Nel 2002, trent’anni
dopo la morte di Franco Serantini, Franco Bertolucci ne parla con
Corrado Stajano, autore della biografia Il sovversivo (1975)
,che molto contribuì a farne conoscere la storia tragica,
commovente ed emblematica. (S.L.L.)
Cosa ti rimane oggi a
distanza di trent’anni dalla vicenda Serantini, dell’esperienza
del libro?
È stato un momento di
passione, quando seppi della morte di Franco Serantini provai una
profonda angoscia. Decisi che ne avrei scritto. Non lo feci subito
perché detesto i libri che vengono pubblicati a ridosso degli
avvenimenti. È necessario analizzare i fatti, studiare i documenti,
vedere i luoghi, pensarci su. Serantini è morto nel maggio del ‘72
e io ne ho scritto due anni dopo, al termine di una indagine che ho
fatto in Sardegna, in Sicilia, nei posti dove Franco era vissuto da
bambino, e poi a Pisa dove ho cercato di parlare con tutti quelli che
l’avevano conosciuto, da Luciano Della Mea, ai vecchi anarchici
della Federazione, a Valeria, la giovane figlia di Luciano, ai
professori, agli studenti, alle giovani coppie della società
borghese pisana che l’avevano aiutato a crescere culturalmente. E
anche umanamente. I Podio Guidugli, i Prampolini, i Caleca.
Ero andato al San
Silvestro a parlare con il direttore della Casa di rieducazione che
ospitava Serantini, avevo parlato con alcuni magistrati e, più
tardi, a Roma con il commissario che dopo l’assassinio aveva avuto
una crisi di coscienza e si era dimesso dalla polizia. Il mio modo di
scrivere sta tra la narrazione, la testimonianza, l’inchiesta. Ho
raccolto tutto quanto era possibile, i documenti giudiziari, quelli
politici. Il sovversivo uscì nel ’75, ebbe numerose
edizioni, fu molto letto dai giovani delle passate generazioni, quasi
duecentomila copie. Ebbe anche un’edizione per le scuole medie.
La storia di Serantini
è stata in parte interpretata come quella di un ragazzo sventurato,
povero, figlio di nessuno, e questa è la lettura che è passata
soprattutto a livello giornalistico, tuttavia oggi, a trent’anni di
distanza, intervistando alcuni suoi amici, gente che andava a scuola
con lui, alcuni suoi insegnanti, viene fuori come Serantini non fosse
del tutto sprovveduto. Era un ragazzo come molti altri che aveva una
gran voglia di vivere, un grande entusiasmo e una propria concezione
libertaria della vita e della società. In alcune cose era molto
deciso, per esempio, Soriano Ceccanti, ci ha descritto un Serantini
che a volte assumeva le caratteristiche del “leader” nel
gruppo degli amici più intimi, era trainante, era determinato.
Sì, questo risulta in
parte anche dal libro. Serantini era rimasto colpito da quanto era
accaduto in Italia in quegli anni, dalle agitazioni operaie e
studentesche del ’69 alla strage di piazza Fontana. Voleva sempre
parlare di Valpreda, di Pinelli, veniva anche rimproverato dagli
anarchici più anziani di voler fare un’azione di tipo movimentista
uscendo dalla tradizione classica dell’anarchismo. Serantini stava
costruendo la sua cultura politica.
Dalle interviste che
stiamo facendo ai militanti dell’epoca viene fuori una lettura
della realtà pisana condivisa, e cioè quella di una piccola città
di provincia che a un certo punto entra sul palcoscenico nazionale
proprio grazie al movimento studentesco, al contempo però pare che
nei gruppi dirigenti della città ci sia una chiusura netta nei
confronti delle richieste e dei bisogni di rinnovamento da parte
degli studenti. In questa città così piccola, in alcuni momenti, la
violenza della repressione diventa enorme, qui basta ricordare il
caso di Soriano Ceccanti, ferito per l’ultimo dell’anno del 1968,
o quello di Cesare Pardini, che viene ucciso su quello stesso
lungarno dove viene picchiato Serantini. Tre fatti clamorosi cui
vanno sommati le centinaia di arresti e denuncie. Come si può
interpretare questa realtà anche rispetto al resto del contesto
italiano?
