Eraclito |
«Le origini della
filosofia greca, e quindi dell’intero pensiero occidentale, sono
misteriose». Con questa asserzione difficilmente contestabile
Giorgio Colli apriva, qualche anno fa, un suo libretto dedicato
appunto a svelare il mistero della Nascita della filosofia. Un
tentativo, il suo, notevole ma anche parziale, e comunque non più
che un capitolo di una lunga storia di ipotesi che ha affaticato non
solo gli specialisti professionali della storia della filosofia
antica, ma anche intellettuali di estrazione più diversa, da
Benjamin Farrington a quel singolare pensatore marxista che è Alfred
Sohn Rethel.
Particolarmente cruciale
la questione della nascita del pensiero filosofico è apparsa, ed è
ovvio, a quelli studiosi che si sono nutriti, in modo vario e in
differenti gradi di consapevolezza e approfondimento,
dell’insegnamento marxiano. Quale miglior banco di prova per una
concezione, il materialismo storico, che tra le sue ambizioni ha
quella di comprendere idee ed elaborazioni teoriche come risultati e
momenti dei più vasti processi nei quali gli uomini producono e
riproducono la loro vita sociale? Da questo filone di ricerca, e
forse soprattutto ai suoi margini e confini, sono emersi infatti
alcuni tentativi assai pregevoli di scrutare le cause economiche e
sociali della grande rivoluzione culturale che si avvia nella Ionia
del VI secolo avanti Cristo, e che vede il pensiero mitico cedere
lentamente il passo a quei modi di ragionare che più tardi saranno
designati come scienza e filosofia.
A parte gli studi ormai
classici di Rodolfo Mondolfo (alcune sue pagine centrali le ha
riproposte tempo fa Walter Leszl nella sua bella antologia sui
Presocratici, Il Mulino 1982) i tentativi più organici di
chiarire la genesi storico-sociale delle spiegazioni razionali del
cosmo (le più antiche, come tutti ricorderanno, sono quelle
attribuite a Talete, Anassimandro, Anassime-ne) li dobbiamo
all’inglese George Thomson e al francese Jean -Pierre Vernant.
Per Thomson (I primi
filosofi, Vallecchi 1973) la concezione del cosmo come unità il
cui differenziarsi è regolato da leggi e governato da un unico
principio generatore (l’acqua di Talete, l’illimitato di
Anassimandro, il fuoco di Eraclito), è indice di una mentalità
nazionale che ha i suoi natali soprattutto nello sviluppo della
produzione di merci e della moneta coniata. L’occhio ispirato del
filosofo lascia scorgere in trasparenza quello del mercante, che vede
nell’universo solo un gigantesco processo di circolazione di merci;
la sostanza unica, di cui parla il filosofo, è una specie di
trasposizione cosmica del valore di scambio; non per nulla il
frammento B 90 di Eraclito insegna che tutte le cose si scambiano col
fuoco e il fuoco con tutte le cose, come le merci con l’oro e l’oro
con le merci.
A questa linea, sulla
quale anche Alfred Sohn Rethel ha lavorato, a partire già dagli anni
’30, si contrappone, non senza qualche accenno polemico, quella di
Vernant; lo storico francese, innanzitutto, rifiuta la
sopravvalutazione dell’economia monetaria nel quadro della Grecia
arcaica; e inoltre, in molti studi importantissimi e appassionanti,
individua l’agente principale della razionalizzazione dell’universo
mentale nello sviluppo dei rapporti tra i cittadini nella polis.
La ragione discorsiva è figlia di una società dove la sovranità
non appartiene più a un individuo privilegiato e sacralizzato (il
re, il basileus), ma è posta in qualche modo nel mezzo, in uno
spazio pubblico al quale accedono ugualmente tutti i cittadini a
pieno diritto, e dove le decisioni (politiche, giudiziarie ecc.)
passano per procedimenti dialogici.
