Luca Lazzareschi e Gaia Aprea nello shakespeariano "Antonio e Cleopatra" (2014) |
Dalla esuberante
fioritura nel dopoguerra, l’anglistica italiana si è dedicata a
Shakespeare con passione. Tutto Shakespeare doveva essere divorato da
folle di lettori che nel ventennio si erano nutrite a sazietà del
Giulio Cesare (chi il preferito tra Cesare Bruto Antonio?). Il
Maestro (alias Praz) ci diede la prima raccolta italiana di tutto
Shakespeare fatta da traduttori vari, ormai dimenticata. Ma era stata
innestata la gara tra i suoi discepoli, Baldini, Melchiori, Lombardo,
D’Agostino che pubblicarono il loro Shakespeare presso grandi
editori. Oggi il movimento è al contrario: si vuole entrare nella
grande officina shakespeariana che elabora edizioni filologicamente
aggiornate, scopre altre misure critiche, difetti vecchi e glorie
nuove, e celebra un rito annuale a Stratford con studiosi che
arrivano da ogni parte del globo. Il Bardo è ormai poeta mondiale
che arricchisce teatri e accademie, ossessiona studenti, promuove –
lui che fece solo studi da liceale – brillanti carriere di
specialisti, fastosi convegni, romanzesche fantasie di editori.
Il gruppo di anglisti di
Roma Tre – che negli anni sessanta-settanta era stato promosso da
Baldini, Melchiori, Gentili, d’Amico – ha riavviato lo specifico
contributo italiano sui drammi romani o classici (Giulio Cesare,
Antonio e Cleopatra, Coriolano), aggiungendo quelli a
lungo dimenticati, Titus Andronicus e Cymbeline, sotto
l’intelligente guida di Maria Del Sapio Garbero: Rome in
Shakespeare’s World, da lei curato (Edizioni di Storia e
Letteratura, pp. 289), coadiuvata da studiosi illustri italiani e
stranieri. Un loro precedente ricco contributo, Identity,
Otherness and Empire in Shakespeare’s Rome del 2009, sempre a
cura di Del Sapio, ha affinato e completato il giudizio che nel 2000
Sergio Perosa aveva dato sui tre drammi romani: «Parte del fascino
con cui si presenta il mondo romano sta proprio nella sua violenta
attualizzazione, nelle luci come stralunate che assume, nel suo
carattere più di fiaba vissuta che di realtà storica; ma esso va
anche legato a quello di un periodo che cominciava a vedere la Storia
come sfida e problema perché esso stesso era intriso e costruito di
sfide e problemi». Erano relegati in una nota a piè di pagina il
Titus e Cymbeline, considerati opere minori. Ma già
nel 1978 Giorgio Melchiori, sempre molto attento alle mode
accademiche, aveva anticipato nel V volume del «Meridiano» da lui
curato l’inserimento del Titus. E lo giustificava in
considerazione del successo a suo tempo ottenuto per lo smaccato
gusto popolare, l’eccezionale vitalità drammatica, il sapore
grottesco. Al Titus è riconosciuto il carattere
arcaicizzante, ancor oggi alla base del teatro dell’assurdo e della
crudeltà. Frammenti di drammaturghi minori quali Peele e Lyly,
«precipitati in una Chicago elisabettiana-bizantina» annotò il
giovane Manganelli.
La secolare storia della
grandezza e decadenza di Roma ha lasciato una ricca testimonianza di
grandiose rovine e straordinarie storie di trionfi e crolli, vittorie
e sconfitte, ideologie e sistemi che si susseguirono e si
cancellarono a vicenda. Non tanto l’idea mentale di Roma proposta
da Freud, e poi da lui stesso corretta, fu rappresentata sulla scena
elisabettiana, quanto la più duttile e plasmabile materia del mito
di Roma (monarchica, repubblicana, imperiale ). Il teatro di Seneca
era presente su quella scena; Plutarco e Ovidio riecheggiavano
nell’inglese demotico di Shakespeare splendidamente evocativo. I
suoi strumenti erano quei personaggi più grandi della vita,
Coriolano, Cesare, Bruto, Antonio, violentemente proiettati verso il
pubblico, però aureolati di quell’altrove da cui provenivano. La
toga insanguinata di Cesare – come le disiecta membra della Roma
antica – riportano il presente della scena a quel presente
angosciante della grande Storia che non si esaurisce mai. I drammi
romani scolpiscono in ordinata sequenza la parabola tragica del
potere che si consuma mentre trionfa – questo il monito, l’aggancio
con il protervo pubblico londinese.
Cymbeline assicurava che
il mito di Roma era risorto, l’aquila imperiale in volo nel fulgore
della gloria annunciava la translatio imperii sul suolo britannico, e
di conseguenza sul nuovo mondo oltre l’Atlantico. «Roma per
Shakespeare (e i suoi contemporanei) – conclude Del Sapio –
offriva uno spazio per meditare su problemi importanti come il tempo,
la memoria, le radici, la rovina, i miti di fondazione, le forme di
governo, le relazioni tra la città e l’io, la tragica dimensione
della storia e delle azioni e ed emozioni umane». I successivi
neoclassicismi fissarono l’immagine icastica dello stato di diritto
nei tanti Campidogli disseminati in Europa e in America. Oggi i
drammi romani tornano a interrogarci con vigorosa eloquenza.
Shakespeare aveva fatto bene la sua parte.
“il manifesto”,
21/10/2018
Nessun commento:
Posta un commento