È vero quel che tu dici.
Pisa, in quegli anni, è importante rispetto al panorama nazionale.
Nasce in quella città Potere Operaio, il movimento studentesco ha un
grande sviluppo, la presenza di una delle università di maggior
prestigio è rilevante. L’attenzione della polizia a Pisa fu
costante e anche la presenza dei servizi segreti. Ed era seguita
dalle autorità politiche e dell’ordine pubblico con estrema
attenzione. Le infiltrazioni nei movimenti furono costanti con
l’intento di dividere, controllare e reprimere. La classe dirigente
politica locale fu incapace di interpretare quel che stava accadendo,
di capire che cosa rappresentavano i gruppi della sinistra
extraparlamentare. Capirlo, tra l’altro, avrebbe evitato tante
tragedie che sono accadute dopo, avrebbe evitato forse le violenze
del terrorismo che hanno riportato la società italiana indietro di
dieci, quindici anni. L’insufficienza dei gruppi dirigenti era ben
visibile.
Non ti sembra che a
trent’anni di distanza dal Sessantotto, dalla Strage di Stato, e da
casi come questo di Franco, sia giunto il momento di aprire gli
archivi dello Stato?
In Italia sono accaduti
almeno tre fatti politico-criminali sui quali non sapremo mai, forse,
la piena verità: Portella della Ginestra (1947) e Piazza Fontana
(1969): nonostante il nuovo processo finito da non molto non sappiamo
nulla sui veri e propri mandanti. Il terzo fatto è il sequestro Moro
(1978). Sono i tre fatti nodali intorno ai quali si muove la storia
italiana dalla fine della Seconda Guerra mondiale ad oggi. Essenziali
perché conservano ancora oggi le tossine di possibili ricatti. Sono
poche le persone che sanno. Non è certamente negli archivi che
troveremo i documenti di quanto è avvenuto. Forse potremo trovare
ancora qualcosa di marginale capace di aiutare le persone di buona
volontà nella ricerca di qualche pezzo di verità. Ma gli scheletri
non sono rimasti negli armadi.
I procuratori
generali, come Calamari nel caso di Serantini, avevano un grande
potere e promossero grandi inchieste e azioni repressive contro i
movimenti di contestazione. Quale ruolo ebbero questi magistrati?
Allora furono i
procuratori generali a far da argine contro i movimenti di
contestazione. Si commette però, sempre, l’errore di valutare le
istituzioni come un tutto omogeneo. Non lo furono allora come non lo
sono adesso. Nel caso Serantini, abbiamo a Pisa l’esempio di
magistrati che si comportarono esemplarmente, come Paolo Funaioli, il
giudice istruttore, e Salvatore Senese, allora pretore di Pisa. Non
ci furono insomma soltanto i procuratori generali con la loro cultura
medioevale, ci furono anche all’interno delle istituzioni uomini
che si comportarono secondo verità e giustizia, con un modo diverso
di intendere la vita e la società.
Al momento della
Strage di Stato vi fu un gruppo di giornalisti coraggiosi che non si
accontentò di riportare supinamente le veline della questura e si
contrappose ai tentativi da parte delle autorità di dare una “verità
accomodante”. Ecco, di quell’esperienza, di quel gruppo che cosa
è rimasto?
Ci fu la grande
esperienza dei giornalisti non “estremisti”, borghesi, piuttosto,
che diedero, anche per questo, molti pensieri agli uomini della
polizia i quali non capivano quel che stava accadendo ed erano molto
preoccupati perché questi giornalisti denunciavano con coraggio le
responsabilità della polizia e dei servizi segreti nella repressione
nei confronti dei movimenti politici. Volevano fare il loro mestiere,
conoscere la verità dei fatti. Molti di loro sono stati fedeli per
tutta la vita a questo stile di lavoro come Camilla Cederna, come
Marco Nozza, come Giorgio Bocca. Che ancora oggi continua a scrivere
coraggiosamente su quel che accade nel nostro paese dopo che la
destra è andata al potere: contro la continua violazione della
legalità, il mancato rispetto delle regole, il conflitto d’interessi
che avvilisce tutti, l’offesa delle minoranze. È vero che le
generazioni di giornalisti venute dopo non hanno fatto quel che fece
quel gruppo di giornalisti democratici, al quale appartenevo anch’io.
