrivendo un libro. Gli dico anche l’argomento e lui si offre per raccontarmi qualche storiella.
Un gruppo di bambini africani immigrati in Italia viene portato a fare una giornata di mare a Ostia. Sono tutti piccoli e magri, ma uno è più miserello degli altri e si ferma accanto a un grasso bagnino che infila la forchetta in una cofana piena di bucatini. Il tipo gli fa: – Bambino, è tanto che non mangi?
E il piccoletto mostra un ditino. Uno solo.
Un’ora? – chiede il bagnino. Ma la creatura scuote la testa mostrando ancora il suo dito magro.
Un giorno? – dice titubante il mangiatore di bucatini. Il negretto ha le lacrime agli occhi, ma il suo dito è rimasto teso.
Una settimana? – azzarda il tipo. E il piccolo migrante muove la testa in alto e in basso per dire che si tratta proprio di una settimana di digiuno.
Il bagnino sorride paterno e lo accarezza sussurrando: – Allora ti puoi fare il bagno!

Poi mi guarda interrogativo. Dice che le barzellette sono un ascensore per l’inconscio. Scende nello schifo che abbiamo dentro, ce lo riporta a galla e ce lo mostra alleggerendolo con la risata. Ma è pur sempre un modo per mostrarcelo. Sono d’accordo. E infatti è così che vorrei fosse il mio libro. Se non proprio un ascensore almeno una scaletta per farci scendere lì dove gli istinti si mescolano ai pensieri e alle emozioni. Un posto nel quale siamo cattivi, ma anche deboli. Dove ci accettiamo come siamo senza cercare di apparire migliori. E se cominciamo ad accettare le nostre storture forse cominceremo ad accettare anche quelle degli altri.

Tuttolibri La Stampa, 9 marzo 2019

2.9.19

Ricreazione. Dai corsivi di Fortebraccio, una storiella cara a Emilio Cecchi (Mario Melloni)


Mario Melloni, che fu con il nome di Fortebraccio corsivista de “l'Unità”, amatissimo dai suoi lettori soleva inserire nei suoi “pezzi” storie e aneddoti tratti dalle fonti più svariate e raccontati in bello stile. Questo, pur senza fare nomi, lo fa risalire a Suso Cecchi D'Amico, figlia dello scrittore Emilio Cecchi. (S.L.L.)

Emilio Cecchi
Una nostra amica, famosa autrice di sceneggiature cinematografiche e figlia di uno dei nostri maggiori scrittori contemporanei, oggi scomparso, ci ha raccontato una volta che a suo padre piaceva molto la storiella di un tale che improvvisamente decise di abbandonare il mondo e di andare a vivere in un eremo dove alcuni monaci conducevano una stentatissima esistenza, piena di volontarie privazioni e di rigorosissime penitenze. Ma dopo pochi mesi quel tale tornò e agli amici i quali gli rimproveravano di non avere previsto che non avrebbe potuto sopportare tanti sacrifici, il poveretto rispose: “Non sono le penitenze dei frati la cosa a cui non ho potuto adattarmi. Mi hanno nauseato le loro ricreazioni”.

Da Niente di niente, “l'Unità”, 30 marzo 1982

30.8.19

Insulti di paese e pessime figure (S.L.L.)

Gianni Rivera

Non so oggi; con il grande movimento delle persone e con l'apporto di ogni forma di comunicazione moderna e postmoderna, moltissimo è cambiato; ma a mia memoria, al tempo della mia infanzia, quando vivevo in un paese sostanzialmente chiuso in se stesso, figliu di buttana si usava molto raramente nella sua accezione benevola, per indicare persona abile e spregiudicata, ma quasi sempre era insulto pesante, che feriva, anche se non sempre era riferito ai comportamenti della genitrice, quanto a quelli – considerati pessimi – del destinatario dell'insulto. Diverso era, se ben ricordo, l'uso di figliu di ba(g)ascia, la cui gravità era più collegata al contesto e di cui era più frequente un'utilizzazione giocosa, specie con l'aggiunta di un aggettivo enfatizzante: gran figliu di ba(g)ascia, grandissimu figliu di bag(a)scia. La g si sente e non si sente come quella di (g)arrusu, altro insulto temibile, che il contesto poteva rendere accettabile se non addirittura affettuoso: non valeva più “omosessuale”, ma “furbo”, specie se usato in forma alterata (g)arrusazzu o con l'aggettivo gran.
Gli insulti ai “figli di” avevano come variante il cambio di destinatario: si diceva to ma' buttana - o anche buttana di to ma'; to ma' bag(a)scia - o anche bagascia di to ma'.
In paese qualche decennio fa aveva aperto una trattoria popolare, molto frequentata, con sull'insegna il nome Tomasc, un mio vicino di casa e quasi coetaneo, oltre tutto milanista. È morto non molto tempo fa e m'è dispiaciuto, trattandosi di persona buona, onesta e affabile. La prima volta che vi andai a mangiare, chissà perché, m'era venuto in mente che quel locale vagamente si ispirasse al “Meo Patacca” di Roma, altrimenti detto “Alla parolaccia”. Così, in maniera assolutamente innocente, dissi all'oste: “Birbante! Che significa quel Tomàsc, to mà ba(g)asc?”. Si fece serissimo e mi guardo così male, che più non avrebbe potuto. Disse; “No, significa Totò, Maria, Silvia e Claudia”. Erano i nomi suo, della moglie, delle figlie.
Per alcune volte, quando ci tornai, mi salutava appena ed evitava di venire al tavolo. Riuscii a ritrovarne la cordialità e il sorriso parlandogli di Rivera.

Il diario da non nascondere. Due giovani comuniste italiane nella Cina degli anni Cinquanta (Rossana Rossanda)

