10.3.13

Arnold Zweig. Mitteleuropa ferita e fiele antiebraico (Bruno Ventavoli)

Nella letteratura mitteleuropea del Novecento ci sono due Zweig, pressoché contemporanei. Del primo, Stephen, biografo e scrittore di storia viennese e molto asburgico, autore del nostalgico e bellissimo Il mondo di ieri, c’è già traccia in questo blog; del secondo, Arnold, nato ebreo in una città polacca della Bassa Slesia che a quel tempo sotto la giurisdizione della Germania imperiale, conoscevo vagamente l’esistenza e le simpatie sioniste. Il ritaglio che qui “posto”, un elzeviro da “La Stampa”, ne ricorda e ne racconta un dramma su un evento storico degno di attenzione, una sorta di affare Dreyfus ungherese. Non so se potrò mai leggere (o se vedrò rappresentato) il testo in questione: il tempo è poco ormai e tanti i vuoti da riempire; ma ricordarne qui l’esistenza non mi pare inutile. (S.L.L.) 
Il processo di Tiszaeszlàr in un disegno dell'epoca

Nel 1882, nel villaggio di Tiszaeszlar, scomparve una giovane contadina. Dato che non si trovarono colpevoli, la comunità ebraica locale venne accusata di aver rapito la fanciulla per compiere un sacrificio rituale. Nella Duplice Monarchia della Belle époque, riaffiorava così l'«accusa del sangue», la menzogna servita così tante volte a pretesto di furori antisemiti. Fu una sorpresa, perché l'Ungheria era uno dei Paesi all'avanguardia nel riconoscere i diritti dell'emancipazione ebraica. Ma fortunatamente trovò subito l'energia per sconfiggere il ritorno dell'infamia. Dalla parte degli ebrei, sottoposti a torture e vessazioni in carcere, si schierarono i migliori intelletti del Paese, come Lajos Kossuth (dall'esilio), il giurista letterato Karoly Eotvos, lo scrittore Gyula Krudy. E l'innocenza degli imputati venne infine dimostrata.
La follia di quel processo colpì un giovane scrittore ebreo tedesco, Arnold Zweig, che compose nel 1913 un potente dramma teatrale, Omicidio rituale in Ungheria (ora proposto dall'editore Guida, tradotto e curato da Paola Paumgardhen). Zweig era appena ventiseienne quando scrisse, era amico di Freud, ammirava Buber, conosceva Brecht. Compulsò gli atti del vero processo e riprodusse fedelmente la furia antisemita che esplose nel piccolo villaggio ai margini orientali del Paese, dove si mescolavano l'ignoranza della plebe, l'ottusità della nobiltà provinciale, il calcolo di politici ambiziosi che vedevano nel razzismo una facile scorciatoia alla conquista del potere. Perché anche allora, come oggi, nella politica era più facile ringhiare accuse strampalate, seminare odi, che attuare riforme serie.
Zweig si concentrò drammaturgicamente sulla tragedia del ragazzo torturato per spingerlo a deporre contro la propria comunità e il suo stesso padre. E si spinse anche a ipotizzare la colpevolezza di un barone locale cristiano che un po' per libidine un po' per sfortuna aveva causato la morte della vittima. Poi cancellò la versione troppo ardita. Restarono invece intatti il fiele antiebraico; le ferite di un mondo - quello mitteleuropeo - che cercava di tenere insieme popoli e religioni; i dilemmi universali della giustizia, di fronte agli uomini, a Dio, alla coscienze personali. Un altro scrittore di quelle parti, Franz Kafka, lesse l'opera di Zweig. Ne fu talmente colpito che pianse disperato. Scosso dall'odio antisemita e dalla complessità dell'identità ebraica, certo. Ma anche dalla violenza del destino che spesso istruisce processi metafisicamente assurdi nei confronti degli esseri umani. 
       
“La Stampa”, 6 aprile 2008

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