Si è perso il gusto della ricerca e della verità, la
spoliticizzazione seguita al terrorismo ha reso arido il panorama del
giornalismo. Non c’è più un’inchiesta, o quasi, un po’ perché
i giornali non le vogliono, preferiscono spettacolarizzare la vita,
un po’ perché i giornalisti non le sanno fare, un po’ perché
manca la sincera passione di quel tempo. Non si può non pensare che
anche il giornalismo non sia stato toccato, come le altre forme di
espressione, da una sorta di impoverimento, di degenerazione, di
passività; anche se mi sembra che ora si avverta qualche segno di
risveglio. Forse le persone si stanno accorgendo che occorre
vigilanza nei confronti di quanto stiamo vivendo. Non vogliamo
infatti vivere un altro fascismo. I fascismi non appaiono nella
storia sempre con le stesse modalità, ma possono comparire sotto
altre forme. Sotto l’influenza mediatica. Ho l’impressione che ci
sia ora qualche moto dell’anima e qualche presa di coscienza
collettiva. La protesta e il rifiuto vanno dagli operai delle
fabbriche ai professori, agli avvocati, ai giuristi, agli studenti.
Perché vengono violati i diritti di chi lavora, perché la scuola
pubblica è diventata nemica, perché si cerca di soffocare la
giustizia. Insomma, la gente ricomincia a scendere in piazza e questo
non è soltanto un fatto fisico, è una scelta di persone che in
piazza non ci sono mai andate. E questo è molto importante, il
“grido di Nanni Moretti”, è soltanto un segno. Chissà quante
grida sono nascoste.
L’incontro con gli
anarchici a Pisa come è stato? Ti ricordi qualcuno in particolare
che ti ha colpito?
Me li ricordo come delle
figure affettive, erano anziani [i Ciuti, Cazzuola, Capocchi ecc.,
n.d.c.] che trovavo nella sede anarchica. Non mi ricordo là dentro
di giovani anarchici. Erano pochi, allora. Mi ricordo di Renzo Vanni,
che mi aveva dato il suo libro [La Resistenza dalla Maremma alle
Apuane], un libro che aveva indignato Serantini. Aveva fatto
delle fotocopie del bando firmato da Almirante – la condanna a
morte dei renitenti della Repubblica Sociale – ed era corso a
distribuirle in tutti i quartieri della città. Vedi come si
manifesta la grande passione politica. In poco tempo Serantini
diventa cosciente. Che cosa era rimasto del ragazzo dell’orfanotrofio
di Cagliari?
Per uno che arriva a
Pisa e cerca di conoscere la sua storia colpisce come la memoria di
Serantini sia ancora viva, nel senso che lo conoscono più o meno
tutti, più o meno sanno della sua vicenda umana e politica, come te
lo spieghi?
Perché fa parte della
storia, delle viscere, della vita collettiva. Quella tragedia si è
trasmessa dai padri ai figli. Quel lungarno Gambacorti è diventato
un simbolo. La memoria è essenziale nella storia di una comunità. E
forse oggi i giovani ricominciano a voler conoscere le storie di chi
è venuto prima: la storia di Franco Serantini è la storia di un
loro coetaneo, sfortunato, vittima dell’ingiustizia. La storia di
una doppia morte. Quella di un ragazzo di vent’anni ucciso in modo
selvaggio dalla polizia e quella scritta dalle istituzioni dello
Stato che non fa giustizia perché non vuole processare se stesso.
(Franco Bertolucci)
“A
– Rivista Anarchica”, 2002
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