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2.9.19

Victor Hugo. Dai corsivi di Fortebraccio (Mario Melloni


Mario Melloni, che fu con il nome di Fortebraccio corsivista de “l'Unità”, amatissimo dai suoi lettori, soleva inserire nei suoi “pezzi” storie e aneddoti tratti dalle fonti più svariate e raccontati in bello stile. Questo ricorda uno scrittore ottocentesco al tempo molto popolare e caro alle sinistre democratiche e socialiste. (S.L.L.)


Nel 1871, dopo il lungo esilio, Victor Hugo fu eletto deputato. Un giorno egli teneva davanti a un’assemblea attentissima uno dei suoi infiammati discorsi. Ed ecco che dal folto degli uditori si alzò una vocetta stridula a interromperlo. Il grande uomo si fermò, e, secondo l’uso, disse: «Monsieur, nommez-vous», nominatevi, dite chi siete. Ma nessuno raccolse l’invito. 
Allora Victor Hugo riprese a parlare, e ancora, per una seconda e una terza volta, la solita vocetta fessa e anonima si fece sentire, finché l’oratore, perduta la pazienza, ripetè rabbiosamente l’invito a nominarsi. 
Ed ecco che finalmente dal folto dell’uditorio si alzò un nome: «Bourbichon». «Bourbichon? — disse il celeberrimo romanziere stupito. — Bourbichon? Je n’espérait pas tant», io non speravo tanto.

l'Unità, 30 aprile 1982

20.8.19

Dai Paesi dell’Anarchia. Impressioni sui moti del 1894 nel carrarese (Ceccardo Ceccardi Roccatagliata)


Ceccardo Ceccardi Roccatagliata nacque a Genova nel 1871 e vi morì poco più di 100 anni fa, il 3 agosto del 1919. Visse tra il capoluogo ligure, la Lunigiana e Carrara. È conosciuto soprattutto come poeta di stile carducciano e classicheggiante, ma percorso da tensioni decadenti e simboliste. Come collaboratore de “Lo svegliarino”, il giornale della sinistra democratica di Carrara e delle Alpi Apuane, scrisse della ribellione anarchica che vi si svolse nel 1894, e ad essa dedicò un opuscolo stampato a sue spese presso la Tipografia Operaia, in cui denunciò le dure condizioni di vita dei cavatori e la feroce repressione governativa, un pamphlet che subì più di un sequestro e diede al coraggioso autore qualche notorietà tra la Liguria e le province di Massa Carrara e Lucca. Lo “posto” qui, riprendendolo da “Liber liber” per il suo interesse non solo letterario. (S.L.L.)