Nella discussione,
tuttora aperta, su questi problemi, si inserisce ora un libro di
Mario Rossi su Le origini della filosofia greca (Editori
Riuniti, Roma 1984); opera postuma dello studioso scomparso
nel ’78, e noto soprattutto per un suo monumentale Da Hegel a
Marx. Il volume è solo la primissima parte di un vasto progetto
di «storia sociale della filosofia», della cui mancata
realizzazione non c’è che da rammaricarsi grandemente. Infatti,
anche nelle non molte pagine che ne possiamo leggere, notevoli
appaiono i pregi del lavoro di Rossi, che ha innanzitutto il merito
di collocare le più antiche concezioni filosofiche nel contesto di
tutti gli altri aspetti dello sviluppo culturale, dalla religione
alla più antica poesia lirica, alla quale Rossi dedica pagine molto
istruttive.
Per quanto riguarda poi
la questione che specificamente ci interessa, quella delle basi
storico-sociali della rivoluzione intellettuale operata dai filosofi
di Mileto, va riconosciuto al libro di Rossi il merito di presentarla
in modo chiaro e originale. L’autore ci offre intanto la rapida
rilettura delle opposte interpretazioni dell’economia greca arcaica
che stanno alla base delle tesi di Thomson e di Vernant. Rossi ha
probabilmente ragionato quando, utilizzando anche il Marx delle Forme
che precedono la produzione capitalistica, invita ad andare oltre
le opposte unilateralità per riconoscere lo specifico dell’economia
classica proprio nella concordia discors o condizionalità
reciproca di economia cittadina ed economia agraria (sul primato
della quale, e quindi della ricchezza fondiaria e non monetaria,
aveva invece insistito Vernant polemizzando con Thomson).
Assai efficace
nell’evidenziare il nesso tra sviluppo economico e sviluppo
culturale è poi la rilettura che Rossi offre delle teorie
cosmologiche della scuola di Mileto e del loro sostrato sociale. La
teoria scientifica e filosofica compie i suoi primi passi, non per
caso, in una colonia greca dell’Asia minore che è tra le prime a
conoscere la moneta coniata e lo sviluppo commerciale, e che esercita
una vasta rete di influenze intrattenendo rapporti
economico-culturali con molte città del Mediterraneo, fondando essa
stessa numerosissime colonie. Non meno significativo è un punto che
di solito viene piuttosto trascurato, e al quale invece Rossi
attribuisce molta importanza: lo sviluppo economico e commerciale
agisce subito come potente dissolutore della stabilità del potere
oligarchico, produce un’aspra contraddizione sociale tra i
detentori della ricchezza agraria e commerciale da un lato, e
dall’altro i contadini impoveriti e il nascente proletariato
cittadino, occupa-to nelle prime emergenze di produzione industriale
e nella navigazione.
È questo il quadro
sociale in cui appare per la prima volta la figura del
filosofo-scienziato: un uomo dedito alla pura ricerca intellettuale
che va in giro insegnando le sue spiegazioni sulla natura del cosmo e
sul moto degli astri; che prende parte alla vita politica e alle
discussioni della città, magari nel ruolo di sapiente consigliere;
che non disdegna (molti gli esempi riportati dalla tradizione a
proposito di Talete) di sviluppare possibili applicazioni pratiche
del suo sapere fisico e geometrico.
Le prestazioni del
filosofo (termine che forse a questo punto andrebbe ancora messo tra
virgolette) rispondono, e Rossi lo evidenzia giustamente, a problemi
che nascono dalla vita politica ed economica della città. Non solo
egli propone risposte nazionali alle contingenze politiche (vedi
l’idea attribuita a Talete di costituire una confederazione tra le
città ioniche), ma le sue ricerche scientifico-naturalistiche si
collegano ai bisogni della vita produttiva e commerciale e
addirittura, secondo Rossi, si basano sull’utilizzazione di «quella
stessa osservazione sperimentale che è servita al progresso della
produzione economica, ovvero della trasformazione economica delle
condizioni di vita» (p.120).
