6.10.16

Canzonette. 1961: in Italia anche i granelli di sabbia facevano boom (Marilisa Merolla)

Quando nel 1961 l’Italia celebra i cent’anni di unità nazionale, la Repubblica è giovanissima. Non ha neanche sedici anni. Si è da poco gettata alle spalle il lungo sofferto dopoguerra; il faticoso processo di ricostruzione del paese si è concluso con l’esplosione di un improvviso e dirompente decollo economico, un vero e proprio «boom».
Negli anni del miracolo economico la musica leggera diventa un fattore vitale che contribuisce in maniera decisiva a mutare radicalmente il volto di un’Italia in via di laicizzazione; la canzone acquista i connotati di bene-simbolo delle nuove generazioni, investite dai nuovi ritmi travolgenti, al di là dell’estrazione sociale, della provenienza territoriale, delle appartenenze politiche, e trascinate in una esperienza collettiva, il cosiddetto teeneage takeover - la «presa di potere» dei teenager che hanno, per la prima volta, coscienza di sé come gruppo.
Si tratta delle ragazze e dei ragazzi che sono cresciuti durante i duri anni della ricostruzione economica del paese, ma che, a differenza dei padri e dei fratelli maggiori, non hanno vissuto i traumi del secondo conflitto mondiale e della Resistenza di cui solo i ventenni possono avere vaghissimi ricordi. In molti casi hanno trascorso parte della propria infanzia nelle fila delle organizzazioni sportive e ricreative dei partiti o delle parrocchie; ma, ancora per la maggior parte al di fuori da qualsiasi militanza partitica, non hanno assorbito - per il momento - la cultura dello scontro ideologico che negli anni Quaranta e per tutti gli anni Cinquanta ha avvelenato l’atmosfera politica italiana. Si affacciano all’età adulta in un’Italia più democratica che assicura loro un’inedita libertà di pensiero e non stupisce, dunque, che si dimostrino più pronti a recepire i miti del nuovo benessere, sintetizzato nell’«american way of life», entrata come simbolo nell’immaginario collettivo fin dagli anni Cinquanta.
Infatti, non è solo il miraggio di migliori condizioni di vita e di lavoro, ma anche le immagini sfavillanti e le nuove sonorità, veicolate da vecchi e nuovi media, che spingono irresistibilmente milioni di giovani a lasciare il sud agricolo e socialmente arretrato per raggiungere il nord, patria dello sviluppo industriale e della modernizzazione. In questo enorme flusso di migranti che segna la vigilia del boom, le diversità, le incomprensioni, le stesse sofferenze, pur incancellabili, si stemperano in qualche misura nella collettiva fascinazione per la nuova musica, emblema di libertà di rottura con la tradizione, di promessa per il futuro, ma, soprattutto, strumento eccezionale per esprimere e affermare la propria identità anche nelle più difficili condizioni. Negli anni del monopolio democristiano, la Rai-tv si trova nella controversa posizione di conciliare la spinta modernizzante che arriva dai nuovi suoni in gran parte americani con la più rassicurante tradizione canora nazionale. Il 18 maggio 1957, il primo festival di rock’n’roll, al Palazzo del ghiaccio di Milano, si era concluso con l’intervento violento della polizia, sorpresa e impreparata a fronteggiare una folla così imponente di ragazzi accalcati anche oltre i cancelli. Nell’ottobre dello stesso anno aveva debuttato su disco il precursore dei cosiddetti «urlatori», Tony Dallara che aveva sconvolto i canoni tradizionali del bel canto all’italiana - dei Claudio Villa, dei Luciano Tajoli, delle Nilla Pizzi - con il celebre «singhiozzo», generando scalpore e sgomento nella critica dell’epoca. L’anno successivo Domenico Modugno vincendo il festival di Sanremo con Nel blu dipinto di blu aveva interpretato lo stato d’animo dei tanti italiani, pronti a gettarsi alle spalle i sacrifici economici patiti negli anni della ricostruzione, euforici e desiderosi di «volare» incontro al benessere; magari alla guida delle nuove Seicento appena uscite dagli stabilimenti della Fiat, lanciate in corsa lungo i primi tratti autostradali che portavano alle località di villeggiatura, adesso non più mito irraggiungibile alle masse.
