Ignazio Silone |
«I traslochi e i cambiamenti
vengono sempre dalla città; i commissari, gli ispettori, i controllori, i
vescovi, i direttori delle carceri, gli oratori delle corporazioni, i predicatori
gesuiti per gli esercizi spirituali, vengono sempre dalla città, i giornali, le
canzonette, "Tripoli bel suol d'amore", "Valencia",
"Giovinezza", "Faccetta nera", i grammofoni, le radio, i romanzi,
le cartoline al bromuro, vengono anche dalla città. Dalla montagna viene frate
Antifona, cappuccino, con la bisaccia per le elemosine, ogni martedì Sciatap
per il mercato; e ogni sabato magascià per il sale e il tabacco; da Pietrasecca
scende Cassarola, la fattucchiera, con le erbe, i peli del tasso e la pelle
delle serpi contro il malocchio; scese una volta da Pescasseroli un filosofo,
con le quattro differenziazioni dello spirito; e continuano a scendere gli
zampognari, per la novena dell'avvento».
Sono righe di un romanzo di
Ignazio Silone, Pane e Vino (Jonathan
Cape, Londra, 1937)…
Cosa mette Silone nell'elenco dei
poveri prodotti della montagna, stilato dal prete don Benedetto? Infila il filosofo
made in Pescasseroli, don Benedetto anch’egli, ma anche senatore e padre della
patria: lo specialista delle quattro differenziazioni dello spirito. E poi il
cappuccino, frate Antifona. Tra i doni della città vi sono i gesuiti per gli
esercizi spirituali. Vent’anni dopo, nello stesso elenco che compare nel rifacimento
Vino e pane (Mandadori, Milano, 1957)
mancano i gesuiti, il frate si chiama prosaicamente Gioacchino e il filosofo di
Pescasseroli è sparito. Silone, non più esule, sempre scontento, ha perso la
grinta. Il suo libro non è più veramente contro.
Il tempo non è più il presente, ma un imperfetto stinto. Mentre frate Antifona
«viene», il povero frate Gioacchino «dalla montagna scendeva»; come dire:
adesso non scende più. Ma Silone è il primo a rendersene conto.
In un passo che Claudio Marabini
premette opportunamente alle edizioni Mondadori di Vino e pane spiega così il suo punto di vista, un quarto di secolo
dopo: «L'avevo scritto subito dopo l'occupazione fascista dell'Abissinia e
durante i grandi processi di Mosca inscenati da Stalin per distruggere gli
ultimi residui dell'opposizione. Era difficile immaginare una coincidenza più
deprimente di eventi negativi… Pertanto il mio stato d'animo era più proclive
all'enfasi, al sarcasmo, al melodramma che a una pacata narrazione...»
da un ritaglio de “latalpalibri
il manifesto” senza data, forse 1989
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