L'articolo risale ad anni che precedono l'assegnazione del Nobel alla nostra grande neurobiologa, che fu poi, da senatrice a vita, donna politica coraggiosa e lottò a fondo contro il berlusconismo. Esso testimonia - accanto all'impegno delle ricerca e alla felicità della scoperta - una grande passione divulgativa, non esente da ardimento. (S.L.L.)
Minuta ed elegante come
un'insegnante d'altri tempi, la professoressa Rita Levi Montalcini,
neurobiologa, visita le platee d'Italia ottenendo dovunque incondizionato
successo. Al «Piccolo» di Milano, il pubblico dei lunedì letterari l'ha
applaudita a scena aperta; venerdì scorso a Torino, ieri a Roma, dovunque la
professoressa spezzi il pane della scienza, la gente accorre come a un recital.
Argomento delle conferenze non sono le ricerche sul fattore di crescita
neuronale, che hanno guadagnato alla studiosa un posto eminente nella comunità
scientifica, ma un tema molto più divulgabile e di generale interesse: i tre
cervelli dell'uomo..
Sembra anatomicamente accertato
che il cervello dell'Homo sapiens sia
composto di tre parti che riflettono il
cammino dell'evoluzione: il cervello del rettile, il più arcaico e rudimentale;
il cervello dei mammiferi primitivi, quali noi siamo stati 180 milioni di anni
fa, quando cominciammo a sostituire i rettili nel dominio del mondo; e il cervello
dei mammiferi moderni, che abbiamo sviluppato a partire da quattro o cinque
milioni di anni fa. quando nelle savane dell'Africa orientale prese ad aggirarsi:
l'Homo habilis. Da questa
constatazione anatomica — sulla quale, come si diceva, sembra si ci sia un
generale consenso — la Levi Montalcini e tutta una serie di altri studiosi fanno
derivare conclusioni che escono dal campo puramente biologico per toccare la
sfera del sociale e anche del politico, fino a tentare una spiegazione di
quello che per l'umanità è il problema dei problemi: la violenza.
Il fatto che noi continuiamo a
condividere coi nostri predecessori i due vecchi cervelli è, secondo la
neurobiologa, un errore evolutivo, uno sbaglio della filogenesi gravido di
conseguenze. «Nel cervello dell'uomo», dice la professoressa, «c'è qualche vite
che non è stretta bene. I tre cervelli sono un po' scollegati tra loro e non sempre
quello più evoluto, il cervello neocorticale, riesce a controllare il cervello
del rettile». Rispetto al mammifero, il rettile è un animale alquanto rudimentale,
il cui comportamento è quasi tutto programmato nei geni, con poche possibilità
di adattamento: lo dimostrano, tra l'altro, le sue abitudini stereotipate.
I dragoni barbuti
Non privo di cervello limbico (il
nostro secondo cervello, sede dell'affettività più elementare), il rettile non
è però del tutto acefalo, fa vita comunitaria, intrattiene persino relazioni
sociali. Tra i «dragoni barbuti» dell'Australia, per esempio, si formano gruppi
in cui c'è un tiranno che vigila e comanda, mentre gli altri individui assumono
il ruolo di gregari. Quando il comportamento dei gregari non è consono, il lucertolone-capo
si adira e attacca, mentre i sudditi alzano la zampa in segno di pacificazione:
un gesto, quello dei rettili australiani, che ricorda il saluto romano di triste
memoria, il fnesti slogan tipo «credere, obbedire, combattere», l’ossequio incondizionato
al condottiero.
Quel residuo di rettile che è dentro
di noi è dunque la matrice di un programma, di un riflesso condizionato, che ci
porta d’istinto a reagire in un determinato modo.
Quando Hitler evocava le sofferenze
del popolo tedesco, la folla lanciava automaticamente grida contro la congiura
demo-pluto-giudaica. Le folle oceaniche sono un risultato del complesso
rettiliano. Il genocidio, cioè l'omicidio di massa per futili motivi, è, come
dice Arthur Koestler, una caratteristica peculiare della specie umana. «Il
genocidio, la violenza, le guerre», precisa Rita Levi Montalcini, «non sono il
prodotto dell'aggressività insita nell'uomo, come pensa Kon-rad Lorenz, ma, al
contrario, della remissività, della cieca obbedienza: nessuna specie come
l'umana è suscettibile di venire plasmata, dalla culla alla bara».
Chi può usare la bomba atomica
Le strutture cerebrali che
costituiscono il cervello rettiliano dell'uomo pesano complessivamente 40
grammi (il cervello, nel suo complesso, ne pesa in media 1600). Ciò corrisponde
a circa 0,6 grammi di paleocervello per chilogrammo di peso corporeo: come dire
che l'Homo sapiens ha una quantità di
cervello rettiliano venti volte superiore a quella che pure guidò le feroci
scorribande del tirannosauro, nelle fumiganti pianure del Mesozoico. Come dire,
scrive Luigi Yalzelli, che il rettile insediato nell'uomo dispone oggi di un
patrimonio cerebrale superiore di ben venti volte a quello che già lo rendeva
così dirompente 250 milioni di anni fa. La costruzione della bomba atomica, dice
Rita Levi Montalcini, è nata nei terzo cervello, quello del mammifero
superiore; l'idea di usarla può invece nascere nel cervello rettiliano: riuscirà
il cervello evoluto a impedire il mostruoso parto? L'uomo, da questo punto di
vista, appare come la più vulnerabile specie vivente.
Gli invertebrati continuano a essere
quegli organismi tutto stomaco e niente cervello che furono nella notte dei
tempi; anche i rettili sono un genere stabile, conservatosi pressappoco uguale
nel corso dell'evoluzione, L'uomo no, l'uomo è passato dalla deambulazione a
quattro zampe alla postura eretta, dalla vita arborea alla colonizzazione
dell'universo, da un cervello di 1400 grammi — tanto pesava quello dell'uomo di
Neanderthal — agli attuali venti miliardi di neuroni. In questo poderoso
cambiamento c’è il germe della fragilità dell'uomo, il seme
dell'autodistruzione.
Nel discorso dei tre cervelli è
insita una concezione finalistica dell'evoluzione, una visione teleologica del
mondo che sarebbe dispiaciuta a Jacques Monod e forse allo stesso Darwin. Ma il
pubblico si mostra d'accordo. Se alle conferenze di Thomas Huxley il pubblico
vittoriano apprendeva della propria «discendenza» dalle scimmie schiumando di
rabbia, i frequentatori dei venerdì, lunedì o martedì letterari accolgono oggi
con rassegnazione, anzi con favore, la notizia della nostra parentela col rettile.
Forse perché, a dargliela, è una tranquilla e garbata studiosa come Rita Levi
Montalcini; o forse perché la bizzarra idea della nostra ineluttabile intimità
col mostro, segretamente ci appaga.
“la Repubblica”, 12 novembre 1980
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