La syatua del Ruzante a Padova |
Citata, vezzeggiata,
invocata e rimpianta. La Lega Nord indica nella Repubblica
Serenissima il più alto grado di civiltà raggiunto dalla storia
veneta. Ma ne siamo certi? Una lettura meno superficiale e viziata da
ideologia dimostra che essa fondava la sua ricchezza e la sua forza
sullo sfruttamento del lavoro contadino perpetrato attraverso un
sistema fiscale che impoveriva fino alla fame gli abitanti dei
contadi e della terraferma in generale. Le magnifiche sorti del buon
governo erano monopolio dei raffinati e ricchi cittadini veneziani,
categoricamente esclusi invece i residenti dell’entroterra veneto
costretti a condurre esistenze infami. Venezia città capitale. Tutte
le altre, suddite. E sudditi erano soprattutto i contadini e i
miserabili delle plebi urbane. Lo sottolinea un testimone eccellente
di quel tempo. Rivolgendosi al potentissimo Cardinale Francesco
Cornaro,
Angelo Beolco, detto il
Ruzante, nella Seconda oratione scrive: «...E vi dirò di
più, che quanti stanno nel Pavano sarebbero venuti anche loro, se
non fosse che essi sono così secchi e così consunti dalla fame che
si potrebbero soffiar via e, come si dice, sono più leggeri di un
moscerino» e ancora «In conclusione, questo mondo è diventato come
una terra incolta. Guardate se vedete più un innamorato. Vi so dire
che la fame gli ha cacciato l’amore via dal culo. Nessuno osa più
innamorarsi, per non prendersi spesa in casa; e quei singhiozzi e
quei sospiri che si solevano trarre per amore, adesso si traggono per
la fame».
Siamo nel 1529. Pochi
anni prima era stata combattuta la devastante guerra di Cambrai che
contrappose le principali potenze europee alla ricchissima
Serenissima, già in possesso di un vasto impero sul Mediterraneo e
impegnata in una guerra di conquista della terraferma romagnola e
lombarda. Il Ruzante, l’esempio più alto e genuino del teatro
veneto nel Rinascimento,svela il rovescio delle immagini idealizzate,
trasmesse sino ad oggi dalla grande pittura veneta del '400-’500 e
da gran parte della letteratura ufficiale dello stesso periodo.
Descrive come il senso di superiore armonia della Repubblica si
fondasse sui sacrifici del ceto contadino, il gruppo iniziale del
successivo proletariato protagonista, alcuni secoli dopo, della lotta
di classe. Fame e miseria, carestie ed epidemie accompagnavano gli
anni '20 del 1500, epoca in cui la Dominante dovette far fronte a
tutte le sue risorse per affrontare le orde lanzichenecche che
devastavano le campagne del veronese e del bresciano arrivando fino
al bergamasco. Per sostenere gli ingentissimi oneri bellici lo stato
veneto ridusse le spese razionalizzando e centralizzando
l'amministrazione statale, prese denaro a prestito da privati,
sfruttò in tutti i modi il debito pubblico.
Non solo. Allora come
oggi, quel potere alienò i beni demaniali e gli uffici. Soprattutto
torchiò il più possibile i sudditi, aumentando le vecchie imposte e
introducendone di nuove, costringendoli a prestare grosse somme di
denaro allo Stato e a mantenere gli eserciti in armi. Spesso tutto
questo non bastava, così la bancarotta fu inevitabile.
Nulla di nuovo insomma
sotto il cielo. Gli aristocratici veneziani fondavano il loro
privilegio e ne traevano alimento per esercitare il loro indiscusso
potere. Una veloce analisi dell'imposizione fiscale rimessa in piedi
dopo la guerra di Cambrai lo dimostra. Dure le imposte applicate allo
Stato «da tera», ovvero ai territori dell'entro terra padano-veneto
che, assieme al Dogado e allo Stato da Màr, costituivano le tre
ripartizioni in cui era suddiviso lo Stato veneziano. Vi erano le
«gravezze» o «angherìe» e i dazi, come quello sul sale, riscossi
in funzione della ricchezza dei sudditi o del loro numero e imposti
con una quota fissa alle comunità ai corpi del contado o alle arti.