Carrara - "Cararia". Monumemento alle lotte sindacali dei lavoratori del  marmo


Victor Hugo, nel poema I castighi, dove egli lumeggia così foscamente Napoleone il piccolo, parla con tristezza dei lamenti sordi che avevano i fiotti dell’Atlantico quando trasportavano sul dorso verso la nuova Caledonia, i pontoni sdruciti pieni zeppi di coloro che avevano tentato di difendere la repubblica dagli artigli del triste Cesare la notte del due dicembre. Piangeva il vecchio Oceano solitario con l’anima del poeta Guernesey.
E a me pareva così doloroso, quando qualche settimana fa, alla vecchia stazione di Massa fischiavano i treni in partenza tra i primi sbuffi di vapore e il lento cigolio delle assi, i treni che portavano lontano dai borghi natii, lontano dalle madri, dalle spose, dai figli, dalle sorelle, ai reclusori del Piemonte, ai reclusori del Mezzogiorno, coloro cui la legge militare e un tribunale di giberne avevan detto insorti anarchici, e ferrei avevan colpito senza pietà, senza riguardi, senza coscienza: senza saper neppure bene come colpissero, chi colpissero, perché colpissero.
Erano scene strazianti. Per lo più quei tristi condannati, quasi tutti giovanetti, erano fatti partire coi treni del mattino. L’alba si levava lentamente sulle Apuane, i monti delle cave dove forse i loro padri, i loro fratelli erano morti schiacciati da un masso rotolante per un ravaneto, o sotto lo scoppio orrendo di una mina, per guadagnarsi un tozzo di pane. La luce scendeva lentamente e gettava dei lividori sulle facce pallide, smarrite dei condannati, sul filo delle baionette. Qualche madre, qualche sposa li attendevano talvolta. E si slanciavano piangendo tendendo loro le braccia disperatamente, prese da un invincibile desiderio di ribaciare coloro che avevano allattato, o baciato dolcemente un giorno di nozze, figli, mariti, coloro che, come vecchi assassini, andavano a marcire le carni in una segreta.
E perché sperare di rivederli?
Ragazzi di diciotto o venti anni assuefatti all’aria ossigenata dei loro monti, al sole delle loro cave, devono scontare dieci, dodici, diciassette anni di galera, due, tre, quattro anni di segregazione cellulare continua. E potranno resistere! Perché sperare di rivederli?
Si slanciavano, si ripiegavano respingendo bruscamente, qualche volta anche cadendo a terra, dalle mani brutali della forza, lo stridulo riso e il ghigno dei gallonati presi di meraviglia che quelle madri, quelle spose di supposti anarchici, avessero, intendete bene, un cuore che palpitasse, che piangesse, e potesse anche gridare: misericordia!
Partivano i figli, i mariti pei lontani reclusori, ed esse ritornavano alle loro case, cui gli usci, nei tristi giorni delle perquisizioni e degli arresti erano stati sfondati dalla furia dei carabinieri e degli alpini, col calcio del fucile, o a colpi di baionetta, alle loro case dove altre donne ed altri figli piangevano con lo spettro del futuro negli occhi, lo spavento della futura fame nell’anima.
Verrà l’estate, ritorneranno l’autunno e l’inverno, ma essi, mai mai, per molti anni ed anni, forse mai più. E beate quelle madri cui è rimasto un figlio; quelle figlie cui è rimasto uno sposo a consolarle! Non son rare le madri che hanno tutti i figli e i mariti in prigione, non son rare le giovinette spose da due o tre mesi che hanno il giovinetto consorte condannato a vent’anni di galera.
Che vita! Quante esistenze infrante, quanta vitalità perduta!
Nel paese di Ortonovo - una bianca borgata su un colle di olivi fittissimi, tre ore dalle cave di marmo dove giornalmente molti uomini con molto sperpero di forze si recano a lavorare - si possono senza fallo contare, tra un migliaio di abitanti ed una quarantina di condannati, nove o dieci spose - giovinette di sedici o diciassette anni - vedove per dieci, dodici, diciassette anni dei loro giovanissimi sposi.
Leggete i resoconti dei processi che si stampano a Carrara da un editore assai conservatore e che fa l’apologia di quei tristi tribunali - leggete dico - quei resoconti di cui - nonostante ciò pubblicheremo qualche numero interamente per eternare maggiormente la sapienza militare - e vedrete: sono cose che fanno orrore. Dario Papa ha ragione: neppur l’Austria osò tanto.
E ciò tanto ributta, se si pensa che i burattinai di questa dolente epopea sono coloro che consacrano marmi al Pellico e ai Confalonieri e affermano: Mazzini è con noi!
Si condanna perché uno fu arrestato, perché un brigadiere dei Reali, un poliziotto afferma che sa - egli - e da sue private informazioni esser l’accusato un anarchico; si leggono deposizioni di testimoni non firmate, come le denuncie che si gettavano nella bocca del Leone a Venezia ai tempi dell’Inquisizione di Stato; si vieta agli imputati di scrivere a casa per trovare testimoni e provare l’alibi, e se la famiglia se ne occupa appena due ne son concessi, mentre prima in prigione a forza di pugni - lo dicono le madri, le spose che sono state a trovare i condannati prima del loro invio ai reclusori - si è fatto loro confessare come ai tempi dell’inquisizione domenicana il misfatto che non avevano commesso ed accusare compagni e fratelli. Oh, non per nulla s’inquarta un motto in uno stemma!
Se entrasse in una sala di quel tribunale militare uno che fosse assente dall’Europa da trenta o quarant’anni, ignorerebbe completamente dalle resultanze del processo di che vengono accusati, perché si con- dannano sempre, così mostruosamente. Se egli potesse entrare soltanto quando vien letta la sentenza potrebbe chiedersi: quante case hanno bruciato quei malfattori? Quanti soldati uccisi? Deve essere durata molto la lotta!
M’è caro di non essere stato ad ascoltare i testimoni! Dev’essere stato un vero orrore... Ebbene, sarebbe forse meglio, avrebbe ancora la coscienza in pace, non avrebbe ancor conosciuto quante infamie commette la società in cui vivrebbe, in cui viviamo.
E potrebbe ancora pensare: essi avevano molti fucili, delle mitragliatrici, della polvere... della dinamite... Orrore!
Essi invece non hanno ucciso nessuno, eccetto un carabiniere che li ha assaliti, non hanno bruciato neppure una capanna, devastato neppure un campo, rubato neppure un chicco di grano... Essi non avevano che qualche centinaia di fucili in due o tre mila, poca polvere, neppure una bomba di dinamite.
È vero volevano fare una rivoluzione, erano stanchi di essere sfruttati, di morire per pochi centesimi al giorno - ignoti - sotto i massi e le mine delle cave, ma i più non sapevano neppure cosa fosse una rivoluzione, quanto coraggio e abnegazione ci vogliono a farla; e la prima sera della rivolta in quattrocento o cinquecento, si sono sbandati come tante pecorelle dinanzi a due carabinieri, uno già morto, uno quasi moribondo.
Vergogna! Oh, non così, non così, ritorneranno la pace e l’amore in quelle regioni!
Il popolo non dimentica; questo è certo; come è legge fatale che dalla rivoluzione succeda la reazione, e da questa, più grande e potente una seconda rivoluzione.
Vico pel primo intuì questa terribile armonia nelle sorti dell’umanità. State pur certi quel che succedette nessuno cui importi anche una quisquiglia dimenticherà.
Si starà zitti per adesso, ma col tempo...
Oh! quelle donne, quei fanciulli di condannati, quelle vedove, quelli orfani si diranno in cuore eternamente: Oh! deve essere assai ingiusta la società per cui lavoriamo, se colpisce tanti uomini che non hanno mai rubato come un Tanlongo, né mai assassinato come... ricordate il dramma della Regia? se colpisce tanti uomini perché hanno pensato a un sogno d’amore e di pace, a un giorno in cui non ci sarebbero più sfruttati e sfruttatori, e ognuno potrà dire con sicurezza: stasera cenerò, avrò un poco di fuoco, due lenzuoli... deve aver molta paura di quel giorno la società presente... e in fondo poi, perché? non è giusto? deve essere ben giusto e grande se i ricchi ricorrono all’ingiustizia... e all’inganno per colpire chi appena lo pensa, timidamente lo sogna!
E forse più di tutto a quelle donne e quei fanciulli rimarrà in cuore l’inganno con cui furono imprigionati tanti fratelli, tanti padri. Io me lo rammento bene.
Non tutti i condannati vennero arrestati dai soldati. Molti negli ultimi di gennaio erano i fuggitivi sulle montagne, tra le pinete e gli olmi onde son fitte l’ultime propaggini montane dell’Alpe Apuana; costoro vivevano fuggitivi dalle loro borgate, dalle famiglie, ai venti ai freddi, alle piogge invernali. Ebbene, lo credereste? Il comando militare fece predicare dai prevosti, dai parroci delle borgate in parola, fece predicare dai preti, alle famiglie, alle spose, alle fidanzate degli accusati che se essi si fossero arresi nelle mani degli ufficiali, presto tutto sarebbe finito; tolto lo stato d’assedio pochi mesi di carcere agli insorti, e poi... soprattutto la grazia sovrana.
I preti non si accontentarono di ciò, andarono di casa in casa, e dissero alle madri, alle spose: fate che i vostri figli si arrendano nelle mani della forza, tutto andrà bene. E molti accusati spontaneamente discesero dalle loro montagne impervie e sono andati da un brigadiere dei carabinieri, da un sottufficiale degli alpini ed hanno detto: io sono il tal dei tali, io sono innocente e poi spero in quello che avete fatto dire alla mia famiglia... io sono innocente, lo ripeto, ma mi arrendo... E il tribunale rispose un giorno: voi vi siete arreso, bene, invece di quindici... dodici anni di galera! Pochi, ahimè, sono stati gl’increduli, pochi sono rimasti e pochi rimangono nelle loro montagne, poveri fuggitivi, con la taglia feudale sul capo, la fame nel petto, il desiderio di rivedere la famiglia nell’animo... e alle famiglie di costoro, irritati che il dolo non valesse, ufficiali e sbirri hanno invaso le case nelle notti di febbraio non curando grida di pargoli spaventati ed hanno arrestato vecchi padri di famiglia cui l’amore del sangue, che anche la legge rispetta, vietava di dire ove fossero i figli fuggenti: ufficiali si sono introdotti nelle stanze di donne che appena da cinque o sei giorni si erano sgravate di un bambino e con voce assordante han minacciato le puerpere se non avessero rivelato dove era, che mai pensasse di fare, qual audacia ancora avesse il fuggitivo consorte. E basta, è vero? Basta perché dir qualcosa di più sarebbe troppo.
Io sono stato sui monti delle cave sotto il folgorio del sole, che acceca riverberando sul bianco dei marmi. Tra il turbinio della polvere mossa dal vento, tra gli schianti delle mine, tanti uomini salgono dalle verdi campagne lunigiane a guadagnare di che sostentare la famiglia, la famiglia che vive quietamente in un bianco casolare laggiù perduto tra macchie di pioppi e filari di viti.
Io sono stato lassù a Fantiscritti e a Ravaccione, le supreme cave e dinanzi all’immensità della natura che si estrinseca in una strana forma di paesaggio roccioso, dalle tinte ciclopiche dinanzi alla mostruosità convulsa dei monti e all’orridezza dei ravaneti, all’audacia dei picchi svettanti nell’azzurro, o perdendosi in una bianca nube velata che acceca col suo riverbero, ho detto: gli uomini qui lavorano, ben si guadagnano il pane. Tanto il piede affonda nel ravaneto, tanto sulla testa è sospeso il masso che continuamente rotola, tanto la vita è fragile se attaccata ad una fune appesa ad un semplice piuolo che colui che qui lavora dev’essere un titano, od almeno lasciatemelo dire, o borghesia, un eroe, sì, un vecchio eroe!
Egli non aspetta né monumenti, né ricordo glorioso in pagine di storia; egli lavora per la famiglia che cresce modestamente nella natia campagna e se un giorno, come spesso succede, la canapa della lizza si romperà, e il masso che scende dalle cave ai piazzali della marmifera, devii, se la polvere bianca di un giorno di vento lo acciechi e un blocco di marmo slanciato da una mina lo percuota, egli non avrà, se ferito, che primo letto una scala, quattro pezzi di pino incrociati, e se morto, appena un sacco d’onde si asportò già polveri piriche, e mine, fragile cassa alle sfracellate membra. Nei cimiteri di Torano e di Miseglia, son comuni queste sepolture d’ignoti e la famiglia ancora li attende al piano verde col sogno nell’anima di rivederli alla sera come sul dilucolo dell’ultima mattina, quando dopo aver salutato la madre, o baciato la sposa, essi inconsci del loro fato s’avviarono colà donde mai più ritorneranno.
Chi non ha veduto una cava, chi non ha osato salirci non può davvero farsene un’idea. E pensare che nelle vallate di Canal Piccinino e di Canal Bianco, esse si contano a centinaia, una dietro l’altra, una sovra l’altra. Sul diffuso grigio delle montagne arrugginite esse paiono enormi ferite candide. Cigli di rupi irte, scannellature di righe s’aggrottano sopra ed hanno un color di sangue sbiadito colà dove la ruggine manca nel bianco. E cosí via via, su su finché non si giunga al vertice supremo inaccessibile, irta punta che la nebbia circonda quasi fosse il Nume del luogo. Sul piano della cava s’ammucchiano i massi. Là lavorano gli squadratori, gli scalpellini, ma su per la parete bianca, sulle creste delle rocce, legati ad una fune, il piede su una tavola tremante, i cavatori scavano le mine. Talora su un gruppo altissimo, è necessario fare in breve una profonda mina; allora si uniscono molti pali di ferro, si costruisce una specie d’impalcatura a vari piani con rozzi pini od elci, là sopra sale qualche dozzina d’uomini ed allora comincia, lento e monotono il lavoro; ogni colpo della ferrea stanga nel calcare è accompagnato da un triste e cadenzato: Oh! Oh! Io ho ascoltato lungamente quel richiamo onde tutti i lavoranti, in un sol momento, abbiano intente le forze ad un medesimo atto. È un accordo lamentoso, che gli echi rimandano, e affievolendolo rendono qualche volta più dolente e fantastico, onde l’anima commossa pensa: dunque anche qui vivono gli uomini? Dunque anche qui soffrono? In terra non è luogo dunque ove non sia dolore?
Sotto il piazzale poi delle cave scende rovinosamente il cumulo dei detriti di marmo che l’escavazione continuamente aumenta. Scende colmando insenature, sfaldandosi per i versanti dei balzi, ammucchiandosi in fondo alla vallata o contro un ciglio enorme di rocce a mezzo monte. È il ravaneto. In esso sono tracciate le vie delle lizze. Per queste vie dal piano delle cave si fanno scendere i massi già squadrati ai carri enormi tirati da bovi che li attendono a certi luoghi meno ardui, o alle stazioni della ferrovia marmifera. Enormi piuoli sono piantati per queste vie che hanno sempre il cinquanta o il sessanta per cento di discesa, e servono a fissarvi le canape della lizza - specie di slitta di legno, su cui i marmi van posti - onde scenda lentamente, senza mine. Diversi uomini, detti lizzatori, posti sul davanti, dispongono sotto il blocco in discesa, dei travicelli di legno detti parati, che ne attutiscono lo sfregamento contro la scabra via e ne agevolano il viaggio.

