Emile Zola |
Verso la fine di Madame Bovary c'è una scena di ambientazione cimiteriale in cui si avverte tutto il nichilismo scettico di Flaubert. Il giovane Justin, innamorato della protagonista e strumento involontario della sua morte (le ha procurato il veleno), si reca di notte sulla tomba ancora fresca, per dare sfogo alla propria disperazione; viene però sorpreso dal sacrestano-becchino, Lestiboudois, che lo scambia per un ladro di patate: la grettezza economicista smonta dunque ironicamente l'amore romantico, puro e adolescenziale. In una lettera a Capuana del 1874 un Verga non ancora verista sceglie proprio questo episodio per motivare il suo scarso apprezzamento del capolavoro di Flaubert, di cui non ama lo scetticismo, il relativismo ideologico, il carattere solo sensuale del realismo (ma pochi anni dopo queste osservazioni negative si ribalteranno in principi di una nuova poetica).
Proprio da questa lettera di Verga prende le mosse l'affascinante percorso tematico attraverso il romanzo naturalista offerto da Pierluigi Pellini nel suo In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo (Le Monnier, pp. 264, Euro 17). Un percorso che si incrocia e si contamina di continuo con la storia delle mentalità, con l'analisi dei discorsi sociali di Foucault, con la critica della modernità di Benjamin, con la narratologia di Philippe Hamon; e che attinge alla matrice fornita dagli studi di Remo Ceserani, capace di leggere il testo letterario sempre in parallelo con le trasformazioni della vita materiale. Una tra le reazioni più diffuse al formalismo esasperato dei decenni passati si è risolta, appunto, nello studio dei temi letterari: è un approccio al tempo stesso dotato di grande vitalità ma anche del rischio di scadere nel mero contenutismo - come il famigerato studio sul cavallo in letteratura su cui ironizzava Leo Spitzer; a meno che non si scelgano oggetti di rilevanza antropologica, idonei a attivare una rete di risonanze sul piano delle tecniche espressive, delle implicazioni psicoanalitiche, dei discorsi sociali. È questa infatti la scelta di Pellini, che avvia il suo percorso con la rappresentazione della morte, mettendola in relazione con il finale dei testi.
Far terminare i romanzi «ammazzando l'eroe» era una soluzione contraria ai programmi del naturalismo, che rifiutava nettamentei tutti gli artifici classici del romanzesco e del melodramma, e preferiva lasciare aperto il finale, come è aperto il flusso della vita. Ma nello stesso tempo i romanzi naturalisti pullulano di scene di morte, e la scelta del registro medio, accordato al grigiore del quotidiano, non può rischiare la perdita di interesse per il lettore, motivo per cui si giunge a un compromesso dinamico, ossia a una serie di strategie che neutralizzino il pathos. Ad esempio: mettere «in sordina» la morte, come nel finale dei Buddenbrook, in cui Thomas muore a causa di un antieroico mal di denti; o nel finale dell'Assomoir, tutto condotto da un punto di vista basso e comico; focalizzarsi sul trionfo della materia e sul corpo in decomposizione, analizzato con fredda impersonalità, come nel finale di Nanà di Zola; o ancora ridurre il morto al suo patrimonio, come nel finale di Mastro don Gesualdo. Sono tutte soluzioni con cui il naturalismo sembra preannunciare quella rimozione della morte che, secondo il famoso saggio di Ariès, caratterizza l'epoca moderna e postmoderna. E a risultati simili Pellini giunge analizzando anche la rappresentazione naturalista dei cimiteri, sempre ispirata da una radicale desacralizzazione: sia che enfatizzi il ciclo biologico e la trasformazione del cadavere in linfa vegetale, sia che ribalti la cristallizzazione monumentale descrivendo la ristrutturazione delle necropoli, sia che dipinga lo smottamento delle zolle come un sommovimento quasi animistico della materia.
Parlare di un compromesso dinamico fra la teoria e la prassi del romanzo naturalistico significa superare l'idea che i programmi restassero lettera morta, ma anche il rigore indifendibile dell'ortodossia. Pellini mette giustamente in rilievo come per Zola siano vitali tanto il momento teorico (troppo spesso si dimentica che i suoi scritti hanno influenzato anche un grande critico stilistico come Auerbach), quanto le ossessioni personali «represse» dai suoi programmi. Analizzando e pubblicando tutti gli abbozzi preparatori dei suoi romanzi, la cosiddetta critica genetica ha creato il mito di un Zola nascosto e più autentico; ma se si legge, ad esempio, l'Assomoir ci si trova di fronte a un mediocre romanzo d'appendice, con tanto di melodrammatici colpi di scena. Insomma Zola non è Tasso: non è un autore che riscrivendo la sua opera ha sacrificato all'ideologia controriformistica il meglio della sua poetica, perché invece è dal suo super-io sperimentale e positivistico che è venuto un contributo decisivo alla storia letteraria.
L'universo del romanzo naturalistico è più ricco di tensioni e contraddizioni di quanto si creda: tensioni che risultano lampanti nel capitolo dedicato da Pellini alla follia, ovviamente il più foucaultiano del libro. Da un lato Zola appare ancora saturato da un'immaginazione tardoromantica, attratta dal crimine e dalla devianza, dunque da tutto ciò che eccede la norma; dall'altro la sua poetica lo spingeva a «faire typique», a privilegiare la medietà, la quotidianità priva di scosse. D'altronde, il concetto di tipico è polivalente: può avere l'accezione della banale insignificanza, come in Flaubert, o dell'eccezionalità rivelatrice di uno spaccato ambientale, come nei Goncourt. Sull'onda dell'evoluzionismo darwiniano è comunque l'idea di un'universalità metastorica dell'arte, su cui si erano basate tutte le teorie del tipico - da Aristotele in poi - a entrare in crisi. La patologia mentale, per esempio, è all'origine di tutto l'edificio dei Rougon-Macquart, e ha ispirato a Zola alcuni dei suoi capolavori, come il finale dell'Assomoir o La bestia umana, in cui i discorsi contemporanei sul controllo sociale della follia sono rispecchiati, ma anche incrinati e quasi messi in discussione. Echi della psichiatria contemporanea si avvertono anche nella metafora, che dà titolo al saggio di Pellini, con cui Zola visualizza il suo programma letterario, richiamandosi a una mistica dell'edificio tipica della narrativa fra Otto e Novecento, piena di romanzi-cattedrale. Nella Follia lucida di Ulysse Trélat il manicomio è definito infatti «casa di vetro», in grado di offrire piena visibilità ai malati.
I temi si intersecano di continuo con quelle entità fluide e fluttuanti, ma essenziali per l'interpretazione della letteratura, che sono i generi. Pellini termina il suo itinerario affrontando tre interessanti sottogeneri: il romanzo storico, in linea di principio incompatibile con la poetica naturalista, ma praticato in forme ibride e peculiari; il romanzo familiare, in cui svetta quel capolavoro ancora troppo trascurato che è i Viceré di De Roberto, con le sue inversioni logiche e narrative, e con il suo senso di tragica coazione a ripetere; e infine il romanzo industriale, in cui si profilano nuclei tematici come l'energia e l'entropia della storia, il luddismo, la rappresentazione androgina del potere, che avranno grandi sviluppi nel postmoderno.
“il manifesto”, 17 giugno 2004
Nessun commento:
Posta un commento