Renato Caccioppoli in un'aula dell'Università di Napoli con studenti e ricercatori. Accanto a lui il prete Savino Coronato, collaboratore all'Istituto di Matematica |
Lo vidi per la prima
volta a Roma nell'agosto del 1939. All'indomani della morto di
Gaetano Scorza ero nella casa in lutto. La porta si aprì ed entrò
nella stanza un uomo che affascinò la mia attenzione pur nel
turbamento. Alto, di una magrezza eccezionale quasi terrificante,
appoggiato ad un bastoncino dritto di antica foggia, giovane il volto
ma emaciatissimo, due occhi fondi intelligenti e buoni sotto un
ciuffo di rari capelli che ogni poco scostava con mano sensibile. Una
figura (mi sembrò in quell'attimo) d'altro paese d'altro tempo, un
uomo che viveva in un altra regione dello spirito, più elevata e più
dolente della nostra.
Lo ritrovai amico vicino
qualche anno dopo (ma quali anni), attorno al 1946 a Napoli. Che in
lui vi fosse altro, anche allora percepivo, ma indubbiamente quella
della repubblica delle prime battaglie nella libertà riconquistata,
non senza un suo personale contributo e sacrificio fu una delle
stagioni più piene nella vita di Renato Caccioppoii e forse la più
felice o meno tormentata. Il piccolo bellissimo suo appartamento a
palazzo Cellammare, dove in ogni cosa vi era traccia di una creatura
eccezionalmente sensibile e intelligente era uno dei punti di
ritrovo, di sosta e di preparazione degli uomini più notevoli del
movimento rivoluzionario operaio, dei comunisti in particolare.
Renato Caccioppoli era
senza dubbio un genio. La testimonianza più duratura della sua
genialità resta consegnata ai suoi scritti di matematica che hanno
fatto di lui uno dei più grandi analisti della nostra epoca, la
testimonianza invece nella sua genialità in tanti e tanti altri
campi — musica, letteratura, storia, filosofia, penetrazione
dell'animo umano — resta affidata al ricordo degli amici che gli
furono compagni nelle passeggiate napoletane.
“Genio”
abbiamo detto, “genio romantico” vorremmo aggiungere. In Renato
c'è sembrato infatti troppo spesso di scorgere non già l'uomo che
adopera il suo ingegno ma un pensiero (un «genio») che domina e
possiede un uomo. Egli parla a parlava instancabile per ore ed ore ma
sempre inquieto sempre «posseduto», quasi che da un momento
all'altro il ricamo sottile delle connessioni dovesse spezzarsi e
sfilacciarsi. E invece no, Renato riusciva sempre a far scorrere e
intrecciare armonicamente le idee in corsa veloce ma non in fuga.
Quando tratteneva lamico
per un ultimo problema, per un ultima escursione intellettuale prima
di salutarlo a tarda notte chiedeva tacitamente di non essere
lasciato a terminare solo il viaggio attraverso la notte, solo nella
sua stanza a palazzo Cellammare ad ascoltare al termine di ogni
notte, tra l'ombra e la luce il ritmico scavare dell'altro al
di là del muro o forse dentro di sé.
Perché chiedere a
Renato, quando ce lo diceva, che nome dare all'altro? Lo chiediamo
forse a Kafka, al poeta dell'angoscia quando leggiamo La tana?
Forse l'ombra che scende piano su ogni vita, forse il logoramento, la
tristezza eguale di una vecchiaia solitaria, il sapere che è tardi,
troppo tardi per vivere «nel solo» come gli amici più modesti ma
più amati e più invidiati affettuosamente invidiati. Perché doveva
dircelo Renato quando ce lo aveva detto da sempre ogni volta che ci
parlava con amore e invidia del suo Evaristo Galois il genio
romantico dolente e solitario che gli Dei amarono perché vollero che
morisse giovane?
Se Renato per tante sere
ha avuto la forza di affrontare il lungo viaggio attraverso la notte
l'ha trovata forse perché sapeva che poteva morire, se lo voleva.
Finché c'è morte ci speranza.
"l'Unità", 12 maggio 1959
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