Quanto pericolo! La canape spesse volte si spezza e il masso enorme - se gli uomini non son pronti a fuggire - rotola loro addosso e si vendica, uccidendoli: uccidendo essi piccoletti, che con piccoletti mezzi tentarono di portarlo via dal suo santo luogo natale.

Tutti i giornali d’Italia - rara avis un’eccezione - hanno detto che quei cavatori sono uomini rozzi, ubriaconi.
E la calunnia fu ribadita anche da una parte di coloro che dovevano assumerne la difesa. Di ciò fu un eroe, si sa bene, anche qualche pseudo socialista, il quale credendo che fosse anche poco, intinse un suo certo pennelletto in vasi di negro fumo, e di rosso scarlatto ne pennelleggiò, con l’entusiasmo di un salvatore della patria, tutta quanta la Lunigiana.
Ahimè non tutti i pittori impressionisti trionfano: gli sgorbi rimangono e per la consumazione dei secoli.

È vero quegli uomini, quei cavatori che oggi s’arrampicano per le rocce, dove appena salgono le capre e domani ne precipitano sfracellati, al sabato sera, alla domenica hanno l’uso del bere.
Qualche volta s’ubriacano anche. Ma è la loro vita faticosa che lo richiede. Hanno bisogno di rinvigorirsi, hanno bisogno di obliare fosse pure per due o tre ore, la giovinezza sciupata al sole, la carne arsa, gli occhi sanguinanti pei bianchi riverberi; hanno bisogno di dimenticare che domani forse come il fratello, come lo zio un masso li sfracellerà e che avranno venduto la loro vita o almeno saranno ridotti impotenti per pochi centesimi; due, due e cinquanta, tre lire quotidiane che bastavano appena a sostener la famiglia.

È inutile: finché il diritto alla vita sarà calpestato si penserà a un miglioramento, si spererà d’ottenere qualche cosa che sia più conveniente ai nostri bisogni: finché ci saranno dei reietti e dei paria si guarderà sperando nell’avvenire e forse un giorno maledicendo si insorgerà.
Ecco perché l’Utopia, sia Marx o Bakunin l’apostolo, si diffonde maggiormente nelle classi che soffrono, nelle officine, tra le motrici urlanti, nelle miniere dove il “grisou” scoppia, nelle cave donde si asportano i marmi che faranno belle le case della città.
E forse, nessuna signora quando si tuffa, palpitando, in una vasca di masso lunense, ha mai pensato che forse quel masso un giorno rotolando dal picco dove la forza plutonica dell’Eocene lo aveva sollevato, si bagnò del sangue dell’audace che lo staccò, terribile battesimo, come forse non penserà mai che le perle onde si adornerà qualche momento dopo uscendo, son costate la vita ad un povero negro affamato nelle profondità misteriose dell’azzurro Oceano.
Mario Lazzoni scrisse: “I grassi borghesi non vi ricordano, o forti pugnaci di Spartaco, non vi ricordano o precursori ignoti, non vi ricordano voi vittime di Caltavuturo e Conselice... È da Platone a Campanella, da Buonarroti a Saint-Simon che una rivoluzione lenta si prepara maturata dagli ingegni di tutti i popoli, resa indispensabile sempre più dall’evoluzione dell’umano pensiero. [...] Hai gli uomini ignoranti perché miseri, hai i pregiudizi di casta perché c’è chi li benedice in nome di Dio, hai dei vili perché putrida, perché corrotta, perché mefitica è la società borghese”.

Già dissi di essere stato a Fantiscritti, uno dei supremi picchi delle cave. Sotto larga la vallata e profonda, fra pareti scabre di rocce ferruginose, aggrovigliantesi le une sulle altre, con un disperato desiderio di toccare il cielo. Qua e là filoni di ravaneti bianchissimi, qua e là immani rovine di cave, dove gli uomini che battono le mine paiono file di soldatini di carta tanto la distanza è enorme. Sotto l’orrido: ma sovra, il cielo azzurro infinito e lontano, il mare scintillante come i sogni umanitari di Shelley che vi morì.

La solitudine della natura ispira: si diventa più buoni; certe cose che vi son parse utopia - dice Gian Giacomo Rousseau - crederete realizzabili, o uomini se vi allontanerete dalla città...
Ed io ho pensato ed ho compreso. Tutto passa.
Chi rammenta un Aronte che di qui speculò le stelle e predisse guerre civili?
Chi rammenta più un Cybo che regnò un dì al pian verde, o il Piccinino che ne incendiò i borghi? Tutto passa, tutto diventa.

Qui duemila anni fa salirono fra i vigili astati i primi cristiani, i discepoli di Paolo e di Pietro, condannati dai Cesari a scavar marmi per tutta la vita, rei d’un sogno.
Roma era potente, le aquile aleggiavano sul Reno e sulle sponde britanne, i marmi scavati andavano ad adornare i triclini dei pretori e gli ortoli dell’etere. Ed essi, i poveri sognatori, che morirono ignoti condannati a Fantiscritti, appena appena lasciando sulle rocce un timido segno delle loro aspirazioni e del loro martirio, oh! certo non credettero al Trionfo: che il sogno luminoso di Cristo sarebbe diffuso (ed ahimé sfruttato!) un giorno su tutta la faccia della terra.

Quel Don Rodrigo, che debole amatore! Manzoni e il Don Giovanni di Mozart-Da Ponte (Alberto Arbasino)