Edoarda Masi

Settembre 1957. Due giovani donne italiane, comuniste, Edoarda Masi e Renata Pisu arrivano a Pechino con una borsa di studio. L’università Beida è un antico parco, nel quale si affollano in modeste abitazioni, due o tre per stanza, studenti di tutto il mondo in cerca della Cina, fra delusioni già patite, speranza, inquietudine. E sperimentano una realtà doppia: docenti interessanti e regole sciocche, libertà di relazioni fra stranieri ma non con i cinesi, il «noi» e il «loro» — i funzionari che nell’amministrare il campus lo sorvegliano. E la divisione fra campus e città — Pechino, dove si va quando si vuole ma come vanno i turisti. Si studia in Cina fuori dalla Cina.
Le orecchie già ritte per questo scontro, per così dire, morbido, assisteranno pochi mesi dopo allo scontro duro, la «seconda campagna di rettifica» contro gli «elementi di destra». Assistono, vedono, non possono partecipare, non vengono informati. I dazibao coprono i muri di accuse: le «masse» sono un groviglio inesaurito di rancore, dove quasi nessuno ha nulla, e chi ha un libro o una stanza di più, o la parola, appare privilegiato.
Fra partito e masse, i maestri che i ragazzi amano di più sono nella tenaglia. Moltissimi dovranno lasciare Beida per andare in fabbrica o in campagna, dopo pesanti sedute di autocritica. Severe fin dall’inizio verso i funzionari — la Vecchia, il Fesso, la Cretina — le due ragazze vedono in silenzio e orrore quella che Mao chiamerà qualche anno dopo «la nuova razza di signori che pesa sulla schiena del popolo» demolire crudelmente «senza violenza» una leva intellettuale stremata e fragile — molti si uccidono.
Una delle due, Edoarda, rompe. Toma in Italia. Ha tenuto un diario e lo riscrive in terza persona. Raniero Panzieri lo propone a Einaudi. I ganbu, i «funzionari Pci», lo bocciano. E lei stessa sembra pensare che, nella «guerra fredda», non si debba parlare della Cina. Nell’ultima passeggiata in barca, l’amico più caro e sofferente le aveva detto: “Non parlate male di noi”? Il diario è un «libro da nascondere».
Tornerà in Cina nel 1974-76, scriverà, pubblicherà. Oggi vedo quei suoi lavori interiormente legati al diario: parlano di una diversità, d’uno scontro alto, forse liberatorio, sono libri severi, appartati dalla gazzarra, preziosi.
Poi c’è Tianammen. Nel 1991 Edoarda Masi toma ancora una volta, tutto è finito, vuole solo visitare gli alti luoghi medievali, turista fra insopportabili turisti. Ma lei sa. Sente, può sedere su un muretto accanto a una vecchia venditrice di frittelle, ascolta, gli occhi aperti su quel che la Cina è diventata. Non era andata per questo, ma le balza addosso la «sua» Cina, amata e abominata, e soltanto ora degradata. Come se uno sberleffo le fosse disegnato sui lineamenti. E quelli di allora, che le erano stati insopportabili, le appaiono rigidi ma puliti, sofferenti ma dignitosi, crudeli ma non sfigurati.
Tornata in Italia, ci scaglia il diario del ’57-’58, con dieci pagine piene di dolore e collera. Lo chiama Ritorno a Pechino (Feltrinelli, 1993). Non è il diario d’un ritorno, ma di quel primo viaggio. Ma è un ritorno interiore, a quello che era stato «il libro da nascondere». Così aveva chiamato del resto, traendolo da Lu Hsun, una rilessione chiave su di sé, uscita nel 1985.
Ci sono due modi di leggere Ritorno a Pechino. Uno per conoscere la Cina, della quale Edoarda è, per quel che ne so e posso capire, lo sguardo più calibrato, appassionato e sapiente. Edoarda non mente mai. Edoarda dubita quindi rende giustizia. Edoarda è l’opposto dell’attuale cultura politica. Chi legge stando dalla sua parte, attraverserà Ritorno a Pechino con sentimenti contrastati, angoscia, domande, illuminazioni.
Ma c’è un secondo modo di avvicinare quel diario: come una storia di giovani comunisti che nel 1957 fanno un apprendistato di sé. Esso ha del resto le scansioni dell’iniziazione, l’entrata nel mondo altro, che si restringe a una città che si restringe in un campus, anzi una stanza. Ma di là scopre non solo per gradi, ma per prove — gli altri separati, come la zona più antica e frequentata del parco, dove i docenti vivono in due stanze fra gli alberi, pile di libri e una lampada accesa.
Parlare è difficile. Quel che è detto va interpretato. Le due si inoltrano con la diffidenza di giovani gatte, libera zampa su un terreno sfuggente, ritratto di comuniste inconsueto nell’iconografia del post ’89 che ci voleva devoti e imbambolati. Tutti i giovani del diario sono, come loro, irrequieti, increduli, ironici.
La differenza sta nella valutazione, dal cinismo alla sospensione di Edoarda, nel diario Lia, la più attenta. Quella che se ne andrà per prima, è la prima che crede un giorno, davanti a una diga di terra, di intravedere un colossale tentativo di riscatto di poveri per mano di uomini che non sanno o non vogliono o non possono renderli liberi. Costoro non appaiono, non sono interrogabili, terminali afasici d’una macchina orwelliana. Lia se ne ritrae come s’era ritratta dall’ascoltare Zhou Enlai quando arriva preceduto da divieti. Come lui, le ragioni sono lontane, neppure cercate — sono «non ragioni», se è vero che uno degli amici cinesi non spezzati le dice: non è che per noi la libertà conti meno, gli uomini sono eguali. E tuttavia, che significa libertà per chi muore per la miseria imposta dalle «democrazie» ricche? Nel Libro da nascondere Edoarda ci aveva detto dell’essere nata occidentale e non povera come una colpa, la prima delle separazioni, l’impossibilità di essere in pace con sé. All’odio per chi predica rassegnazione («i preti») si somma in lei un’impazienza per i «marxisti»: la lotta di classe avviene già fra privilegiati per rapporto a quelle povertà. Sfruttamento è una cosa, povertà è un’altra. Siamo sfruttati e affamatori.
In poche righe scoscese, riprende il tema negato nel 1958 — la Cina è una alterità, l’alterità è la spossessione e lo sguardo implacabile che leva su di noi. Quella rivoluzione non operaia andava capita. Perdonata? Non perdonata. La contraddizione è insolubile.
Il percorso di Edoarda Masi è in senso proprio tragico. Nelle parole composte e nel periodo scarno, questo libro violento è una testimonianza dei comunisti in questo secolo, quelli a monte del marxismo per insofferenza delle sue hegeliane scomposizioni e ricomposizioni.

il manifesto, 21 maggio 1993

27.8.19

La festa della Madonna e la “riétina” (S.L.L.)



