Rocco Ronchi, subito dopo le elezioni del 2008, riprendendo un interrogativo di Bertinotti sull’incapacità comunicativa della sinistra, ragiona di mobilitazione di masse e di miti mobilitanti fino a porsi la domanda se i miti moderni non siano fascisti per natura. Sugli stessi temi si erano interrogati Furio Jesi e, quarant'anni prima, Bataille, Caillois e gli altri «congiurati» raccolti intorno alla rivista «Acéphale». Ronchi compie una ricognizione sulle loro drammatiche investigazioni per giungere ad una sorta di proposta, a un’ipotesi di lavoro. Da leggere (S.L.L.)
In una intervista pubblicata alla vigilia delle elezioni che avrebbero segnato l'azzeramento della sinistra radicale e il trionfo della peggiore reazione, Fausto Bertinotti lamentava una grave crisi nella capacità comunicativa della sinistra italiana. Le proporzioni della disfatta, l'onda lunga e nera che ha generato, costringono a una riflessione radicale sulla natura di questa crisi che, a differenza di quanto credono gli operatori del marketing elettorale, non è riducibile alla ben nota difficoltà di far arrivare alla base un «messaggio» convincente e chiaro da parte di gruppi dirigenti sempre più distaccati dalla realtà. Comunicare, infatti, non è trasmettere. Nel suo senso proprio, significa creare un luogo comune in grado di «legare» una comunità, anche minoritaria, dando ad essa identità e riconoscibilità. Comunicazione è questa produzione di un senso comune, il quale, come una stella cometa, deve poter orientare in modo quasi irriflesso la concreta prassi politica, fungendo da tacito e indiscutibile presupposto.
Quel che scrisse Sartre
Il «comunismo» (che è altra cosa dal «marxismo») nella storia italiana del dopoguerra è stato soprattutto la lenta sedimentazione nelle coscienze di milioni di persone dell'immagine condivisa di una comunità: una comunità alternativa a quella data, della quale i «comunisti» denunciavano proprio la carenza di legame, la dispersione atomica degli individui e la loro trasformazione in elementi sostituibili al servizio del capitale. Bene lo spiegava Sartre, nel primo tomo della Critica della ragion dialettica, un libro che apparve all'indomani della catastrofe ungherese e che si rivolgeva «da sinistra» ai marxisti. L'analisi sartriana della pratica rivoluzionaria era imperniata sulla opposizione tra due tipi di «insiemi pratici»: il «collettivo», che è caratterizzato da serialità e fungibilità, nel quale ognuno è anonimamente come gli altri, e il «gruppo in fusione» rivoluzionario, che è invece alimentato dal calore bianco di un fuoco comunitario. A differenza del collettivo, che è in una «relazione di esteriorità» con i suoi elementi, il gruppo, al pari della sostanza di Spinoza che per esistere non ha bisogno di nulla all'infuori di sé, insiste invece come un tutto in ognuno dei suoi «modi».
Da Kéreny a furio Jesi
Il «militante» insomma non è mai solo: l'assoluto della Storia, del Partito, della comunità a venire, è sempre con lui. Anzi è lui, pervade ogni fibra del suo essere, non essendo il militante altro che una «incarnazione» del gruppo: un individuo comune. Gli stessi orrori del comunismo erano spiegabili, secondo Sartre, alla luce di questa dialettica: il terrore rosso era da intendersi come feroce «totalizzazione» delle differenze individuali che minacciano di incrinare l'unità mistica del gruppo. La crisi della capacità comunicativa della sinistra italiana è allora qualcosa di ben più grave di una semplice incomprensione della realtà e delle sue modificazioni. È una crisi che investe il piano simbolico. Ad essersi inceppata, in modo forse definitivo, è la «macchina mitologica» della sinistra, la sua capacità di produrre un luogo comune e del senso condiviso. E tanto non funziona più a sinistra quanto «marcia» perfettamente sul fronte opposto. Un fatto, questo, in grado di spiegare meglio di qualsiasi analisi socio-economica il travaso di voti da uno schieramento all'altro. Il desiderio di comunità - un desiderio al quale si è disposti a sacrificare perfino il proprio interesse personale (gli operai che votano Lega...) - resta infatti una grandezza invariante che può essere soltanto diversamente distribuita tra le forze in campo.