Don Rodrigo. Bozza di Francesco Gorim
per "I Promessi Sposi" (edizione 18409

Come codetta alle insaziabili celebrazioni di Don Lisander, e anche di Amadeus, vorrei ancora ripescare certi raffronti manzo-mozartiani già sviluppati nelle ingiallite pagine di Certi romanzi (Einaudi, 1977). Nei confronti di Don Giovanni, infatti, quale perversa tecnica di "abbassamento" e "degradazione" viene perpetrata dall'infernale Manzoni con la messa a punto dei comportamenti e delle motivazioni e delle inibizioni di Don Rodrigo.
Si sa, intanto, che da Maraon a Macchia si possono consultare divagazioni finissime, sul "tormentone" del capriccio carnale vero o presunto del "Don" nei confronti della forosetta promessa sposa al villano. ("Troppo mi premono, queste contadinotte!", nel libretto del Da Ponte. "Le voglio divertir finchè vien notte!"). Ma a parità di spagnolismo padronale, di barocco rivisitato, di eros autentico o putativo, le strategie villerecce di Don Rodrigo sembrano platealmente rozze, rispetto al "savoir faire" sfoggiato da Don Giovanni. Secondo il famoso Catalogo, le esperienze di costui sono incomparabilmente più abbondanti. (Solo in Italia, "seicento e quaranta"). Di Don Rodrigo, invece, si sa solo che dopo l'arrabbiatura provocatagli da Padre Cristoforo, se ne va - a piedi, cose da vergognarsi - verso Lecco, "in una casa, dove andava, per il solito, molta gente". (Poco "exclusive", quindi). Sospensioni e censure che lasciano intuire sfoghi abituali e a buon mercato: come quando l'Innominato, dopo aver lasciato Lucia, "fatta una consueta visita a certi posti del castello... s' era andato a cacciare in camera". Certi posti... si dice così quando si vuol titillare un' immaginazione lubrica. Se fosse andato a verificar la chiusura del portone o a dar da mangiare ai cani, Don Lisander poteva dircelo.
Al contrario dell'ottuso e obliquo Don Rodrigo, il mondano estroverso Don Giovanni ha capito tutto, e usa mezzi semplici, diretti, spontanei. "Oh, caro il mio Masetto! Cara la mia Zerlina! V'esibisco la mia protezione!". Altro che far passare la libido attraverso la Chiesa, offrendo la protezione tramite il frate, e mandando i bravi dal parroco, dunque prenotandosi un esito derisorio... Questo non è rococò: è conoscenza dei meccanismi eterni dell'animo umano. Macchè bravi: simpatia! Macchè minacce: carineria! Macchè "prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo!" (cioè, voler fare il Sade a Lecco, senza averne la fantasia nè i mezzi, uno che va a Lecco a piedi...). Invece, Don Giovanni a Leporello: "Presto, va con costor: nel mio palazzo, conducili sul fatto! Ordina che abbiano cioccolata, caffè, vini, prosciutti!" (Don Giovanni dispone anche di subordinati più svegli. Basta paragonare a Leporello - "voglio fare il gentiluomo!" - quel povero Griso: che barbone, che Tecoppa, che ladro di galline). Non per nulla, di fronte a un'esuberanza così "alla mano", e a un rinfresco dal menu così stravagante, altro non rimane a Masetto che ritirarsi, senza nemmeno gli scatti di Elvino contro il Conte Rodolfo nella Sonnambula. "Ho capito, signor sì! Chino il capo e me ne vo! Giacché a voi piace così, altre repliche non fo". E Zerlina, da parte sua: "Va, non temere, nelle mani son io d'un cavaliere!".
Che differenza non solo di chic, fra i due Don, ma di accortezza. Don Rodrigo cerca di trattenere Lucia con chiacchiere non punto belle, e viene punito in questa sua rustica grossolanità: povero untorello, non ottiene nulla di nulla. Don Giovanni, invece: "Là ci darem la mano, là mi dirai di sì..." - e senza l'importuno arrivo di Donna Elvira otterrebbe sicuramente tutto, grazie alle astute maniere non disgiunte dalla signorilità del tratto. Infatti Zerlina ci sta e ci spera ("Vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor, felice è ver sarei, ma può burlarmi ancor"); e la didascalia del Da Ponte precisa: "si incamminano abbracciati verso il casino". E subito, macché pasto trucibaldo in "covili da fiere" tra "omacci tarchiati e arcigni" e "donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute" (vignette di lesbismo alpinistico da maso chiuso, degne di un fisiologo positivista). Chez Don Giovanni, invece, champagne: "Finchè han del vino - calda la testa - una gran festa - fa preparar!". E giù orchestrine, danze, "signore maschere", galanteria.
Ora, la simmetria fra queste due situazioni appare tanto vistosa, e le soluzioni profferte da Amadeus e da Don Lisander sembrano così difformi, da suggerire di riprendere un'illuminante intuizione di Vittore Branca sulla perfida contestazione interna congegnata dal Manzoni ai danni delle più rispettabili convenzioni letterarie del suo tempo. Tipico esempio, quella campagna miserabile e devastata, dove lottano per la sopravvivenza creature disperate e fameliche, come spaventevole rinfaccio espressionistico alla linda gaiezza della Natura secondo l'Arcadia e il Parini. Dunque, un'operazione analoga alle invettive contro la Natura cannibalesca nei film americani di confutazione anti-ecologica con Burt Reynolds... E proprio da parte di un autore ben capace di eleganze settecentesche, tanto vero che "Addio monti sorgenti dall'acque", decasillabo fra i più prelibati, suona come un attacco di cabaletta ben degno di "Madamina il catalogo è questo"...
Forse Don Lisander si proponeva un analogo ribaltamento antisettecentesco del Don Giovanni, deteriorandone il "mito" attraverso Don Rodrigo e i suoi falsi passi, così argutamente calcolati, come per ironizzare nel foyer del Melodramma ai danni di un fantasma già tarlato di dominazione erotico-feudale già dèmodée? (E forse non a caso, la battuta inaugurale dei bravi che lo rappresentano contiene già due "segnali" abbastanza significativi, un lapsus linguistico coincidente con una gaffe psicologica. A un orecchio lombardo, infatti, un divieto così toscano come "non s'ha da fare" suonerà sempre esotico e minatorio quale un "verboten" alemanno d'occupazione; tanto che la sola risposta coerente potrebbe suonare un "ovvìa, le son bischerate" da parte di Don Abbondio. E poi, almeno da Adamo ed Eva, si sa pure che una proibizione sobilla principalmente trasgressione, disubbidienza, quindi "messa in moto di una trama". Altrimenti, che senso avrebbe come "funzione" narrativa o drammaturgica?).
Forse Don Rodrigo appartiene alla casistica del "libertino che non vuole affatto concludere"? Don Lisander ci sottopone il suo "caso clinico": fino a che punto è credibile uno sconsiderato che desiderando (si dice) una povera fanciulla, invece di rivolgersi immediatamente e non dilettantescamente a lei o alla sua mamma, con fiori e gioielli e panettoni e marrons glacès - e non potendo fare il Divin Marchese, perché Lecco è Lecco - manda i gorilla dal prete? É la tattica più sicura per non ottenere nulla di nulla: come se Bismarck, desiderando annettersi territori belgi, iniziasse delle tortuose intimidazioni sul Vaticano. E non c'è bisogno di rifarsi ai padri della psicanalisi per intendere che in tali casi c'è sotto sotto più o meno confessato un desiderio che l'evento non si compia. Oppure, visto il suo comportamento contorto, Don Rodrigo era un masochista fra i più sventurati, e desiderava costantemente una punizione? Se infatti si riscontra di quali inesauribili provviste di tedio possa disporre Lucia, solo minimamente provocata (basta vedere come annienta l'Innominato, con poche zaffate di fastidiosità bene assestata), si comprenderà agevolmente come Don Rodrigo non appartenga tanto all'infelice categoria del "picchiami, picchiami, fammi male", bensì a quella non meno frequente dell'"annoiami, annoiami, rompimi ancora di più!". Tale casistica ci è stata a lungo resa familiare dai film di Alienazione presieduti dal mito contemporaneo di Miss Broncio; ma anche nella quotidianità non sembra troppo raro l'uomo prepotente con tutti che ricerca per le proprie gratificazioni emotive (e fra lo sbigottimento di molti) solo creature di eccezionale monotonia e petulanza. E non si osa neppure immaginare l'uggiosità madornale che avrebbe sopraffatto - e probabilmente soddisfatto - l'infelice Don Rodrigo, una volta alle prese in tte-à-tte e full time con Lucia munita del suo infallibile spray di noia. O forse Don Rodrigo poteva soffrire di qualche difficoltà nelle funzioni maschili, ma in forma enigmatica, come in Armance di Stendhal? E allora, per fare il Don Giovanni con quei mediocri amici e "salvare la faccia" col Conte Attilio, avrebbe soprattutto cercato di mandare a monte con diversi espedienti dilatori le avventure astratte che minacciavano un esito favorevole, e dunque chissà quali imbarazzi alle prese con una pia ma forse carnale fanciulla? (È un caso tutt' altro che insolito: basta andare a qualche festa, per raccogliere una quantità di sfoghi di sventurate che danzano con dei Don Rodrighi tremendi per tutta la sera, e poi al momento buono se li vedono scappar via coi pretesti più sciocchi. C'è tutta una saggistica stagionata, in proposito, su Don Giovanni).
Ma il lettore, per volere dell'Autore, la sa più lunga di Don Rodrigo. Sa infatti che Lucia rappresenta "l'Italia delle bustarelle". Quando infatti propone alla Vergine Santissima un famoso baratto - "rinunziare per sempre a quel poverino" pur di "tornar salva con mia madre" - essa si uniforma a quel costume di do ut des frequente negli stessi paesi mediterranei dove vige la mazzetta nei ministeri, la mancia al postino, il regalo alla professoressa, e in genere la convinzione che il funzionario è ingordo e il potente va placato e il professionista va ingraziato con doni, preferibilmente in contanti o in commestibili: tant'è vero che Renzo porta i capponi al dottor Azzecca-garbugli. Lucia non sospetta nemmeno che in altri climi un buon cattolico non si sognerebbe mai di offendere Gesù o la Madonna e neanche un santino minore (così come non si dà la mancia a una padrona di casa) con offerte di gioielli o assegni o bigiotteria in cambio di un favore immediato e concreto: solo preghiere ben fatte e onestà d'intenzioni. Dunque non sente la sconvenienza di trattare la Vergine come una fattucchiera, con transazioni di natura vaginale. Ecco le ambiguità di un rovesciamento del Don Giovanni dove il "plot" viene messo in moto da una falsa pulsione fondamentale, la cupidigia sessuale attribuita a Don Rodrigo, ma presto svaporata in puntiglio o ripicca nobiliare, tanto che a metà romanzo bisogna ricaricarla ricorrendo agli spasimi di un mezzosoprano sopraggiunto, la Monaca di Monza. (Ma la "sexiness", "uno non se la può dare": e anche Renzo ha tanto potenziale erotico come un tenore del Don Pasquale o dell' Elisir d'amore).
Ma siccome la motivazione generale di Don Lisander è la religiosità e non la sensualità, eccolo scostarsi da Amadeus e approssimarsi a Giuseppe Verdi. Don Giovanni viene infatti sempre più svuotato man mano che si spiazza Don Rodrigo, secondo l'ipotesi per cui l'empio libertino vuol trarre soddisfazione dal maltrattamento di una pia fanciulla non in quanto "oggetto sessuale" ma appunto perché pia. In questo caso, però, l'avrebbe molestata più direttamente, la fanciulla perseguitata: come insegnano innumerevoli Vite delle Sante rappresentate dalle filodrammatiche religiose e da Paolo Poli. Lì il Maligno se la prende pesantemente con la piccola devota, che infatti gli replica "Vade retro Satana". Mai, invece, un malvagio autentico intavola artifici ritardanti con personaggi marginali rispetto alla vicenda primaria. Vengono invece in primo piano, per Don Lisander, i bassi quasi protagonisti, come nel Don Carlo verdiano: vecchi ecclesiastici o cattivi, come il Cardinale e l'Innominato, con grinta e piglio e carisma, inoltre spalleggiati da due fantasmi importantissimi come il Passato e il Potere.