Al mio paese, Campobello di Licata, la festa della Patrona, la Madonna dell'Aiuto, si celebrava un tempo la prima domenica di settembre. La festa concludeva un momento importante della vita dei campi, per via dei numerosi mandorleti, di cui a fine agosto si raccoglieva il prodotto. 
Le offerte per la festa e per la Chiesa, in onore della Madonna, erano spesso in natura: frumento o, appunto, mandorle. Cavalli e muli bardati, talora trascinando un carretto variopinto giravano per i quartieri del paese accompagnati da gruppi di bandisti che suonavano allegre marcette come l'orecchiabile e richiestissima Lariana o canzonette di successo da Volare a Chella llà: numerosi contadini donavano  piccoli quantitativi del frutto della loro fatica; bisacce e carri si riempivano. Non ho mai saputo dove portassero il carico, se in sagrestia e in qualche locale annesso alla Matrice o in magazzini di raccolta o direttamente in quelli dei commercianti. 
Il lunedì era ancora giorno di festa; c'era la riétina, una sorta di sfilata di cavalli e carri bardati; ma non era allora il “clou” della festa, rappresentato piuttosto dalla processione della domenica, in cui la statua della Madonna, seguita dai devoti e dalla banda al gran completo, percorreva le vie del paese, mentre la sua veste veniva ricoperta da banconote da cinquecento o mille lire, appuntate dai rappresentanti del Comitato incaricati della fatica. Si diceva che ce ne fosse uno abilissimo nel fare scomparire nelle proprie tasche qualcuno dei biglietti di banca offerti dai fedeli: aveva il soprannome di spogliamadonni, ma nessuno si sognava di sollevarlo dall'incarico. 
Al termine della processione, sul grande palco davanti alla Matrice, l'arciprete comunivava i risultati della raccolta. Negli anni di più forte emigrazione, sul finire degli anni 50 e poi nei primi 60, ogni anno cresceva la somma complessiva, “sette milioni”, “dieci milioni”, “tredici milioni”, e considerevole era l'apporto degli emigrati. I più tra loro dovevano tornare al lavoro alcuni giorni prima della festa, ma lasciavano, secondo le loro possibilità, un'offerta in denaro, segno del loro legame con il paese natio, offerta più consistente in collegamento con la guarigione di un familiare, l'assunzione in un buon posto di lavoro, il matrimonio di una figlia o il diploma di un figlio o una qualunque altra “grazia ricevuta”. Anche l'elenco dei donatori veniva letto sul palco dall'arciprete, un vecchietto freddoloso soprannominato Patri Tancinu (“padre scaldino”). 
Seguiva la musica a parcu, generalmente il concerto della rinomata banda forestiera (più di una volta chiamarono quella di Acquaviva delle Fonti) che nel servizio musicale dei giorni di festa si alternava con quella municipale: un'opera lirica orchestrata per la banda e perciò dominata da fiati e percussioni, con il clarinetto a far da soprano, o un'antologia di arie d'opera. Il lunedì, oltre alla “riétina”, c'era un altro concerto bandistico e a notte uno spettacolo pirotecnico, lu castieddhu di fuocu, con lo stummi stummi finale. 
Negli ultimi anni della mia adolescenza al secondo concerto operistico, in genere assicurato dalla banda paesana, andava sostituendosi, nonostante la resistenza del vecchio arciprete, uno spettacolo di musica leggera in cui la cantante mostrava un po' di coscia. Un maestro elementare, uomo di chiesa democristianissimo, si cimentò con altri nella composizione e nel canto leggero: “A Campobello le ragazze son graziose / hanno il profumo delle fresche rose”. L'arciprete non diceva nulla, ma si capiva che non era contento e imperterrito continuava la sua guerra domenicale contro scollature e maniche corte femminili.
Oggi la festa è anticipata ad agosto e cuore della festa è diventata proprio la riétina: caretti e cavalli non provengono solo dal paese o dai centri più vicini, ma arrivano da tutta la Sicilia gruppi di “cavallari” con allestimenti di grande impegno organizzativo ed economico: non solo equini bardatissimi e carretti decoratissimi, ma anche gruppi musicali, danzatori e danzatrici in costume, su palchi mobili o a piedi. C'è in paese un'associazione di amici del cavallo e della riétina, o forse più d'una, e non mancano finanziamenti pubblici e private sponsorizzazioni. La sfilata dura ore e ore, con un chiasso enorme di voci, suoni, rimbombi, cigolìi di ruote, scampanellare di tamburelli e ciancianeddhi (i tipici sonagli di Sicilia). In alcuni posti strategici i gruppi si fermano, dando vita a un breve spettacolo. 
Ieri sera proprio sotto casa di mia madre su un camion, un tenorino dalla voce buona eseguiva Parla più piano, la canzone costruita sul tema musicale del Padrino. Subito dopo, accompagnato da fischietti e altri strumenti, circondato da saltellanti ragazze in costume, il coro eseguiva alla maniera siculo-americana C'è la luna 'mmienz'o mari / mamma mia m'a maritari. Era una vera e propria citazione dal film, senza alcuna presa di distanza: non c'era neanche un filo d'ironia. Non so dire donde il gruppo provenisse e non credo che quella citazione comportasse di necessità una qualche solidarietà di famiglia, ma una simpatia ideologica, per quanto vaga, sì. Ho forte il sospetto che tra i "cavallari" ci sia qua e là un'infiltrazione di fetentoni.

21.8.19

L’Abele muto della Genesi e quello loquace del Corano. I testi sacri raccontano il delitto (Piero Stefani)



L’uccisione di Abele da parte di Caino, raccontata all’inizio della Genesi, è leggibile in vari modi: vista sul piano etico è segno perenne che ogni omicidio rappresenta, nella sua radice, l’uccisione di un fratello; letta in chiave di antropologia culturale indica l’antica, inestinta contesa tra i diversi, conflittuali modi di spartirsi beni e risorse (Caino è un agricoltore, Abele un pastore); colta in chiave simbolica attesta la fragilità della condizione umana (Abele da hevel, soffio, vacuità).
Alcuni passi del Nuovo Testamento ci aprono una prospettiva ulteriore. Si legge nella Prima lettera di Giovanni (3,12) «Poiché questo è il messaggio che avete udito fin dal principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino che era dal Maligno e così uccise suo fratello». Dal canto suo il Vangelo di Giovanni afferma che il diavolo «è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44). A volte le citazioni parlano proprio quando vengono estrapolate dal loro contesto e fatte interagire tra loro. Menzogna e omicidio sono intrecciati in maniera molto stretta. La menzogna, quando si presenta come antitesi profonda alla verità, non è riconducibile al fingere, al recitare, al dire bugie: è un inganno che tocca le viscere della condizione umana. Contrapporre la menzogna all’amore vicendevole svela il legame che unisce la negazione del vero all’omicidio. La verità è una relazione, è la fedeltà buona che si costituisce allorché ci si apre l’uno all’altro. L’omicidio è un abisso di menzogna perché nega le verità più intimamente inscritte nella condizione umana: l’uguaglianza e la reciprocità. L’assassinio è l’antitesi primordiale della «regola d’oro», che fa della pari dignità tra sé e l’altro il fondamento primo di ogni comportamento veritiero.
Nel capitolo quarto della Genesi la parola «fratello» torna sette volte; essa ricorre per affermare che Caino è fratello di Abele. Mentre non si dichiara mai che la vittima è fratello del suo assassino, si asserisce sempre che è l’uccisore a essere fratello di colui di cui ha estinto la vita. In questo modo da un lato si dichiara che la fratellanza è luogo di responsabilità («domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello» Genesi 9,5), mentre dall’altro si afferma implicitamente che la vittima è tale anche perché chi lo sta uccidendo non lo riconosce come fratello.
Secondo la Genesi, Abele non parla mai; egli è l’archetipo di ogni vittima a cui è negata persino la parola. All’ucciso è lasciata come voce quella del sangue che grida dal suolo. La scena è dominata dal cruento silenzio di una vita estinta. La presa di coscienza da parte di Caino di quanto da lui compiuto è suscitata dalla voce del Signore che gli giunge da fuori: «Che hai fatto?» ( Genesi 4,10-13).
La storia dell’omicidio primordiale è presente anche nel Corano. Nel testo sacro dell’islam però Abele (ma entrambi i protagonisti restano anonimi) parla e lo fa più del fratello. Lo scopo delle sue parole è di proclamare che non risponderà alla violenza con la violenza. Nel Corano la vittima pronuncia parole che divengono impegno e promessa: «Se stenderai la mano contro di me per uccidermi io non stenderò la mano contro di te per ucciderti» (Corano 5,28). Tuttavia alle spalle di questo atteggiamento inerme c’è la visione di un Dio capace di punire, ed è tema tutt’altro che secondario prendere atto che la rinuncia alla violenza da parte della creatura umana riposa sulla convinzione che l’unico autorizzato a esercitarla sia Dio: «Io voglio che tu ti accolli il mio peccato, e che tu sia tra quelli del fuoco, ecco la ricompensa dei colpevoli» (Corano 5,29).
Le parole del fratello furono vane, l’altro non le accolse e la sua anima lo spinse a uccidere e «fu tra i perdenti». Tuttavia a renderlo consapevole della propria colpa non fu la parola divina che evidenzia quanto da lui fatto, fu il muto linguaggio etologico di un corvo divenuto prototipo dell’atto umano di seppellire i morti: «Dio inviò un corvo che grattò la terra per mostrargli come nascondere la salma di suo fratello. Egli disse: “Povero me, sono stato incapace di essere come questo corvo e di nascondere la salma di mio fratello”, e divenne preda del rimorso» (Corano 5,31).

