Alla fine del 2013 la Bbc
ha reso pubblici i risultati di un sondaggio Win/Gallup
international. La domanda posta agli intervistati era: “Quale paese
è la principale minaccia per la pace nel mondo?”. Gli Stati Uniti
hanno stravinto, ottenendo il triplo dei voti del secondo
classificato, il Pakistan. Gli studiosi e i mezzi d’informazione
statunitensi continuano a chiedersi se sia possibile contenere l’Iran
e se, per garantire la sicurezza, sia necessario il sistema di
sorveglianza della National security agency. Ma, a giudicare
dal sondaggio, un interrogativo più pertinente sarebbe: è possibile
contenere gli Stati Uniti e difendere gli altri paesi da questa
minaccia?
In alcune regioni del
pianeta la percezione che Washington sia il principale pericolo per
la pace nel mondo è ancora più diffusa. Per esempio in Medio
Oriente.
E probabilmente ben pochi
sudamericani hanno dubbi sul giudizio espresso dal nazionalista
cubano José Martí nel 1894: “Più si allontaneranno dagli Stati
Uniti e più i latinoamericani saranno liberi e prospereranno”. Di
recente il giudizio di Martí è stato ancora una volta confermato da
un’indagine sulla povertà condotta dalla Commissione economica
dell’Onu per l’America Latina e i Caraibi, pubblicata il mese
scorso. L’indagine dimostra che una serie di riforme epocali ha
nettamente ridotto la povertà in Brasile, Uruguay, Venezuela e in
altri paesi in cui l’influenza degli Stati Uniti è minima, mentre
altrove la miseria è rimasta abissale, soprattutto in paesi come il
Guatemala e l’Honduras, a lungo sotto il dominio di Washington.
Un paese normale dovrebbe
preoccuparsi di come appare al resto del mondo. Ma gli Stati Uniti
non sono un paese normale. Da un secolo la loro economia è la più
forte del pianeta, e dai tempi della seconda guerra mondiale nessuno
ha mai messo in discussione la loro egemonia. Consapevole della
necessità di esercitare un potere “più morbido”, Washington sta
lanciando grandi campagne di “diplomazia pubblica” (cioè
propaganda) per proiettare un’immagine migliore di sé. Ma se il
mondo continua a pensare che gli Stati Uniti sono la principale
minaccia per la pace, la stampa americana si guarda bene dal
parlarne.
Il diritto di ignorare
certe verità indesiderate è una delle prerogative del potere
incondizionato, a cui si collega il potere di rileggere a proprio
modo la storia. Ne sono un esempio le attuali preoccupazioni per
l’escalation del conflitto tra sunniti e sciiti che sta dilaniando
il Medio Oriente, e in particolare Iraq e Siria. La spiegazione
prevalente dei mezzi di comunicazione statunitensi è che sia la
conseguenza del ritiro delle truppe americane dalla regione, uno dei
rischi dell’“isolazionismo”. In realtà, è vero il contrario:
i motivi del conflitto interno all’Islam sono molti, ma non si può
negare che l’invasione angloamericana dell’Iraq abbia aggravato
le cose.
La morte di Nelson
Mandela ha oferto un’altra opportunità per riflettere sulla
cosiddetta “ingegneria
storica”: la tendenza a
reinterpretare la storia in base alle necessità del potere. Quando
finalmente fu liberato, Mandela dichiarò che Cuba era stata, negli
anni della prigionia, “una fonte di ispirazione” e aggiunse: “Le
vittorie cubane hanno (...) ispirato le masse che stavano lottando in
Sudafrica e sono state decisive per la liberazione dell’Africa
dalla piaga dell’apartheid”. Oggi i nomi dei cubani morti per
difendere l’Angola dall’aggressione del Sudafrica razzista
appoggiato da Washington sono scritti sul “Muro dei nomi” nel
Freedom park di Pretoria. Ma la versione statunitense di questa
vicenda è molto diversa. Fin dai primi giorni successivi al ritiro
del Sudafrica dalla Namibia occupata illegalmente nel 1988, che
preparò la strada alla fine dell’apartheid, quell’episodio
fu definito dal Wall Street Journal “uno dei più importanti
successi della politica estera dell’amministrazione Reagan”.
Il motivo per cui Mandela
e i sudafricani hanno una visione completamente diversa dei fatti ce
lo spiega Piero Gleijeses nel suo studio: Visions of freedom:
Havana, Washington, Pretoria, and the struggle for Southern Africa,
1976-1991. Come Gleijeses dimostra, a mettere fine
all’aggressione e al terrorismo sudafricano in Angola e
all’occupazione della Namibia fu “la potenza militare cubana”
affiancata dalla “fiera resistenza dei neri” del Sudafrica e dal
coraggio dei guerriglieri namibiani. L’Esercito di liberazione
della Namibia vinse facilmente le prime elezioni democratiche. E
anche in
Angola si affermò il
governo sostenuto da Cuba, mentre gli Stati Uniti continuavano ad
appoggiare i terroristi dell’opposizione nonostante il ritiro del
Sudafrica.
Fino alla fine,
l’amministrazione Reagan restò praticamente da sola a sostenere il
regime dell’apartheid e i suoi atti di aggressione ai paesi
vicini. Ma anche se questi vergognosi episodi possono essere
cancellati dalla storia interna degli Stati Uniti, qualcun altro
ricorderà le parole di Mandela.
In questo, come in tanti
altri casi, chi ha un potere incondizionato può provare a difendersi
dalla realtà, ma fino a un certo punto.
Internazionale 1042, 10
marzo 2014
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