la Repubblica, 19 marzo 1985

18.8.19

Un ricordo di Berlioz, il “grande sconfitto” (Paolo Isotta)

Hector Berlioz

Quando Hector Berlioz morì centocinquant’anni fa, aveva sessantasei anni. Trascorse gli ultimi anni nell’amarezza e nella solitudine. Era distrutto nel fisico e nel morale da due cose: aveva vissuto molte vite, ed era stato un lottatore come ce ne furono pochi. Lottatore per i suoi ideali artistici, che anteponeva alla stessa sua opera di compositore; e lottatore per le sue composizioni.
Fu uno dei sommi genî della musica; taluni glielo riconobbero in vita, a cominciare da Liszt, che quanto a penetrazione e generosità verso l’arte altrui non aveva rivali. Ma in realtà morì da vinto. I suoi successi, molti e forti, vennero superati dalle sconfitte e da una diffidenza nei suoi confronti che pare inspiegabile. Oggi la situazione non è diversa. Sommo compositore, sì; ma nella vita musicale posposto a un’infinità che non valgono la millesima parte di lui.
Tra le sue Opere teatrali, la più alta è Les Troyens, finita nel 1858. È una vertiginosa vicenda ch’egli, anche poeta, trasse dal II e dal IV libro dell’Eneide. La distruzione di Troia, con i foschi bagliori dell’incendio. L’amore di Didone per Enea, vietato dagli dei, e il suicidio dell’eroina. Virgilio ha avuto tanti melodrammi tratti da Metastasio, ma questo è il solo omaggio degno del più grande poeta mai vissuto. Berlioz non ascoltò mai Les Troyens. La prima esecuzione avvenne nel 1890 a Karlsruhe sotto la direzione di Felix Mottl: ironia della storia, un seguace di Wagner. Ancor oggi, quanti possono dire di aver ascoltato il capolavoro a teatro? O anche solo in esecuzioni concertistiche? Che poi sarebbero preferibili. Vedere Enea in abito da tupamaro e Didone vestita da Marina Berlusconi… Quando Berlioz, innamorato della Salammbô di Flaubert, gli si rivolse per consigli sulla storia e la vita di Cartagine…
Nell’Ottocento molti compositori erano dotati di vasta cultura generale. Sovente, la filosofia la inquinava. Berlioz di filosofia s’intrigava poco; è anche uno dei più eleganti scrittori francesi del secolo, con una vena, persino, di narratore surreale (Les Grotesques de la Musique, Les soirées de l’orchestre) che meriterebbe miglior fortuna di molti romanzi di Dumas. Ha coltivato Byron, dedicandogli una meravigliosa Sinfonia, Harold en Italie; ma al vertice del suo amore sono Shakespeare e Virgilio, adorati con assoluta equanimità. Poi viene Goethe, al quale s’è ispirato, modificando il poema, per la geniale Dannazione di Faust. E per quanto tocca Shakespeare, insieme con Verdi è stato il più grande di tutti i compositori shakespeariani.
Ma la sua cultura era diversa. Era un latinista. Quando, in ritardo perché per quattro volte era stato bocciato, vinse il Prix de Rome, invece di fare i compiti se ne girava per la Campagna Romana pensando alle vestigia dell’antica grandezza. E Roma è anche l’oggetto di un altro suo capolavoro teatrale. La Roma del Rinascimento. Nel Benvenuto Cellini la scena più terribile e commovente è quella della fusione della statua di Perseo: mancandogli il metallo, Cellini getta nella fucina tutto quel che ha, il suo oro, persino altre sue opere. È uno dei più bei simboli della creazione artistica trasformati in teatro.
Quando tornò a Parigi, compose La Sinfonia fantastica. È purtroppo l’unica sua opera effettivamente in repertorio. E dico purtroppo giacché perpetua di Berlioz la falsa immagine, sempre prevalente sulla vera. È un pezzo di pseudo autobiografia, di pseudo automitografia. Rappresenta i delirî di un giovane artista in preda all’oppio, il quale si perde dietro all’immagine fantastica di una donna amata, impersonata da una melodia ricorrente. Al poeta viene tagliata la testa. Indi scende all’inferno, ritrova la sua melodia orribilmente sconciata e infine si disperde nel Sabba del quale fa parte anche la melodia liturgica del Dies irae.
Venne e viene classificato come l’esponente di un Romanticismo estremo e caduco. Non si comprese che la Sinfonia fantastica è scritta del tutto a freddo, che ogni effetto è studiosamente calcolato, e che dietro il pandemonio si cela una perfetta forma classica.
Solo partendo dal fatto che l’aspetto letterario, a partire da un nuovo tipo di venerazione per Shakespeare, di Berlioz, è romantico, ma quello musicale classico, si può inquadrare la sua figura. Riesce a trasformare Romeo e Giulietta non in un banale melodramma, ma in una Sinfonia che sintetizza il dramma e usa il coro come narratore da Tragedia greca. Compone un Requiem al quale Verdi si è ispirato per il suo e che gli è persino superiore. Nelle ultime battute le parole di speranza sono contraddette da un accordo di Sol maggiore fatto da tre timpani soli, l’immagine del Nulla.
Ha rinnovato l’idea stessa del timbro orchestrale: tutti i compositori gli debbono qualcosa, da Wagner a Verdi a Liszt a Rismkij-Korsakov a Ravel e Debussy. Il suo Trattato di orchestrazione venne tradotto in tedesco da Richard Strauss: è un monumento di dottrina e di gusto che aiuterebbe moltissimo i direttori d’orchestra. Salvo che ormai la gran parte dirige a orecchio. Il Grande Sconfitto contempla dal Nulla il Nulla della civiltà.

il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2019

15.8.19

La Guerra civile Usa fuori dal mito. «Non fu una crociata per la libertà» (Antonio Carioti)


La resa del generale Lee al generale Grant in un film USA degli anni 20 del Novecento