“La Lettura – Corriere della Sera”, 30 dicembre 2018

20.8.19

Il signor K. e la natura (Bertolt Brecht)


Chiestogli del suo rapporto con la natura il signor K. disse: «Tavolta uscendo di casa mi piacerebbe vedere un po’ d’alberi. Soprattutto perché grazie al loro cambiamento d’aspetto col variare della giornata e delle stagioni, raggiungono un grado così particolare di realtà. E poi col passare del tempo siamo sempre più sconcertati di vedere nelle città soltanto oggetti d'uso, case e strade, che se non fossero abitate sarebbero vuote, se non fossero utilizzate sarebbero senza senso. Il nostro singolare ordinamento sociale ci fa contare persino gli uomini fra tali oggetti d’uso, e allora gli alberi hanno almeno per me che non sono un falegname, qualcosa di confortante nella loro indipendenza, che prescinde da me, e io spero anzi che essi, anche per i falegnami, abbiano in sé qualcosa che non possa venir utilizzato».

Bertolt Brecht, Storie da calendario, Einaudi 1972

11.8.19

Un grande onore (S.L.L.)


Mi feci avanti con una formula stravagante, ma tutto sommato credibile per chi conosce la mia timidezza: "Sei una delle pochissime donne a cui l'ho chiesta ...". Rispose: "Ti sono grata per l'onore davvero grande che mi fai..." Si capiva che tergiversava e propendeva per il no.
L'interrompo: "Puoi raggiungere un onore ancora più grande. Sono ancora meno le donne che me l'hanno data".
Sorrise per la trovata, ma si negò.

7.8.19

La tv dei primitivi (Achille Campanile)

Achille Campanile

I primi tentativi di trasmissione delle immagini a distanza risalgono effettivamente all’epoca delle caverne, o età della pietra che dir si voglia. Com’è noto, a quell’epoca le immagini si disegnavano sulle rocce, o pietre. Queste venivano trasmesse mediante lancio o rotolamento. Le stazioni trasmittenti stavano su alture, a pie’ delle quali collocavansi i telespettatori, che talvolta venivano accoppati dalle trasmissioni. Da allora ad oggi la situazione non è molto mutata. Molte trasmissioni di oggi sono più pesanti dei macigni di allora, e come allora i teleutenti sono da esse accoppati.

La televisione spiegata al popolo, Bompiani 2003

26.7.19

Quella sera con Marcuse. Rosellina Archinto racconta Leopoldo Pirelli (Simonetta Fiori)

Rosellina Archinto e Leopoldo Pirelli a Portofino nel 1972 (foto Briganti)