Per le sue guerre Venezia chiedeva ai sudditi della terraferma una
imposta diretta come la «dadia delle lance», calcolata in base al
valore dei beni posseduti e pagata da ognuno insieme al «corpo» a
cui apparteneva che poteva essere il corpo della città o quello del
territorio. Ad essa le comunità si opponevano in tutti i modi tanto
che all'inizio del ‘500 il gettito annuo dell'imposta era molto
ridotto e, comunque, non più adeguato alle necessità della
Serenissima. Sino al 1446 i veneziani la evadevano sistematicamente,
obbligando gli abitanti dello «stato da tera» a contribuire al loro
posto. I contadini e i piccoli proprietari, cosi magistralmente
rappresentati dal Ruzzante, erano stati rovinati dagli eserciti in
lotta che avevano devastato le campagne tanto che i più poveri si
trovavano costretti a vendere a prezzi bassissimi molta terra ai
cittadini facoltosi. Ed al danno si aggiungeva la beffa perché la
campagna, causa i vecchi estimi, continuava a contribuire anche per
le proprietà passate alle città tanto che nel 1516 si registrarono
tumulti e sommosse per il riaggiornamento degli estimi stessi.
In quell'anno a Treviso
il Podestà e Capitano Nicolò Vendramin avvertiva, ad esempio,
l'urgenza di una riforma degli estimi poiché «li poveri contadini
lo quali hanno alienato il suo, hanno etiam perso gli animali, et
bona parte de lor famiglie son mancate e minate. Et butandose sopra
l'estimo vechio, seguiria questo grandissimo inconveniente che
bisogneria astrenzer dicti contadini a pagar de cose che non hanno,
che seria un meter tuto el paese sotosopra».
Il territorio chiedeva
che i proprietari dei beni venduti dopo il 1509 pagassero
regolarmente le imposte col comune nel quale abitavano eliminando
così il tradizionale predominio della città sulla campagna che
aveva nel privilegio fiscale uno dei suoi cardini. La città di
Vicenza fornisce un esempio. Su un totale di 14000 ducati, nel 1518,
il riparto attribuiva 1539 ducati della dadia al clero, 4166 alla
città e ben 8322 al territorio.
Una palese ingiustizia
tanto che la Serenissima intervenne aumentando d'autorità la quota
della città di più del 30% e riducendo quella del distretto del
25%.
Oltre alla dadia delle
lance venivano imposti anche oneri personali come i lavori pubblici o
gli obblighi militari. I contadini erano reclutati come rematori,
soldati o guastatori. Scavare canali, realizzare gli argini o portare
legna giù dai boschi, erano lavori imposti esclusivamente ai
contadini che li dovevano svolgere gratuitamente. Se un Contarmi,
patrizio veneziano, o uno Zabarella, nobile padovano, possedevano a
Pernumia campi irrigati dall'acqua dei fossi che i distrettuali
tenevano puliti e che avevano eretto, ebbene quei signori non
pagavano alcuna moneta per quei lavori! Non bastassero le gravezze, i
Consigli cittadini, incaricati di rilevare la capacità contributiva
di ciascun residente del centro urbano e del distretto, aggiungevano
anche la tassazione locale.
Questa la panoramica
dunque, per quanto concisa, delle condizioni in cui versavano i
residenti dei contadi (leggermente diversa quella dei residenti nelle
città, soprattutto se nobili), nel corso della lunga dominazione
veneziana.
Nel 1997 i Serenissimi
occuparono il campanile di San Marco. Alcuni di loro provenivano
dalla pancia del più profondo nord-est, il basso padovano. Una cosa
è certa. I loro antenati, contadini padani, facce arse dal sole,
cappello di paglia in testa, abiti grezzi, bifolchi insomma, spesso
davanti al giudice per far valere i loro diritti contro gli
aristocratici veneziani, non avrebbero gradito la ribalderia dei loro
insipienti pronipoti!
“alias il manifesto”
14 gennaio 2012
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