L'Unità d'Italia e l'inizio della Guerra di secessione americana portano la stessa data: 1861. Ma non è solo il 150° anniversario ad accomunare i due eventi. Secondo Raimondo Luraghi, autore di una fondamentale Storia della guerra civile americana (Bur), l'analogia è ben più profonda: «Il conflitto tra Nord e Sud fu una vera rivoluzione nazionale e Abraham Lincoln si può considerare il Cavour o il Bismarck degli Stati Uniti. È lui a lanciare e imporre l'idea della grande Repubblica americana, mentre fino allora l'Unione era vissuta come un insieme di Stati gelosi della loro sovranità». Luraghi, che dopodomani compie novant'anni, è in piena attività. Ha pubblicato nel 2007 da Donzelli un bel saggio sulla cultura del Sud degli Usa, La spada e le magnolie , e sta lavorando per la Bur a un libro di sintesi interpretativa, nel quale intende tirare le fila di oltre mezzo secolo di studi sulla Guerra civile. «Alle origini del conflitto - spiega - c'è l'impetuoso sviluppo industriale del Nord, dal quale emergono nuove classi, imprenditori e operai, che professano un'ideologia nazionalista e vogliono scalzare l'egemonia esercitata fino allora dall'aristocrazia agraria del Sud». Ma quanto incise la questione della schiavitù dei neri, essenziale per l'economia degli Stati meridionali, fondata sulle grandi piantagioni? «Ebbe un peso notevole, anche se il vecchio racconto moralistico della lotta tra i liberatori del Nord e gli schiavisti del Sud non ha fondamento. Purtroppo ora quel mito è tornato di moda sull'onda della battaglia contro il razzismo. Ma così gli studi vanno indietro di decenni. Quando la politica s'infiltra nella storiografia, è come un'iniezione di cianuro: finisce per ucciderla».
Raimondo Luraghi (1921 - 2012)
In realtà, nota Luraghi, per conservare la schiavitù ai sudisti conveniva rimanere nell'Unione: «L'abolizionismo era debole e il Sud aveva un solido potere di veto. Lo stesso Lincoln negava di voler sopprimere la schiavitù là dove già esisteva. Semmai voleva arrivare a superarla gradualmente, indennizzando i proprietari di schiavi». Del resto il problema non appariva urgente neanche sotto il profilo umanitario: «Per quanto la schiavitù fosse un'istituzione sciagurata e indegna, criticata anche da molti sudisti, in genere i neri erano trattati in modo paternalistico e si ribellavano di rado. Alcuni ricevevano incarichi di fiducia: il presidente della Confederazione, Jefferson Davis, aveva messo i suoi affari nelle mani di un segretario che era uno schiavo, mentre il più grande generale del Sud, Robert Lee, aveva due attendenti neri». Si arrivò alla guerra per altre ragioni: «I grandi piantatori sudisti erano una vera classe dirigente, non un semplice ceto dominante. Tutelavano anche gli interessi dei bianchi poveri del Sud e avevano stretto un'alleanza con gli agricoltori del Midwest nel Partito democratico. I primi presidenti degli Usa venivano di solito dagli Stati meridionali o erano condizionati dal blocco a guida sudista». Fu lo sviluppo industriale a cambiare le carte in tavola: «Il Nord cresceva in popolazione e ricchezza, grazie anche alla valvola di sfogo del selvaggio West, dove potevano recarsi i lavoratori che restavano disoccupati. Ma ciò significava che i nuovi Stati non avrebbero ammesso la schiavitù e quelli che la praticavano si sarebbero presto trovati in minoranza nell'Unione. Allora i sudisti chiesero di permetterla nel West, ma era una pretesa assurda, perché quei territori erano inadatti alle piantagioni e i bianchi che vi si recavano non volevano certo la concorrenza della manodopera schiava».
Lincoln
Così si ruppe il blocco agrario. E nel 1860 fu eletto presidente Lincoln, deciso a escludere l'introduzione della schiavitù nei nuovi Stati: «Il Sud - racconta Luraghi - cadde in preda a un'enorme frustrazione, che è pessima consigliera. I latifondisti si sentivano sfuggire il potere dalle mani. Uomini raffinati e colti, abituati a una vita agiata dai ritmi rilassati, fedeli a valori cavallereschi, guardavano con sospetto la borghesia industriale, dedita alla ricerca del profitto, e le masse lavoratrici, da loro ritenute rozze e ignoranti, del Nord. Non sopportavano inoltre di essere dipinti come barbari per via della schiavitù. Così uscirono dagli Stati Uniti e fondarono la Confederazione, pur sapendo che ciò avrebbe portato alla guerra: vedevano i nordisti come bottegai inetti al combattimento». Inizialmente parve che avessero ragione: «La sproporzione demografica era schiacciante: 5 milioni e mezzo di bianchi sudisti contro 22 milioni di nordisti. Sul piano economico il vantaggio dell'Unione era ancora più netto. Ma la Confederazione fece prodigi, improvvisò un'industria bellica dal nulla e dimostrò sul campo il valore dei suoi militari. La guerra divenne uno scontro gigantesco, sanguinosissimo. Lincoln capì che per indurre il Nord a sopportare uno sforzo così intenso ci voleva uno di quelli che Adolfo Omodeo chiamava miti apocalittici, capaci di cambiare il mondo. Quindi proclamò l'emancipazione dei neri, a partire dal 1° gennaio 1863, in modo da trasformare la guerra in una crociata antischiavista. E arrivò a forgiare "con il ferro e con il sangue", come diceva Bismarck a proposito della Germania, la nuova identità nazionale, in una sorta di seconda rivoluzione americana dopo quella contro gli inglesi».
Invece non nacque mai, secondo Luraghi, un vero nazionalismo sudista: «La Confederazione rimase un insieme di Stati, i cui governatori strepitavano di continuo contro Jefferson Davis. Il generale Lee considerava la sua patria la Virginia, non il Sud, tanto è vero che in una fase decisiva della guerra rifiutò di spostare truppe a Ovest per contrastare l'avanzata nemica lungo il Mississippi. L'esercito del Sud mancò di una visione strategica e sparpagliò le forze proprio perché gli Stati tenevano alla loro autonomia». Per giunta Lee fu un genio in battaglia, ma non capì la nuova guerra industriale: «La potenza di fuoco era aumentata in modo esponenziale, non era più tempo di manovre e assalti alla baionetta. Su oltre 600 mila caduti (metà del Nord e metà del Sud) pochissimi furono uccisi da armi bianche. Furono inoltre decisive invenzioni come la ferrovia, il telegrafo, ma anche la carne in scatola e il latte condensato, che aumentarono autonomia e mobilità delle truppe. E poi tende, stivali e mantelli impermeabili, che consentirono di proseguire le operazioni sotto le intemperie. Tutti fattori favorevoli al Nord». 
Così la rivoluzione di Lincoln trionfò, ma lui non poté gestire la vittoria, poiché fu assassinato nell'aprile 1865, alla fine della guerra: «Fu una iattura, perché aveva pronto un piano di riconciliazione saggio e generoso. Morto Lincoln, non se ne fece nulla, anzi il Sud fu considerato terra di conquista e sottoposto a condizioni durissime, che cessarono solo nel 1877. Poi il conto fu pagato dai neri. In un primo tempo tornò al potere la vecchia aristocrazia sudista, che riesumò un paternalismo abbastanza benevolo verso la gente di colore. Ma poi i notabili furono rovesciati da un movimento di base, espressione dei ceti popolari che avvertivano molto di più l' urto razziale. Furono così i bianchi poveri a imporre nel Sud un regime di rigida segregazione dei neri, che sarebbe durato molto a lungo».


Corriere della sera 14/08/2011

20.7.19

“La straordinaria scioltezza e la costante tensione”. Giovanni Giudici legge “l'Infinito” leopardiano




Non si griderà, spero, al sacrilegio se, qui provocato sul tema Leopardi, mi vedo costretto ad ammettere che la sua poesia resta per me un territorio ancora da conquistare; ne ho Infatti finora subita, più che goduta, la grandezza, nel senso che nell'apprezzarne gli intimi tesori troppo mi condizionano ancora le mitologie della scuola e delle troppe esaltazioni per sentito dire. Conquistare un poeta significa, per me, ripercorrere idealmente insieme a lui il sentiero «astuto e triste» (cito da un verso di Fortini che egli avrà seguito per giungere a quei miracolo che e ogni vera lingua poetica; naturalezza per via d'artificio.
La dicitura del Leopardi poeta (per tacere del filosofo morale) mi si presenta tuttora come un compito assai arduo, tale da intimidirmi (e questo affermo proprio adesso, in un momento che mi trova abbastanza fervidamente impegnato nella rilettura di Dante), sicché vorrei limitarmi a riferire sui due momenti a proposito dei quali mi capita, spiegando, di ricorrere ad esempi desunti dal grandissimo Giacomo: anzi, a voler essere precisi, da un'unica sua poesia, che è L'Infinito.
Ciò accade 1) quando tento di spiegare che cosa debba o possa intendersi per «lingua poetica»; 2) quando tento di spiegare come una poesia deve essere letta.
Nel primo caso tiro in ballo il verso iniziale, ovviamente nell'orecchio di tutti; quel non dimenticabile Sempre caro mi fu quest'ermo colle che è, come ognun vede, costituito da undici sillabe, segnate da quattro accenti forti, sulla terza, sesta, ottava e decima sillaba (e torse da un quinto accento un po' meno torte sulla prima). Si direbbe comunemente che trattasi di un endecasillabo, ma lo non lo chiamerò cosi perché ho diversi dubbi sulla validità della pigra nomenclatura tradizionale. Propongo a questo punto di variare l'ordine delle parole del verso, senza che ne sia peraltro alterato il senso logico e con modesti cambiamenti nello schema ritmico, così da ottenere una serie di varianti che qui scriveremo:
  1. Caro mi fu quest'ermo colle sempre
  2. Mi fu quest'ermo colle sempre caro
  3. Quest'ermo colle sempre mi fu caro
  4. Quest'ermo colle caro mi lu sempre
  5. Caro mi fu sempre quest'ermo colle
  6. Mi fu sempre quest'ermo colle caro
  7. Mi fu quest'ermo colle sempre caro
  8. Caro sempre mi fu quest'ermo colle
  9. Caro quest'ermo colle mi fu sempre
  10. Mi fu caro quest'ermo colle sempre
Eccetera. Ma, come al può constatare, nessuna di queste varianti (benché ciascuna di esse dica la stessa cosa) è lontanamente paragonabile alla suprema e tranquilla e limpida perfezione del verso leopardiano; e ciò si verifica appunto perché una poesia non vale tanto per quel che dice quanto invece (e, aggiungerei, unicamente) per quel che è una successione di suoni, quasi note musicali, in ordinato e rigido rapporto tra loro, per cui ogni modifica nell'ambito di questa particolare fase (il “suono”) della lingua poetica mette in crisi anche il senso di tutto il resto (anche del semplice che-cosa-vuol-dire). Naturalmente a questo nostro giudizio contribuisce anche la nostra memoria di quello che resta il verso scritto dal Poeta; ma oserei dire che anche questa «memoria» finisce per diventare, a livello di lingua poetica, un fattore dinamico di senso. Il secondo caso si riferisce al modo di recitare (o leggere comunque ad alta voce) la poesia in generale. Oggi, forse anche n seguito alle buone letture che alcuni poeti hanno dato del loro versi, la situazione è leggermente migliorata; ma uno degli errori più banali di molti attori (o anche non attori) che recitano versi altrui, era ed è quello di leggere (se così si può dire) secondo la sintassi e non secondo la prosodia, il verso.
L'infinito è un ottimo esempio per dimostrare l'erroneità di una tale impostazione, poiché in questa poesia di soli quindici versi, ben nove sono in enjambement, ossia esauriscono la loro misura prosodica (cioè finiscono) prima che sia compiuto il loro significato logico, per esemplo, a quel verso 4, Ma sedendo e mirando interminati, iI cattivo lettore non resiste alla tentazione di abolire la necessaria e naturale pausa di fine-verso e corre subito ad appiccicare agli interminati la parola spazi che appartiene con ogni evidenza al verso che viene dopo. Perché? Hanno forse paura che gli ascoltatori più semplici si scandalizzino o non capiscano? O sono invece proprio loro, i cattivi lettori, a non capire che una delle fonti di senso della lingua poetica sta proprio in questa divaricazione (di cui l'enjambement non è che un modo) fra ordine sintattico e ordine prosodico e che, nella fattispecie, il lettore che alla parola interminati faccia seguire un ragionevole tempo d'attesa prima di passare con la parola spazi al verso successivo rende alla poesia il giusto servizio, come un bravo esecutore potrebbe renderlo a un petto di musica.
Un cattivo o mediocre lettore non offende soltanto la poesia, ma anche (quando sia vivo e presente) il poeta; e non dimenticheremo a tal proposito l'aneddoto, forse inventato ma certamente significativo, di Dante che, udendo un fabbro ferraio fiorentino declamare sguaiatamente una sua (di Dante) poesia, entrò nella bottega dello sbigottito artigiano e, senza dire ai né bai, cominciò a buttare di qua e di là e anche sulla strada gli attrezzi del suo lavoro. A chi gli buttava all'aria i versi, egli buttava all'aria i ferri del mestiere.
Per ritornare a L'Infinito aggiungerei che è forse proprio la frequenza del suoi enjambements (oltre a diversi altri elementi) che contribuisce a conferire a questa perfetta poesia la sua straordinaria scioltezza e insieme la sua costante tensione; per cui più che esser detta dalla voce del recitante la poesia finisce essa stessa per dire la voce, da oggetto, diventando soggetto, da patiens imponendosi come agens. La sua prosodia, in apparenza semplicissima, è come il pezzo d'opera nell'eseguire il quale anche il più bravo cantante rischia la stecca; quegli enjambements sembrano inventati apposta per costringere la voce del lettore a rifarsi il fiato (e la sua mente a riflettere, a interrogarsi.