ASSISI
«Con l'estate arriva sempre un gran magone, il rimpianto di una stagione in cui sono stata molto felice. E ora bastano un suono o un colore, una musica inattesa o un'improvvisa visione, per evocare le atmosfere di quel tempo, il ricordo di un legame che è stato parte fondamentale della mia vita e ora mi manca enormemente».
A Portofino Rosellina Archinto non è più tornata. Non è più entrata nella grande casa condivisa per diversi decenni con Leopoldo Pirelli, compagno discreto e generoso. Fino all'ultimo insieme, davanti alla finestra affacciata sul mare. «Ancora la sera prima di morire progettava un viaggio a Marrakech», racconta Rosellina con un accento insolito, il consueto piglio energico stemperato dall'emozione, lo sguardo azzurro perso chissà dove. Temperamento vigoroso lei, classe 1935, editrice di raffinati carteggi, zibaldoni e di libri per bambini che hanno segnato un'epoca; figura dell'imprenditoria liberale lui, simbolo d'una borghesia illuminata di cui è rimasta rara traccia. Quasi quarant'anni insieme, mai raccontati per scelta di stile e di pudore.
Ma con l'estate arriva sempre quel gran magone. E seduta nel grande prato del suo castello medievale, vicino ad Assisi, l'Archinto apre il suo diario intimo, un libro degli affetti e delle vacanze scritto con un personaggio speciale, «difficile, chiuso, riservato, esigente con se stesso e con gli altri, ma anche dolcissimo e capace di tenerezza, un sentimento a cui forse non ero stata abituata da un padre molto severo». Fin dal principio il mare svolse un ruolo importante. «Sì, prima una casa arrampicata su una collina, dietro Paraggi. Poi la grande villa sul promontorio di Portofino. Poldo amava molto il mare, stava ore al timone della sua barca a vela, solitario e assorto nei pensieri, la sigaretta tra le labbra. Aveva inventato un modo per accenderla con il vento. Il mare rappresentava la libertà. La libertà dal suo ruolo pubblico, dal peso di una tradizione famigliare, dall'impegno che aveva deciso di assumersi con rigore ma forse non con piena felicità».
Il padre gli preferiva il fratello maggiore, Giovanni, che però scelse una strada diversa. E toccò a Leopoldo assumere la guida dell'azienda. «Si sottomise al volere di suo padre con grande serietà e un fortissimo sentimento etico, ma nel suo intimo voleva fare altro. Dedicava molto del suo tempo libero a organizzare gli spazi, definendoli con cura in ogni dettaglio, sia che si trattasse del guscio della barca a vela o di un rudere di campagna. Gli piaceva vedere nascere le cose, forse sarebbe stato un bravo architetto. Per tradizione famigliare intraprese un altro percorso, lo fece fino alla fine con spirito illuminato». Non sempre fu compreso. «Nel Sessantotto andavano di moda slogan come "Agnelli e Pirelli, ladri gemelli". Lui non s'arrabbiava ma era amareggiato. Lo mostrava alla sua maniera, sempre controllato, mai una parola sopra le righe. Fu lui in quegli anni a proporre la settimana lavorativa di cinque giorni e altre riforme molto avanzate. Il sindacato reagì male e Leopoldo si convinse d'aver sbagliato per eccesso di disponibilità. Di recente alla Pirelli è comparso uno striscione: "Leopoldo, per favore, torna tra noi"».
A quell'epoca vi conoscevate già? «Sì, ci eravamo incontrati a Milano e lui mi faceva un po' di corte. Io ero una signora sposata con cinque figli, non mi mancava il senso di responsabilità. Leopoldo, che aveva dieci anni di più, mi dimostrò molto amore. Decise di separarsi per vivere con me. Io lasciai passare un paio d'anni, poi decisi anche io di separarmi. Nel 1972 rendemmo pubblico il nostro legame, ma non abbiamo mai vissuto insieme. I figli sono rimasti la mia priorità e Leopoldo fu comprensivo. Così i week-end e l'estate divennero il tempo solo per noi. Il nostro era un legame fortissimo, nella reciproca autonomia».
La diversità cementò il rapporto? «Sì, fu importante. Per Leopoldo rappresentavo la scoperta di un altro mondo. Un'altra possibilità di vita, oltre la casa e l'azienda. La prima volta che lo vidi mi apparve come afflosciato in un sacchetto di vestiti, schiacciato dal peso di una storia più ampia. Credo di averlo travolto con la mia vitalità, il mio ottimismo: del bicchiere io vedevo sempre il mezzo pieno, lui il mezzo vuoto. E poi lo divertivano le serate con gli amici scrittori e musicisti, da Arbasino a Pollini ed Abbado». Un incontro che la colpì? «All' epoca del 68 una sera venne a cena da me, a Milano, Herbert Marcuse. Personaggi più distanti non potevano essere. Da una parte il guru del movimento studentesco, il denunciatore della società industriale repressiva; dall'altra un principe del capitalismo. Fu una cena piacevolissima. Pirelli e Marcuse parlarono fitto fitto tutta la sera. In realtà Leopoldo era un solitario però non asociale. Era curioso, attento a quel che si muoveva nel mondo, sensibile alle discussioni intellettuali». Che cosa le ha insegnato? «Il rigore, la serietà. La pazienza del giudizio ponderato. Io ero precipitosa e schematica, sparavo sentenze senza troppa cura. Lui m' invitavaa riflettere, a liberarmi da pregiudizi e partigianerie. In trentacinque anni non l' ho mai sentito alzare la voce. Anche nei momenti più difficili».
Un momento difficile fu quando morì il fratello Giovanni. «Un terribile incidente stradale, nel 1973: Giovanni perse la vita, Leopoldo il suo bellissimo volto, che rimase deturpato. Io ero già al suo fianco e ricordo l'angoscia di quel periodo. Non voleva mostrarsi neppure agli amici più intimi. E poi Giovanni era per lui un riferimento saldo, il più importante. Partigiano, intellettuale, mente brillantissima: era il fratello maggiore a supportarlo nelle scelte più delicate. Dopo un periodo di lontananza, negli ultimi tempi si erano molto riavvicinati. La famiglia non aveva gradito le scelte eterodosse di Giovanni. Per Poldo fu una tragedia». Anche in quel caso il mare rappresentò un rifugio. «La nostra prima casa fu quella di Paraggi, accessibile solo dopo una camminata di mezz'ora. Leopoldo era sereno perché finalmente riusciva a liberarsi della scorta. La sua era una vita sotto sorveglianza, le Brigate Rosse non lo perdevano di vista. Ma arrivato a Paraggi si sentiva fuori pericolo, forse non senza incoscienza». Quali erano i vostri rituali? «Il nuoto, prima di tutto. Leopoldo era un animale acquatico, nuotava per ore e ore, sia in mare che in piscina. Poi la passione per la vela. All'inizio capitava che a condurlo fossi io, sulla deriva, una barchetta poco oltre i quattro metri. Di famiglia ligure, ero praticamente cresciuta in barca a vela e mi divertivo a fare lo slalom tra le imbarcazioni nel golfo. "Sei pazza, cosa fai?", Poldo mi guardava atterrito. La deriva fu presto accantonata, e mi adattai felicemente anche io alle sue barche di lusso». E le letture? «Tante, ma diversissime. Lui si portava le carte del lavoro, prendeva appunti con una scrittura nitida e molto curata, senza fronzoli com'era lui. Se non leggeva saggi di politica ed economia, si buttava su Ken Follett. Una volta tentai di fargli leggere un critico letterario di gran fama, forse un tantinello pomposo. Dopo le prime pagine Poldo si accasciò, "questo non puoi chiedermelo"». In vacanza parlavate di lavoro? «No. Ci sostenevamo reciprocamente, ma non mi sono mai mischiata nelle sue cose. E lui aveva gran rispetto del mio lavoro di editore, anche se forse avrebbe voluto maggiore disponibilità da parte mia. Ricordo che incontrava in gran segreto Michelin, l'erede della famiglia francese dei pneumatici, ma nessuno doveva saperlo. Non fu facile la stagione del suo commiato dalla Pirelli. Avevamo già traslocato nella villa a Portofino e lo vidi soffrire moltissimo, ma sempre secondo il suo stile. Rinunciò a tutte le cariche con grande dignità, mai una parola polemica verso qualcuno. Così come si tenne dentro tutta l'amarezza per le scelte successive dell'azienda. Neppure con me si lasciò andare».
Al mare insieme, fino alla fine. «Avrebbe voluto avere una bella vecchiaia, con me al fianco. Io avevo più tempo da dedicargli, i figli ormai cresciuti. Quando mi capita di incrociare per la strada coppie di persone della nostra età, sono invasa dalla malinconia...

“la Repubblica”, 30 agosto 2011

19.7.19

Un esorcismo (S.L.L.)


Luciano De Crescenzo

Di questi tempi la morte mi lancia segnali.
Prima il mio primo alunno, un carissimo compaesano, Gaetano, medico anestesista, di una gentilezza e bontà fuori dall'ordinario, a cui avevo dato ripetizioni di latino nel 65, quando faceva il IV ginnasio ed io il II liceo.
Poi il mio compagno di banco di terza media, Lillo, che fece a lungo il tecnico all'ANIC di Gela e che è morto qualche giorno fa a Palermo, di cancro guarda caso.
Poi personalità note al pubblico con cui ho avuto un contatto personale, anche brevissimo ma per me significativo.
Giorgio Nebbia, uno dei padri dell'ambientalismo, che conobbi ad una manifestazione di partito quando era senatore per la Sinistra Indipendente negli anni Ottanta.
Andrea Camilleri che avevo conosciuto per la commemorazione di un sindacalista e uomo politico di cui entrambi eravamo amici. Era insieme a un mio antico compagno di FGCI, anche lui Gaetano, di cui proprio ieri, dopo diversi anni, ho appreso la morte.
Oggi Luciano De Crescenzo, l'ingegnere appassionato di filosofia che a suo modo la divulgava, ma anche un umorista di scuola napoletana di buon livello. Totò Micciché, che era suo ed è mio amico, a quel tempo Provveditore agli Studi di Perugia, in occasione di una sua conferenza nella nostra città, organizzò una cena in suo onore, cui invitò anche me. Eravamo una ventina e non ero tra quelli che gli erano più vicini, per cui non posso riferire granché della sua conversazione, che però dai volti delle persone che lo circondavano si arguiva interessante e gradevolissima. 
Si allontanò dalla tavola per il tempo di una telefonata. Poi ad alta voce riferì, non so quanto esattamente: "Alla Mondadori hanno offerto, ad alto prezzo, le memorie di Monica Lewinsky e mi hanno chiesto un parere. Ho suggerito di andar cauti. Non sempre chi è bravo all'orale, lo è altrettanto allo scritto". La battuta può piacere o no, e comprendo chi non la trova di buon gusto; ai commensali - forse perché erano in gran numero persone di scuola - non dispiacque e anche De Crescenzo dovette innamorarsene, visto che il giorno dopo trovò il modo di ripeterla in un'intervista al tg regionale. È pratica che ha trovato la sua apoteosi letteraria nel Decameron del Boccaccio il raccontare allegre storielle di sesso "in periculo mortis" o quando in qualche modo la morte ci gira intorno. Credo che sia anche un modo di esorcizzarla. Anche per questo, nel ricordare De Crescenzo che - anche lui! - ci ha lasciato, ho voluto raccontare questo aneddoto piccantino. (Stato di fb - 18 luglio 2019)

