6.8.12

La sconfitta è cominciata a Praga (di Luciano Canfora)

Lo scritto che segue è un ampio stralcio da un articolo di Luciano Canfora su “Liberazione” del 15 novembre 1992, quando il giornale di Rifondazione Comunista era ancora settimanale ed era diretto da Luciana Castellina. La rievocazione del 68 di Praga, con le differenze profonde che lo storico individua con il 56 di Budapest, si può ricondurre ad una linea di interpretazione “togliattiana”, quella che lo storico dell’antichità, comunista, non ha mai abbandonato (semmai approfondito) nei vent’anni che ci separano dal 1992. (S.L.L.)  

La sconfitta è incominciata a Praga. Nella litania ossessiva di tipo anticomunista classico (il cui fine non è capire) il '56 e il '68 appaiono come due repliche dello stesso scenario. Niente di più errato. Il '56, a partire dal XX Congresso del Pcus, fu una "rivoluzione dall'alto" che trovò ampia e positiva risposta nella società sovietica e nei paesi europei alleati (e incontrò granitiche resistenze in Cina): quella risposta positiva di massa che trent'anni dopo la cosiddetta "perestrojka" non trovò.
L'avvento di Gomulka al potere, nell'ottobre '56, a Varsavia, sull'onda di un grande movimento di popolo e la simbolica "restituzione" all'Urss del maresciallo Rokossovskij (sino ad allora ministro della Difesa polacco) sono eventi logicamente e poiticamente conseguenti alla critica radicale dello stalinismo come sistema e metodo lanciata dal XX Congresso. E persino la crisi tragica di Budapest, pochi giorni più tardi, nonostante l'enorme scacco che l'intervento rappresentò per il processo di rinnovamento in atto in tutto l'est, non bastò a segnare la fine di tale processo. Si può discutere (purché animati dall'intento di comprendere, e non dal furore polemico) se la valutazione - fatta propria del resto, in quei giorni, anche dalla Jugoslavia di Tito - secondo cui le forze di destra stavano prendendo il sopravvento a Budapest fosse giusta o errata. Sta di fatto però che, non già per fermare un "Gomulka polacco", ma per arrestare la caccia al comunista (non scevra di venature antisemite), il rinnovatore Krusciov si decise al passo drammatico e disperato dell'intervento. Né può essere negato che l'Ungheria di Kadar sia stata poi per anni ed anni, dopo il '56, additata, anche da noi in Occidente, come esempio di apertura e di positiva anomalia rispetto al blocco dell'Est.
Tutt'altro scenario quello del '68 a Praga. Qui fu stroncato il più vitale ed il più radicato partito comunista dell'Est. E fu stroncato, dopo mesi di esitazioni sul da farsi, da una dirigenza sovietica che aveva ormai scelto, con la liquidazione di Krusciov, di spezzare ogni dialettica nella società e nel partito. La nomenklatura, divenuta ormai classe dominante, non poteva rischiare di affrontare un rinnovamento che faceva del socialismo la sua bandiera e il suo orizzonte.
Fu una scelta miope e suicida. Il movimento comunista aveva profonde radici in Cecoslovacchia, era giunto al potere nel '47 vincendo le elezioni. Ancora di recente Pavel Seifter, il quale dopo l'invasione fu espulso dal partito e perse il posto, ha scritto che, in Europa, i paesi dove il movimento comunista ha storiche radici che neppure ora sarà facile recidere, sono la Cecoslovacchia e la Germania. E' qui - scrive scherzosamente - ben più che in Urss la "patria del socialismo" (intervista a Massimo Boffa, L'Unità 31 dicembre 1990).
Stroncare il rinnovamento socialista a Praga significò, in Europa orientale, spingere i governi ad una sopravvivenza meramente poliziesca, in una crescente disaffezione della gente, e soprattutto delle nuove generazioni, non soltanto verso l'esperienza socialista ma verso la politica come tale. E' un segno della svolta il fatto che di li a poco (dicembre '70) a Danzica l'agitazione operaia venisse stroncata con le armi da un Gomulka che rinnegava se stesso e che poco dopo usciva di scena.
Stroncare il rinnovamento socialista a Praga significò anche spingere figure di punta di quella stagione politica a scelte discutibili nella loro radicale volontà di contrapposizione: come quando la firma di Jiri Pelikan apparve, imbarazzante, nel Giornale montanelliano.
Non fu quella, s'intende, la scelta di Dubcek: la cui grandezza politica risiede, tra l'altro, nell'aver affrontato la persecuzione senza cedimenti ma anche rifiutando la falsa equazione onde i nemici dei miei nemici sarebbero ipso facto amici…
Non è senza ragione, perciò, che Viet Nam, Cuba, Angola, siano tuttora, per cosi dire, sulla breccia pur tra difficoltà d'ogni tipo e nella severa consapevolezza dei mutamenti epocali intervenuti, mentre è il centro dell'impero che si è sgretolato: causa non ultima la scelta compiuta, intervenendo a Praga, di governare senza consenso e di rifiutare il rinnovamento.


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