"l'Unità” 19 luglio 1986

19.7.19

"Il ragazzo di Nerina". Casa Leopardi: un genio scandaloso in una famiglia bigotta (Ugo Dotti)


A guardar le cose da un punto di vista un po' particolare non si ha difficoltà ad ammettere che la vita di Giacomo Leopardi fu tutto uno scandalo. Per le idee anzitutto: rigorosamente e disperatamente coerenti, atee e materialistiche in un'età pervasa dal riformismo liberale e cattolico, culminanti nella spietata dichiarazione della vanità del tutto. Per l'aspetto fisico del poeta: debolezza d'occhi, debolezza della spina dorsale giunta alla doppia gobba, umor nero e nera malinconia, progressivo disfacimento del corpo fino alla morte (per tisi, per colera, per scompenso cardiaco?). Va da sé che la naturale superficialità degli uomini, e dei benpensanti in particolare, ancor vivo Giacomo, non perse tempo a mettere in relazione le due cose, causa ed effetto: dagli amici fiorentini (a voce più bassa ma maligna, si pensi al celebre epigramma del Tommaseo) al tedesco Henschel che non esitò, seriamente e sgarbatamente, a parlar chiaro: se la filosofia del poeta era tanto tetra, si pensasse alle deformità dell'uomo. Donde la dura reazione del Leopardi, nel 1832: «Prima di morire, io protesto contro queste invenzioni vili e volgari. Prego perciò i miei lettori a provarsi a demolire le mie riflessioni e i miei ragionamenti anziché accusare le mie malattie...».
Ma lo scandalo vero e proprio — il «caso» letterario e di costume esploso ai margini del nostro maggior poeta moderno — scoppiò nel 1845, quando Ranieri pubblicò postumi i primi due volumi delle Opere del Leopardi con la celebre Notizia su di lui. E da allora fu guerra: da una parte i difensori di Giacomo, dall'altra, numerosissimi, i paladini della famiglia, di palazzo Leopardi e di Recana-ti, della gens Leoparda così brutalmente balzata alla ribalta delle scene letterarie e nel chiacchericcio dei salotti in virtù di un membro forse geniale ma troppo scandalosamente ribelle.
Con toni diversi anche se non meno accesi la guerra — almeno sul piano speculativo e mercantile delle «carte» leopardiane promesse e sottratte, vendute e rivendute — dura ancor oggi. Fino all'età del conte Ettore, quando nel brulichio delle camicie nere e tra i labari e le insegne littorie i «resti» del poeta vennero traslati, essa è stupendamente narrata da Mario Picchi in Storie di casa Leopardi, edito da Camunia (364 pp., lire 30.000).
È questo un libro per tanti versi nuovo, nel senso che, dominando una bibliografia vastissima, orchestra con precisione lo scontro tra leopardisti sentimentali e leopardisti positivisti, tra agiografi e critici, con incursioni interessantissime nel mondo medico-psichiatrico del secondo Ottocento e del primo Novecento, senza dimenticare alcune curiosità che hanno una loro voce schietta e plebea. Per esempio quando ricorda un tal Gerardo Laurini che nel gennaio del 1883 era andato a parlare con il fratello di Nerina e gli aveva chiesto se si ricordava di Giacomo: «Lo gobbo? — uscì a dire quello. — Artro che! ... Era lo ragazzo de mi' sorella! Dice che la mise su li jurnali».
Giacomo Leopardi come un ribelle, come un eretico, come un convertito, come un lunatico, come un genio: e Giacomo, anche, come «il ragazzo di Nerina».
Non si direbbe però tutto se non si sottolineasse che il libro di Picchi, pur tanto ironico nel seguire le miserevoli vicende di una storia che è pur sempre la storia di un costume (e persino di una «civiltà»), ha sicuramente un aspetto molto serio e, si vorrebbe aggiungere, una sua voce pensosa e ammonitrice. Quando uno dei più intrepidi difensori di palazzo Recanati, Giuseppe Piergili, per riabilitare Monaldo e il suo «affetto di padre» mette avanti la curiosa teoria che se a Giacomo fosse mancato l'esempio del genitore e il suo amore per i libri, il suo genio avrebbe potuto benissimo rimanere «sterile e infecondo», al di là del sorriso (o dell'indignazione) per tanta stoltezza, noi capiamo che s'è in realtà toccato il punto vero da cui è scaturito il mare immenso degli attacchi e dei contrattacchi. Di qui Monaldo, la tradizione di famiglia, il bon ton, l'amore per !e buone lettere, il conformismo storico e ideologico; di là Giacomo, il ribellismo, l'autentica ispirazione, lo sguardo gettato sul futuro, la voce della libertà e della con-danna. Di qui Tolomeo; di là Copernico. Di qui il passato; di là l'avvenire. Di qui il rispetto della tradizione; di là lo scandalo della provocazione.
Che tale conflitto, reso più aspro dal dissesto economico del patrimonio familiare, sia scoppiato sotto lo stesso tetto, tra padre e figlio, può certamente essere qualcosa che sfiora il dramma e muove la pietà.
Esso è tuttavia ben altro di un normale contrasto tra generazioni; e tra Monaldo e Giacomo, del resto, correvano poco più di vent'anni.
E forse anche per questo Monaldo non si rassegnò, e alle Operette morali del figlio, quasi a sfida, rispose con i Dialoghetti, quei Dialoghetti che Giacomo, ben vivo il padre, non esitò ad infamare. Se quindi Monaldo, se pur tutta in negativo, ha una sua statura cresciuta all'ombra generosa e magnanima del figlio Giacomo, i successivi «eredi» della famiglia, dal conte Giacomo junior al conte Ettore, non sono che maschere ed ombre, attorno alle quali, tuttavia, tra risentimenti e rivendicazioni, miserie e puntigli, si svolsero per quasi un secolo queste “storie di casa Leopardi”.