15.7.19

Cinquant'anni fa l'uomo sulla luna. Un mio ricordo e una rievocazione di Guido Romeo.

Cinquant'anni fa - non eravamo ancora fidanzati, ma eravamo lì lì per diventarlo - con Carmela discutevamo dell'allunaggio del 20 luglio. C'era anche Peppino Impastato, che a quel tempo preferiva ascoltare, piuttosto che parlare, ma non mancava di dire la sua. 
Maoisti benché eterodossi (ponevamo Stalin alle origini del moderno revisionismo) consideravamo l'imperialismo USA, secondo le parole di Guevara, "il nemico del genere umano" ed io ero scontento dell'impresa. Pensavo che ogni successo del nostro nemico, in qualsiasi campo, dovesse considerarsi deleterio per il movimento rivoluzionario. Carmela no, diceva che si trattava comunque di una conquista dell'umanità, che poteva dare a tutti nel tempo importanti conoscenze e significativi progressi. Peppino taceva e alla fine disse la sua: non negava i vantaggi propagandistici e temeva molto per quelli militari che potevano venire al gendarme del mondo, ma stava più con Carmela. Ottimista sulle possibilità di cambiare il mondo in tempi brevi, era convinto che nel giro di qualche decennio tutti i progressi scientifici e tecnologici avrebbero avuto effetti benefici sulla vita di tutti gli esseri umani, in ogni parte del mondo.
Anche nel ricordo di questa datatissima conversazione riprendo qui un articolo rievocativo di dieci anni fa, che cita alcuni effetti sulla vita quotidiana di quel viaggio esplorativo, positivi benché mediati dal "mercato". (S.L.L.)

Così la luna ha cambiato il mondo (Guido Romeo)
«Qui Tranquillity base, l’Aquila è atterrata». Per moltissimi sulla Terra, la notte del 20 luglio 1969, quello fu il segnale che potevano smettere di trattenere il fiato. I due astronauti statunitensi, Neil Armstrong e Buzz Aldrin, avevano completato con successo il primo allunaggio della storia nel modulo Eagle dell’Apollo 11. L’impresa dei due americani, affiancati dal pilota Michael Collins che rimase in orbita nel modulo di comando Columbia, ha avuto come carburante la Guerra Fredda e la frustrazione americana di fronte ai successi sovietici dello Sputnik prima e di Jurij Gagarin, ma anche al fallimento della baia dei Porci.
Propellenti che hanno giustificato una spesa di 24 miliardi di dollari e l’impegno di 60mila tra scienziati e ingegneri della Nasa, oltre alla scommessa logistica di coordinare il lavoro di 400mila persone alle dipendenze delle circa 20mila aziende che hanno partecipato al progetto. L’effetto più duraturo della missione Apollo 11 è però quello di spartiacque storico non solo nell’esplorazione spaziale, ma anche nel pensiero contemporaneo, perché ha cambiato per sempre la percezione della presenza umana nell’Universo.
Gagarin aveva già orbitato intorno alla Terra per poco più di un’ora e mezza, ma non l’aveva mai veramente lasciata, perché mai effettivamente libero dalla sua forza di gravità. Armstrong e Aldrin si erano spinti là dove fino a pochi anni prima sembrava impensabile arrivare. In un mondo alieno, da dove il pianeta a cui appartenevano appariva come una piccola biglia blu, un punto di colore sospeso in mezzo all’immensa tela buia dell’infinito. Unico e fragile. Un puntino talmente piccolo che - ricordano gli astronauti - bastava un pollice sull’oblò del modulo per nasconderlo. Il suo significato era però talmente importante che proprio tra il ’69 e il ’72 fiorì un nuovo ambientalismo e una nuova coscienza del pianeta che ha generato ipotesi come quelle di Gaia di James Lovelock.
Ma altrettanto rivoluzionaria sarà la ricaduta tecnologica di quell’impresa, con lo sviluppo di ritrovati che hanno cambiato la vita quotidiana dell’umanità. Il metano liquido che sta diventando una delle energia alternative più pregiate deve la sua fortuna alla missione Apollo 11. Fu per questa navicella, che la Beech Aircraft Corporation sviluppò i primi serbatoi in grado di stoccare metano liquido a oltre 200 gradi sotto zero. In seguito, la stessa azienda ha messo a punto un sistema in grado di convertire i motori a scoppio tradizionali di auto e camion per l’alimentazione a metano.
Tanto per fare un altro esempio, il trapano senza fili, che molti consumatori usano per il bricolage, non è altro che lo sviluppo dello strumento realizzato dalla Black&Decker per dare ad Armstrong e Aldrin la possibilità di staccare campioni di roccia dal suolo lunare. Gli stessi pacemaker hanno preso l’impulso dai dispositivi congegnati dalla Nasa per monitorare i parametri vitali degli astronauti. Anche camminare sulla Luna richiedeva una tecnologia particolare per gli stivali dell’equipaggio: tecnologia sviluppata dalla DuPont e poi sfruttata da un ingegnere del programma Apollo, Al Gross, per produrre in collaborazione con Avia (calzature sportive), una nuova generazione di suole elastiche oggi usate da migliaia di sportivi.
Successi figli di una missione che è stata in ogni suo aspetto una scommessa ai limiti del possibile. La stessa decisione di Kennedy di puntare alla Luna fu una missione ardita e a tratti controversa anche nella comunità scientifica, dove molti paventavano un’infezione da organismi o sostanze tossiche.
Per il pubblico di allora, il catalizzatore di attenzione più potente fu la manovra di allunaggio vissuta in diretta e che poteva in ogni momento trasformarsi in tragedia. Che l’uomo potesse "camminare" nello spazio era già un fatto acquisito, ma poggiarsi su un altro corpo celeste era una manovra mai tentata prima e per la quale Armstrong e Aldrin non avevano in realtà mai potuto eseguire una simulazione completa perché sulla Terra. Con l’ausilio di computer con una potenza di calcolo inferiore a quella dei telefonini che oggi portiamo in tasca, gli americani dovevano staccarsi dal modulo Columbia in un momento preciso per poter raggiungere la zona prevista sulla superficie e, soprattutto completare la manovra finché erano in vista della Terra, perché con la rotazione del satellite, le comunicazioni radio sarebbero divenute impossibili.
Tutto dopo essere stati catapultati fuori dall’orbita terrestre a 40mila chilometri l’ora sulla punta del Saturn 5 ed essere rimasti svegli per oltre 30 ore. Non solo, nel viaggio dalla Terra alla Luna, l’Apollo 11 era doveva ruotare su se stessa come una vite per disperdere il calore dei raggi solari che provocavano differenze di temperatura di 200 gradi tra le zone in ombra e quelle esposte al Sole e gli astronauti dovevano evitare di muoversi troppo rapidamente per non causare deviazione di rotta.
Collins nelle sue memorie non nasconde le incertezze sulla missione. Il capo della missione Apollo 8 che, con una tecnologia molto simile aveva orbitato intorno alla Luna nel 1968, aveva calcolato che la navicella, poiché composta da 5,6 milioni di parti mobili, anche se con un’efficienza impensabile del 99,9%, avrebbe sempre corso il rischio di scontrarsi con almeno 5.600 difetti. E naturalmente molte cose quella sera andarono storte.
Una volta staccatasi dall’Apollo, gli allarmi dell’Aquila cominciarono a suonare costringendo gli astronauti a bordo e i tecnici in America a scegliere se abbandonare la missione o proseguire. Fortunatamente proseguirono ed entrarono nella storia con una passeggiata di sessanta metri sul suolo lunare e le parole di Armstrong: «Un piccolo passo per l’uomo, un balzo enorme per l’umanità». Una frase storica che doveva essere seguita da un altro colpo di genio. Tornati nel modulo e preparandosi a decollare, i due, svegli da 36 ore, si accorsero che nella fase di discesa, qualcosa aveva sradicato dal pannello comandi uno degli interruttori senza il quale era impossibile azionare il booster necessario per spingerli fino alla navetta madre per il rientro. A salvare la missione fu il cappuccio di una penna che, per caso, si incastrava alla perfezione nel quadro e permise di azionare i motori. (Il Sole 24 ore, 15 luglio 2009)