È la radio, prima ancora che la televisione, ad amplificare il clima di attesa e frenesia. Dagli studi di via Asiago parte un’inondazione musicale di nuove trasmissioni che non ascoltano solo i ragazzi, ma milioni di italiani ormai trascinati dal ritmo della vita moderna ad avere poche pause per un ascolto impegnato e attento. Sin dai titoli – Il Discobolo, Musica sprint, Ping pong, Flash - i programmi musicali vogliono evocare dinamismo, euforia, divertimento. Ma è la tv a instaurare un rapporto privilegiato con l’industria del disco: il ballo e non solo la canzone affascina gli italiani, ormai ipnotizzati dal piccolo schermo, dove ai ritmi sempre più sincopati delle musiche italiane e straniere ragazze e ragazzi si dimenano e si contorcono nel twist, nel madison, nel surf, nell’hully-gully, nello yè yè.
La stagione magica della canzone è l’estate che negli anni del boom acquista per un numero via via crescente di italiani, il significato di vacanza, al mare soprattutto. Legata a un granello di sabbia di Gianni Marchetti e Nico Fidenco (1961) non a caso è il primo 45 giri a superare la vendita di un milione di copie; e, poco dopo, Pinne, fucile ed occhiali di Edoardo Vianello, con tanto di suoni acquatici in sottofondo, diventa la colonna sonora che accompagna il mese o i quindici giorni di villeggiatura. Il disco non vive una stagione: in inverno viene consumato nei juke-box e nei mangiadischi dagli italiani che rivivono in città la solarità e la gioia dei giorni passati, del tempo libero, dei balli e degli amori. Anche le modalità del corteggiamento, profondamente mutate rispetto al passato repressivo, sessuofobico e moralista, trovano espressione nella musica, come dimostra il trionfo di Ventiquattromila baci di Adriano Celentano a Sanremo nel 1961, una canzone simbolo di un corteggiamento che insegue i ritmi dirompenti e le incontenibili dimensioni del consumo di massa. Non può mancare la consacrazione canora dell’automobile, protagonista indiscussa del boom economico: Andavo a cento all'ora di Gianni Morandi offre un esempio della commistione motore-amore, perdi più in rima baciata. Qualche anno dopo è la volta del telefono: con Se telefonando Mina celebra l’amore vissuto nella nuova era della teleselezione.
Non c’è però solo l’esaltazione del benessere e dei suoi totem. La canzone che interpreta la prima età dell’oro dell’Italia diventata potenza industriale, ne anticipa anche il lato oscuro, partendo naturalmente dall’amore che i consumi, la libertà il tempo libero e persino la ricchezza non hanno certo reso più semplice o più felice. Anzi, sembra quasi che il volersi bene, il comprendersi, l’amarsi e il desiderarsi sia diventato più complicato, più difficile, più irraggiungibile. Il malessere esistenziale, già affiorante anche tra i più giovani, è, all’inizio, colto soprattutto in canzoni che parlano dell’angoscia dell’attesa, delle partenze, degli abbandoni: Senza fine, Il cielo in una stanza, Sapore di sale parlano di solitudine, di infelicità e, per la prima volta, anche di relazioni sentimentali come possibili vie di fuga da un mondo che non si condivide più. Sono i nuovi poeti Gino Paoli, Umberto Bindi, Luigi Tenco a dare il segnale di una frattura nell’ottimismo trionfante che è destinata a farsi sempre più vistosa col trascorrere del decennio Sessanta. Nel mood sofferto delle loro sonorità c’è l’eco della sofisticata chanson francese, ma, ancora una volta, a prevalere nella tensione emotiva e nella vena malinconica dei loro versi e delle loro note è l’influenza del jazz e del blues d’oltreoceano.


“alias il manifesto” 28 gennaio 2012

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