Per trovare una ragione che rendesse conto della fascinazione fascista Furio Jesi, il germanista studioso del mito e della cultura di destra, aveva coniato l'espressione «macchina mitologica» e quando la utilizzò, nel 1977, erano ormai passati quarant'anni dai problemi che avevano tormentato il gruppo di dissidenti comunisti e surrealisti raccolto dal 1936 al 1939 intorno alla rivista «Acéphale». Collegata alle attività del Collegio di sociologia, fondato nel '37 da Georges Bataille, Roger Caillois e Michel Leiris, la rivista si poneva gli stessi obiettivi, sebbene proiettandoli su un piano più speculativo: non si trattava solo di spiegare l'origine del contagio che, partendo dall'Italia, attraversava la civile Europa, ma anche di preparare le armi più efficaci per combatterlo. La «sociologia sacra» non era, insomma, il nome di una nuova disciplina, bensì una professione di antifascismo militante.
Dal suo maestro Károly Kéreny, Furio Jesi aveva ripreso la nozione di «mito tecnicizzato», vale a dire di mito imbastardito escogitato per mobilitare quelle masse che, come il loro stesso nome indica, sono caratterizzate da una inerzia costitutiva. I fascisti italiani avevano compreso che la tendenza all'immobilismo delle masse poteva essere vinta solo riaccendendo il più inattuale dei fuochi, quello che due secoli di critica illuminista avrebbe dovuto da tempo spegnere. La ragione era infatti impotente a muoverle e a commuoverle. Non solo il Thomas Mann del Doctor Faustus ma anche la più avveduta storiografia contemporanea - da Zeev Sternhell a Emilio Gentile fino al recente Avant-garde FASCISM di Mike Antliff - è ormai concorde nell'individuare il battesimo del fascismo europeo nella rivalutazione del mito da parte di Georges Sorel. Il mito - secondo la diagnosi fatta dal filosofo francese in Riflessioni sulla violenza - era infatti il solo fondamento capace di indurre alla mobilitazione, e siccome il mito è fondato sul rapporto con l'arcaico, la sola mobilitazione effettiva si riduce, di fatto, alla mobilitazione reazionaria. Di certo, quel che veniva chiamato in causa non era il mito autentico che, traducendosi in sublime poesia, estasiava colti umanisti come Kérenyi. Se ne rese ben conto, peraltro, anche lo stesso Jesi, in saggi che segnarono il suo violento distacco dal maestro, riflettendo sul fatto per cui una macchina mitologica non ha affatto bisogno, per funzionare, che al suo interno si celi una immagine del dio. Funziona benissimo anche senza quella immagine. Funziona anche se dio è morto o è assente. Secolarizzazione, desacralizzazione e demitizzazione, il «moderno», insomma, non scalfiscono la macchina mitologica.
L'eredità dei congiurati di sinistra
L'importante, scrive Jesi in pagine memorabili, è che dalla macchina fuoriesca una musica «che faccia danzare», che trascini cioè piedi stanchi in un ritmo che, come il sogno, non presuppone coscienza, distanza, critica. La macchina mitologica è una macchina onirica che, mobilitando le anime, crea un «luogo comune» condiviso.
Ed è una macchina enunciativa: la sua musica è, come ogni musica, fatta di «frasi» che sono come ritornelli capaci di catturare la mente costringendo a una ripetizione ottusa: basta, per verificarlo, che si sfogli la nostra stampa e si ascoltino i nostri telegiornali. Prima di tutto la comunicazione è questa danza che celebra l'esserci della comunità. Ogni etnologo che abbia lavorato sul campo lo può confermare.