Non ci sono più le vacanze di una volta (Marina Corradi)

Dommegge di Cadore 1963

Era di questi giorni, ai primi di luglio, che si partiva. Alla stazione, la sera, l’afa su Milano toglieva il fiato. Ma già dopo la notte in treno, all’alba, l’aria limpida del Cadore aveva tutto un altro profumo. Erba, resina, fieno, registrava attento il mio naso di bambina. Un altro mondo ci si spalancava davanti: due lunghi mesi nelle Dolomiti. Di quel privilegio della mia infanzia oggi mi meraviglia soprattutto una cosa: la natura del tempo, in quelle estati. Era un tempo del tutto differente: lento ma non noioso, e denso invece, e anzi colmo. Le giornate iniziavano, di buon mattino, come con un passo leggero da bambine; poi con l’alzarsi del sole maturavano nella pienezza di luglio. Culminavano nel solleone a picco sulle montagne, dove, mi immaginavo io dalla valle, si andavano sciogliendo gli ultimi nevai, in uno sgocciolio lieve. Poi, il primo pomeriggio era l’ora silenziosa delle persiane socchiuse, delle stanze in penombra, del riposo. Alle quattro, col sole ancora alto, il tempo si faceva un fiume largo, maestoso, che si avviava regalmente alla sua foce. E al tramonto, nel rosa luminescente delle vette, ancora il sole non si arrendeva, e si voltava indietro, mentre affondava nella linea dell’orizzonte. Come se il giorno proprio non volesse morire.

Avvenire, 15 luglio 2014

1.7.19

Don Bosco e don Orione. Il miracolo del dito tagliato


Il 17 dicembre 1887, assieme agli alunni della 5a ginnasio, Luigi Orione si confessò per l’ultima volta da don Bosco infermo. Anzi, rientrato come gli altri nella sala di studio, Orione uscì di nuovo e tornò da don Bosco. Fu quello il suo ultimo colloquio con il Santo.
Morto don Bosco, tra i giovani che vegliano accanto alla sua salma esposta ai fedeli, il 1° febbraio 1888, c'è anche Orione, che prende dalla folla gli oggetti da posare sul corpo del Santo. Ad un tratto, Orione (come scrive egli stesso) ha una curiosa idea: pensa di affettare del pane, ridurlo in pillole da posare sul corpo di don Bosco, per poi distribuirle. Entrato nella sala di refezione prende un grosso e affilato coltello e si accinge ad affettare un filone di pane. Dalla fretta, vibrando il primo colpo, si spacca verticalmente l’indice della mano destra (egli è mancino). Angosciato, pensa subito che senza quel dito non potrà diventare sacerdote, come già aspirava. Avvolge allora nel fazzoletto il dito tagliato stringendolo bene e lo sostiene con l’altra mano. Corre presso la salma di don Bosco e con viva fede accosta il dito sanguinante alla mano di don Bosco. A quel contatto la ferita si rimargina all’istante. .
Narrando il fatto prodigioso, don Orione era solito mostrare la cicatrice rimastagli nell’indice destro, assicurando il perfetto funzionamento del dito.

Don Bosco che ride.I “fioretti” di san Giovanni Bosco, Edizioni San Paolo, 1998

29.6.19

Questioni di stile. Un raccontino in versi (S.L.L.)



Davanti a Lettere più di un'ora fa
due ragazze,
l'una e l'altra gradevoli alla vista.
La più vistosa, con i boccoli,
pantaloni e casacca in seta gialla,
all'altra fa: "Che cazzo devo fare?
Dovrò trovare
un fidanzato per stasera!".

Non ci son più gli eufemismi
dei tempi andati, anzi
l'intercalare volgarotto
è quasi obbligatorio
nella nuova grammatica
dell'uso quotidiano.
Ma non è morto l'eufemismo,
risorge nel fidanzato,
che se la memoria non m'inganna
è una sineddoche, il tutto per la parte,
nei manuali retorici
della mia gioventù.
E quale parte sia non è difficile
indovinare, è ancora in vigore
regola che prescrive di evitare
ripetizioni del cazzo.

28.6.19

Perugia 1416. La città della guerra (Salvatore Lo Leggio)

È un pezzo a cui tengo molto, pubblicato ieri, 27 giugno 2019, su “micropolis”, il supplemento umbro de “il manifesto”, nella rubrica La battaglia delle idee. Mi pare che quello che sta accadendo nella nostra città, fino a qualche lustro fa esempio di tolleranza, accoglienza, pacifismo, sia degno di attenzione anche fuori dai confini dell'Umbria e perciò lo ripropongo qui agli amici d'ogni dove. (S.L.L.)