"l'Unità", 8 luglio 1986

7.7.19

2D 4D. Il ritorno di Lombroso (Manuela Monti e Carlo Alberto Redi)



Franco Battiato sostiene di conoscere «dal taglio della bocca/ se sei disposto all’odio o all’indulgenza/ nel tratto del tuo naso/ se sei orgoglioso fiero oppure vile/ i drammi del tuo cuore li leggo nelle mani/ nelle loro falangi dispendio o tirchieria» e, addirittura, «da come ridi e siedi/ so come fai l’amore». All’artista va concessa ovviamente ogni licenza poetica stante la bellissima melodia di Fisiognomica (1988) basata su un’idea tanto semplicistica quanto affascinante.
È Aristotele per primo a scrivere di fisiognomica e a correlare tratti della personalità a caratteri anatomici anche riferendosi all’indole di vari animali, idea poi ripresa nei bellissimi bestiari medievali. Le illustrazioni ottocentesche dei volti in preda alle emozioni più diverse (paura, collera, ira, disperazione, gioia) trovano una base pseudoscientifica nella moderna frenologia che sostiene come le funzioni psichiche dipendano da particolari regioni del cervello. Verrà poi Cesare Lombroso (1835-1909) a fondare la moderna antropologia criminale, antesignana dei sistemi di identificazione personale, morfologia molecolare, così come li vediamo al cinema e in televisione con i Ris al lavoro sulla scena del crimine, i dermatoglifi e i saggi di identificazione basati sul Dna.
Tra i maggiori esponenti del positivismo scientifico, Lombroso fu influenzato dal darwinismo sociale (fu un attento sostenitore di Darwin in Italia) e dalla fisiognomica, sostenendo che i caratteri somatici determinano le caratteristiche della personalità e i comportamenti. L’analisi dei sogni, delle manifestazioni di pazzia e delle manie di persecuzione che scaturiscono dal suo studio dell’autobiografia del genio pavese Gerolamo Cardano anticipano importanti osservazioni che saranno poi riprese da Sigmund Freud e Carl Gustav Jung.
Per Lombroso casi conclamati di pazzia sono quelli di Torquato Tasso, André Marie Ampère, Immanuel Kant e Ludwig van Beethoven e tra i pazzi (da buon ateo) ritiene vi sia un’abbondanza di fondatori di religioni e leader spirituali (Martin Lutero, Girolamo Savonarola e Giovanna d’Arco).
Dalle osservazioni sulle caratteristiche fisiche degli internati nei manicomi Lombroso deduce che esista un legame tra genio e follia. I titoli di alcuni lavori meritano di essere ricordati: La ruga del cretino e l’anomalia del cuoio capelluto; L’origine del bacio; Perché i preti si vestono da donne; Dante epilettico. Dalla lettura e studio di Dostoevskij, in particolare de L’idiota, trova conferma alle sue ipotesi che le manifestazioni di genio e pazzia sono dovute a stati di epilessia. Scrive così opere di rilievo internazionale quali Genio e follia e Genio e degenerazione, dove analizza i risvolti caratteriali di Francesco Petrarca, Cristoforo Colombo, Alessandro Manzoni e Lev Tolstoj.
L’analisi delle caratteristiche fisiche associate ai comportamenti lo porterà a sostenere che tra i geni predominano cervelli di volume superiore alla media e con deformità, come la presenza di suture anormali nel cranio di Alessandro Volta; inoltre l’aspetto fisico generale del genio è caratterizzato da pallore, magrezza o obesità e rachitismo. Dalla dissezione autoptica dei cadaveri di Giuseppe Villella (un «brigante») e di Vincenzo Verzeni (un serial killer, il «vampiro della bergamasca»), Lombroso trae la definitiva conferma del nesso tra caratteristica somatica (una marcata anomalia della struttura cranica, la «fossetta occipitale mediana») e comportamento socialmente deviante.
È sulla scia delle idee di questo grande scienziato che ancora si svolgono ricerche volte a predire, prevedere, pronosticare, anticipare qualsivoglia tratto della personalità (capacità di studio, dipendenze affettive, dall’alcool o dai videogiochi, aggressività, orientamento sessuale, psicopatologie di varia natura, eccetera) e anche della salute (rischio cardiocircolatorio, deposizione di grasso sui fianchi dipendenze farmacologiche, e così via) misurando tratti somatici, il più frequente dei quali risulta oggi essere la proporzione tra la lunghezza del secondo (indice) e quella del quarto (anulare) dito, il «mitico» rapporto 2D:4D. Ben più d 1.400 lavori pubblicati negli ultimi vent'anni dove il rapporto 2D:4D viene legato a caratteristiche della personalità, rischi di svariate malattie, cancro e addirittura sclerosi laterale amiotrofica per non dire di ben altri attributi maschili!
A rinnovare l’interesse per gli studi lombrosiani è il lavoro di John Manning, biologo evoluzionista dell’università gallese di Swansea che dimostra l’esistenza di un dimorfismo sessuale del rapporto 2D:4D tra maschi e femmine; nei maschi il rapporto tende a essere inferiore (il quarto dito risulta più spesso più lungo del secondo) rispetto a quello delle femmine, correlando con più alti livelli di testosterone: dal che è breve il passo nel sostenere il potere predittivo del rapporto 2D:4D come indice dell’esposizione in utero non solo al testosterone ma anche ad altri ormoni, in particolare a quelli legati allo sviluppo embrionale del cervello con l’idea, mai dimostrata, di un «cervello maschile» contro uno «femminile».
Il fascino dell’idea semplicistica di poter conoscere tratti complessi della personalità da elementari misure del corpo di chi abbiamo dinnanzi risiede probabilmente nel bisogno psichico di essere tranquillizzati, di conoscere davvero profondamente chi incontriamo nel corso della nostra vita. Basta fare una prova per rendersene conto, basta anche solo parlare del rapporto 2D:4D e vedrete che chi vi sta ascoltando immediatamente proverà a guardare la propria mano se non addirittura a misurare il 2D:4D.
È stato usato di tutto per misurare la lunghezza delle dita, righello, calibro, fotocopiatrice, radiografo con indagini coinvolgenti sino a 240 mila partecipanti (della Bbc) trovando solo differenze irrisorie: 0,984 per i maschi contro 0,994 per le femmine, con grande variabilità della distribuzione delle misure (soprattutto in base all’origine geografica dei partecipanti). Un esame critico dei dati rivela che non è ragionevole legare alcun valore del rapporto 2D:4D ad alcun tratto somatico o psichico; i detrattori sostengono che questi dati sono legati a «credenze paranormali e superstiziose» e che quest’area di ricerca è solo zeppa di risultati e conclusioni irriproducibili.
L’unico dato che pare resistere alle critiche è quello del legame tra esposizione ad alti livelli di androgeni nel corso dello sviluppo embrionale di una femmina e il successivo orientamento sessuale omofilo. Famoso il lavoro di Marc Breedlove (University of California, Berkeley, Usa) svolto agli inizi degli anni 2000 nel corso di feste ed esibizioni nella Baia di San Francisco. Qui i ricercatori fotocopiarono le mani degli intervistati chiedendo informazioni sul loro orientamento sessuale. Non risultò nulla di significativo per i maschi omo o eterosessuali mentre le femmine che si dichiararono omosessuali presentavano un rapporto 2D:4D «mascolino»: l’ovvia conclusione fu di ritenere che l’esposizione prenatale agli ormoni sessuali maschili influenza, nelle femmine, la scelta sessuale da adulte. Questo risultato è però contraddetto dai risultati dell’indagine svolta proprio da Manning con l’aiuto della Bbc dove le conclusioni sono esattamente opposte, l’esposizione al testosterone a livello embrio-fetale influenza la scelta omosessuale nei maschi.
Manning va ben oltre questa conclusione suggerendo addirittura che un minore rapporto 2D:4D è utile per diagnosticare il successo nelle prestazioni sportive (maratona, rugby, sci, basket, calao) e che le squadre agonistiche dovrebbero usare questo criterio per la scelta dei giocatori... La controversia continua e i novelli sostenitori di Lombroso e dà mitico rapporto 2D:4D hanno già pubblicato più di venti lavori nel 2019.

La Lettura Corriere della Sera, 30 giugno 2019

2.7.19

Il cocomero. Una poesia di Giambattista Maccari (Frosinone, 1832 – Roma, 1868)



È un picciol orto fresco d’acqua viva
e d’un’erba verdissima che trema
al vento della sera. Un pergolato
tutto lo cinge; vi son frutta, il fico
molle di latte; pendono conserte
alle pere, le mele variopinte
e sotto il verde di sue foglie il pesco
mostra le vaghe poma. In mezzo è un chiuso
d’arboretti che curvansi ne’ rami,
e dentro al fresco stan garzoni e donne
assisi innanzi ad una pietra, e tutti
riguardano un cocomero che aperto
sulla pietra bianchissima fiammeggia.
Un villanello empie i bicchieri: incontro
guida la danza il mandolino, ed entra
a poco a poco il chiaro della luna.

Dal portale dell'Enciclopedia Treccani

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