In Spartakus. Simbologia delle rivolta (Bollati Boringhieri), ragionando sulla insurrezione berlinese del 1919, Jesi si interrogò anche su un possibile funzionamento alternativo della «macchina». Quei rivoluzionari comunisti che volevano sospendere l'ordine del tempo, identificato con quello dell'oppressione, attingevano anch'essi ad un mito «tecnicizzato». La rivoluzione, insomma, incrocia la storia, ma non le appartiene interamente. A differenza del fascismo, tuttavia, il «luogo comune» che sogna - il comunismo come «sogno di una cosa» - è una comunità di uomini liberi e la dea che onora è la ragione.
Quarant'anni prima, in qualità di testimoni dell'epidemia fascista, Bataille e gli altri «congiurati» di sinistra raccolti intorno a «Acéphale» si erano interrogati su questi problemi che sono ancora i nostri. Data la crisi comunicativa della sinistra (che per loro era evidente nella torsione sostanzialmente fascista del comunismo staliniano e nell'impotenza della sinistra parlamentare) e data la necessità della comunità, senza la quale resta solo quella caricatura di uomo che è l'individuo astratto dal legame sociale, come inceppare la macchina mitologica fascista?
È possibile un altro mito, alternativo a quello fascista, oppure il mito, nella modernità, è fascista per natura? È possibile una «comunicazione» che sia emancipazione oppure la comunicazione è soltanto produzione di un legame, di un «fascio», di una «lega», di una identità posticcia e violenta?
L'impossibile comunità
Bataille esitò a lungo tra queste ipotesi. Tra i suoi compagni di strada, Roger Caillois fu quello che si mostrò più ottimista e anche più ingenuo. Per lui era insomma possibile rifare «da sinistra» quello che era stato fatto dalla destra fascista (e, prima di tutti, dai seguaci di Sorel) e cioè mobilitare con il mito masse rivoluzionarie. Lo battezzò un «sublime socialmente imperativo», ma le sue raffinatissime analisi delle pulsioni mitologiche che attraverserebbero le masse metropolitane, rendendole permeabili a un contagio del sublime, altro non erano che una brillante fenomenologia del fascismo incipiente. La macchina mitologica, sposandosi con i nuovi media della comunicazione di massa, continuerebbe di fatto a funzionare in una sola direzione.
Tutt'altra era la consapevolezza della situazione che Bataille andava maturando. Proprio lui, che aveva dato il via all'impresa del Collegio e di «Acéphale», sembrava persuaso che, sul piano pubblico, il fascismo nella modernità avesse sempre l'ultima parola. L'aggettivo che più spesso ritornava nella sua prosa per qualificare la natura di una comunità finalmente libera è infatti «impossibile». Negli ultimi trenta anni brillanti filosofi hanno versato fiumi di inchiostro a proposito di questo aggettivo. Il senso di quella impossibilità è tuttavia chiaro ed è un senso tragico: non si dà nessuna libera comunità che sia effettuale, non si dà luogo comune che possa aspirare a farsi in senso lato «stato». Appena esso si dà è già immancabilmente perduto (i membri del Collegio rifletterono a lungo sul senso mitologico dell'imbalsamazione di Lenin nel 1924).
Sotto il segno dell'Acefalo
Non resta allora che la comunità «inoperosa» (e vagamente aristocratica) di chi si sa irrimediabilmente sconfitto sul piano della storia effettuale? La comunità degli amanti o dei letterati? Molti tra quelli che oggi spengono sprezzanti la televisione lo pensano, ma non è stata questa la risposta di Bataille, il quale, nel 1937, individuava il proprio modello di comunità in Numanzia, l'eroica città che resiste fino alla morte all'assedio fascista di Scipione.
L'indicazione è precisa e suona assai inattuale alle nostre orecchie bipartisan: solo l'antifascismo può costituire il cuore di una comunità in divenire, solo l'antifascismo - un antifascismo vissuto fino allo spasmo nella sua dimensione metapolitica e «impossibile» - può essere il mito che fonda il luogo comune di uomini liberi. L'Acefalo disegnato da Masson sul frontespizio della rivista ne fu l'immagine convulsa.
il manifesto 15 maggio 2008
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