Perugia, Rocca Paolina, giugno 2016. Un'immagine dalla  video-stallazione "Perugia folgora"

Si è conclusa il 16 giugno la quarta edizione di “Perugia 1416”, la kermesse che pretende di rievocare con scenografie, gare tra rioni, tornei, cortei in costume e altro ancora, i giorni, non si sa quanto felici, di Braccio Fortebraccio da Montone, un capitano di ventura che fu per qualche tempo Signore della città.
Molto s'è detto nel tempo, da parte degli oppositori e dei critici, sui costi spropositati, sulla stravaganza di una tradizione senza radici nella memoria collettiva, sulle incongruenze storiche - al limite dello sfondone - presenti nella rievocazione, sulla scarsa attrattiva turistica di una manifestazione senza passato e autenticità; ma niente ha fermato gli ideatori, organizzatori, consulenti e aggregati, guidati dall'assessore Severini, la vispa Teresa, espressione della tradizionale borghesia cittadina con un interessante passato enologico. Romizi peraltro, annunciandone il rilancio nel vivo della campagna elettorale, ha voluto fare della parata medievaleggiante il fiore all'occhiello della sua prima sindacatura, l'emblema di una peruginità che rompe con un passato di ibrido cosmopolitismo. Dopo il voto ne ha commentato i fasti più rilassato e a chi gli diceva del sollievo per la sua rielezione dei tanti “rionali” preoccupati di perdere il giocattolo, rispondeva magnanimo: “Ma no! Nessuno oserà sopprimere, né ora né in futuro, una manifestazione che riscuote un così forte gradimento”. E con occhi luminosi di soddisfazione aggiungeva: “Ho visto i ragazzini, i bambini impegnarsi con entusiasmo. Sono loro la garanzia di futuro per Perugia 1416”.
Intanto, mentre da settimane campeggiano sui muri cartelloni e poster preannuncianti il medioevo imminente, all'altra ricorrenza perugina, quella più antica e collaudata del 20 giugno, sono rimasti gli angolini: qualche locandina qua e là con un programma di iniziative dell'associazionismo e una forte impressione di residualità. Tutto il contrario della festa grande che Raffaele Rossi, padre nobile della sinistra novecentesca, aveva promosso e caldeggiato! “Lello”, nei suoi “discorsi sulla città”, sembrava compiacersi della felice coincidenza di data tra la violenza assassina compiuta nel 1859 dalle truppe mercenarie svizzere su Perugia, ricondotta al potere assoluto del Papa Re, e la sua liberazione dai nazifascisti nel 1944 da parte degli alleati affiancati dai partigiani resistenti. Questo fatto – a suo dire - riscattava la ricorrenza dall'ipoteca massonica e ne inverava la lettura data da Aldo Capitini e Walter Binni, i quali individuavano nel coraggio della libertà, nell'avversione per la crudeltà, nella diffidenza verso un potere imposto il manifestarsi di un alto sentimento civile. Perugia, conosciuta già nell'Ottocento in Europa e negli USA come “la città del 20 giugno”, martire dell'oppressione assolutistica, poteva ora dare a quella data un valore più inclusivo che in passato, tale da garantire la riconciliazione tra laici e cattolici e la partecipazione del cosiddetto “contado”, poteva volersi e vedersi come la città dell'orgoglio democratico, della tolleranza, dell'accoglienza e della pace.
Era difficile che il mito del 20 giugno e la connessa narrazione identitaria resistessero intatti all'ondata revisionistica della cosiddetta seconda repubblica. Un ruolo di punta di lancia lo ha svolto nei primi anni Duemila la rivista “Diomede”, pensatoio della sognata riscossa aristocratico-borghese: per snobbare la ricorrenza del 20 giugno non ci si attaccava più ai residui di anticlericalismo, ovviamente “vieto”, ma se ne denunciava il carattere troppo “di sinistra”, e per ciò stesso antiquato. Non era però un indigeno, né tanto meno proveniva però dalla cerchia antica il vero e proprio profeta della nuova “peruginità” militaresca, era piuttosto un immigrato di successo: si tratta di Alessandro Campi, ammanicato politologo della destra nazionale e locale.
A suo tempo costui aveva definito “eroe” e “campione di italianità” uno dei mercenari italiani sequestrati e uccisi in Iraq, il povero Quattrocchi, per via della sua ultima frase autoconsolatoria su come muoiono gli italiani; più di recente Campi aveva organizzato, nel nome di Machiavelli, una mostra sulla tradizione perugina dei capitani di ventura, di cui Braccio Fortebraccio rappresenta un esempio tra i più fortunati. Da consumato ideologo ben sapeva il Campi, già prima della conversione italianista della Lega, che le piccole patrie, le spesso meschine identità locali non indeboliscono, ma corroborano il nazionalismo statolatrico.
È grazie a questa cultura consapevolmente contrapposta alla nonviolenza e al pacifismo capitiniani (ovviamente “buonisti”) e non sempre adeguatamente contrastata, che la città nei giorni deputati trabocca di militarismo, ben al di là della criticatissima e finta sassaiola: questa è solo un elemento marginale, popolaresco, dell'apologia della violenza che “Perugia 1416” organicamente incarna. Quella che qui viene esaltata è la figura del professionista della violenza, dell'uomo d'armi, del guerriero e più ancora quella del comandante in capo, del duce. Il pensiero non può non correre a quel “capitano” alla guida della destra, uno che ama indossare le divise e a tutto si dice pronto pur di fermare l'invasore, magari sul bagnasciuga.
Ci sono aspetti inquietanti in questa mascherata grottesca, primo fra tutti il simbolo raffigurato nelle bandiere blu che ornano il centro cittadino: le catene. In piazza Matteotti un barbuto dall'aria bonaria, tipo vecchietto del West, invita i bambini ad entrare nello spazio del cimento per abbattere, lancia in resta, un cattivo, un saraceno non a a caso. Alla Rocca Paolina pannelli esaltano le glorie della cavalleria, crociate incluse, e vengono offerte in visione spade, picche, lance, maglie metalliche e pesanti armature (il tutto rifatto ovviamente, ma generalmente luccicante). Il clou si raggiunge in una saletta, dove un'istallazione video dal titolo Perugia folgora promette una full immersion nella città medievale, mentre una didascalia, la canonica excusatio non petita, avverte che non bisogna pretendere veridicità e precisione da quella che è solo un'elaborazione artistica, di fantasia. Segue una escalation di edifici, immagini artistiche di guerra, intrecciati giochi di luce, in cui spesso la croce si fa spada e che culmina nell'apparizione di un'ombra che sovrasta la città, a proteggerla e ad ammonirla, un guerriero con l'arma sguainata che ricorda il simbolo leghista. Non c'ero, ma mi hanno raccontato che a fine festa il finto Braccio volendo comunicare la morale della favola come invasato urlava: “La tradizione è cultura! La tradizione è identità, la tradizione è bellezza”. Che poi anche la tradizione sia rielaborazione fantastica per costoro è secondario.
Pagliacciate? Dicevano così anche nel secolo scorso i benpensanti, quando i balilla armeggiavano coi moschetti finti, i podestà intravedevano nell'armeggiare un futuro luminoso e Mussolini si metteva in posa con l'armatura di Bartolomeo Colleoni. Si sa come andò a finire. Non pochi di quei balilla, dopo, da partigiani, in cerca di pace e libertà rivolsero le armi contro i fascisti. Ma non era meglio risparmiarsela una così grande carneficina?

“micropolis – il manifesto”, 27 giugno 2019

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