C’è tuttavia da
chiedersi se una simile immagine, tutta centrata sul nesso sviluppo
economico -sviluppo scientifico, non sia un po' semplificatrice e
forse un po' troppo ottimistica. Le spiegazioni scientifiche dei
primi pensatori naturalisti sono infatti certamente di tipo razionale
argomentativo (e superano quindi almeno la forma della narrazione
mitica) ma non sembra si possano definire senza forzatura come
scientifico-sperimentali. Di esperimenti, anche di quelli
semplicissimi che sarebbero stati alla loro portata, i primi
naturalisti non s’interessarono per nulla (vedi le pagine di F.M.
Cornford e il commento di Leszl nell’antologia che prima citavo), e
le loro rappresentazioni del cosmo potrebbero anche sembrare prodotti
di una sconfinata presunzione intellettuale, o generalizzazioni
arditissime di fenomeni osservati in campi specifici e limitati. Più
volte, ad esempio, è stata notata la massiccia presenza di modelli
tratti dalla vita sociale alla base delle spiegazioni cosmologiche,
dove intervengono termini come discordia, giustizia, pena, che
rimandano certamente alla pratica giuridica, e più ancora alle lotte
sociali ad esito alterno che scuotono le città arcaiche, e tra
queste Mileto.
I primi filosofi,
insomma, sembrerebbero non meno scienziati che ideologi: quando
Anassimandro immagina il cosmo come retto da una legge di giustizia
che si ristabilisce sempre di nuovo attraverso la sopraffazione
violenta e la sua ineluttabile espiazione, non fa forse che fornire
la più antica interpretazione del conflitto sociale, riconoscendolo
come ineluttabile e al tempo stesso legittimandolo e trasponendolo a
legge cosmica.
D’altra parte, quando
quegli ideologi della polis che sono i primi filosofi pretendono di
ridurre ad un concetto unico e semplice il principio, l’arché
che governa la totalità dei fenomeni, compiono un’operazione che
andrebbe vista in modo più critico e demistificante in quanto Rossi
non faccia. Certamente essi assumono almeno, all’inizio un ruolo
«illuministico», fornendo ai cittadini della polis un’immagine
del mondo capace di scalzare quelle mitiche e teogoniche. Ma come non
vedere in tutto ciò anche un momento di vanagloriosa autoapologia
dell’intelletto separato, che presentandosi come monopolista del
discorso vero diventerà in qualche modo l’erede di quella sapienza
sacrale di cui i re-maghi e i veggenti si erano in precedenza
arrogati il possesso?
Certo, sarebbe bello
saperne di più sulle concrete condizioni sociali in cui i primi
filosofi operarono (anche se non mancano utili analisi in questa
direzione, come per esempio quelle di Vegetti su Parmenide).
Tuttavia, dato che pur sempre tra ipotesi dobbiamo muoverci, ci piace
ricordare quella di uno che specialista non era, ma cui non mancava
un occhio acuto per i nessi tra fatti sociali e fenomeni
intellettuali. Le «ciarlatanesche vanterie» dei filosofi
presocratici, il loro presentarsi come depositari di un sapere
superiore e onnicomprensivo, il loro disprezzo per la moltitudine, la
loro pretesa di sovranità, sono già — sosteneva Adorno —
manifestazioni della contraddittoria e incerta situazione
dell’intellettuale autonomo, «sono il lamento, che tenta di
soffocarsi con la positività, di colui che né contribuisce alla
riproduzione reale della vita, né può partecipare veramente al
dominio su di essa, bensì è soltanto una terza persona che vende e
decanta ai dominatori il loro mezzo di dominio, lo spirito tradotto
praticamente in metodo. Ciò che costoro non hanno, lo vogliono per
lo meno nella fata morgana del loro ambito di competenza, dello
spirito: l’inconfutabilità rimpiazza per loro il dominio, fusa col
servizio che essi effettivamente rendono, il loro contributo al
dominio sulla natura».
“il manifesto”,
ritaglio senza data, probabilmente 1984.
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